rivista anarchica
anno 39 n. 345
giugno 2009


crisi

Cura di Stato per la crisi economica
di Luciano Lanza

Dopo il disastro generato da un ventennio di ipercapitalismo finanziario la mano pubblica interviene con leggi e finanziamenti per gestire il salvataggio di imprese e banche. E torna a occupare posizioni centrali la tecnoburocrazia pubblica. Ma quanta strada farà?


Avete fatto caso che dopo aver siglato l’accordo con i sindacati della Chrysler, Sergio Marchionne ha chiesto l’assenso di Washington trattando con Steven Rattner, l’uomo a cui Barack Obama ha affidato la patata bollente delle case automobilistiche americane? E allora? Domanderà qualcuno. Beh, questo «viaggio» a Washington ci racconta un fatto importante, ci narra come la crisi finanziaria, divenuta crisi economica generalizzata e mondiale, stia cambiando gli assetti di potere.
Lo stato guidato da Obama, così come quello di Nicolas Sarkozy, o quello di mister Silvio Berlusconi (e come tanti altri del mondo cosiddetto capitalista) diventa finanziatore di imprese. E lo fa «costretto» dalle dimensioni della crisi, per salvare posti di lavoro, per garantire (per quanto possibile) i risparmi di milioni di persone. Insomma, lo stato come salvatore che sana i guasti creati dall’ipercapitalismo finanziario.
Niente male, dopo un ventennio tutto all’insegna del liberalismo. Niente male per chi può presentarsi come il buon padre, il buon pastore che tutela il gregge. E a proposito di ventennio vi ricordate che cosa attuò Benito Mussolini per arginare gli effetti della crisi del 1929? Fondò nel 1933 l’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) affidandolo alle esperte mani di Alberto Beneduce, prima socialista e massone e poi fascista anomalo (si veda il recente libro di Mimmo Franzinelli e Marco Magnani, Beneduce. Il finanziere di Mussolini, Mondadori, Milano, 2009).
Così quell’ente, nato per fronteggiare la crisi e destinato a scomparire con la fine dell’emergenza, diventa permanente nel 1937, supera la guerra, da fascista assume le vesti da democristiano nel 1945 e arriva al massimo del suo potere alla fine degli anni Settanta. In quel periodo, assieme alle altre società che costituiscono le Partecipazioni statali, il settore pubblico è costituito da circa mille imprese che operano in 14 differenti settori, dalla siderurgia al cinema, dall’energia alla chimica, dal tessile alle autostrade e così via. Insomma, controlla quasi il 10 per cento del fatturato globale di tutte le imprese e concorre al 12 per cento del valore aggiunto globale. In 35 anni dalla fine della guerra l’area dell’economia pubblica (con l’Iri strumento più importante) era la realtà capace di condizionare i percorsi (anche politici e sociali) dell’intera Italia.

Svolta statalista

E chi gestiva quell’immenso apparato produttivo e gestionale? Una razza particolare di manager: metà burocrati o tecnocrati e metà politici. Una razza pronta a occupare nuovamente la scena economica. Non solo dell’Italia, ma di gran parte del mondo occidentale. E anche dell’ex impero sovietico. A nessuno è sfuggito come Vladimir Putin abbia messo in secondo piano (o in galera) molti megacapitalisti nati grazie alle privatizzazioni volute da Boris Eltsin. Privatizzazioni molto particolari, frutto di corruzioni o altro.
Bene, si va delineando un nuovo conflitto fra classi dirigenti. Una partita che si gioca all’interno della crisi economica. Certo, la storia non si ripete in fotocopia. Però, quando si rompono equilibri, quando falliscono colossi finanziari come Lehman brothers e vanno in crisi grandi banche si aprono spazi di conflittualità all’interno delle classi dirigenti.
Una partita tutta giocata fra quelli che tanti anni fa venivano definiti «nuovi padroni» per distinguerli da quelli tradizionali: i capitalisti-imprenditori. Una razza, quest’ultima, che ormai vive in alcune zone dell’economia che ricordano tanto le «riserve indiane». Quelle in cui gli yankee rinchiusero i pellerossa sconfitti dopo decenni di massacri.

Sindacati e manager uniti nella lotta

Torniamo all’accordo Fiat-Chrysler perché ci dà il senso di possibili percorsi futuri. Il fatto che i sindacati canadese (Caw) e statunitense (Uaw) diventino azionisti al 55 per cento della fabbrica di auto, con un 20 per cento dato alla Fiat (ma potrà salire al 35 per cento e poi al 51 per cento) perché porta in dote il know how per fare auto meno costose, meno inquinanti con consumo ridotto di carburante, e in un’altra quota del 10 per cento ai governi di USA e Canada, apre una pagina nuova. Ricca di significati. I dirigenti sindacali (portatori di una particolare managerialità: la gestione dei lavoratori) uniti con i manager «tradizionali» (gestori del processo produttivo e commerciale) configurano una sorta di resurrezione di quella «cogestione» (Mitbestimmung) caratteristica del modello industriale tedesco affermatosi negli anni Settanta del secolo scorso in Germania. Certo, il sindacato acquisisce questa quota (determinata dai crediti dei lavoratori verso l’azienda e come compenso per l’accettazione di salari ritoccati verso il basso) per assicurare i posti di lavoro. E per operai, tecnici e impiegati fra andarsene a casa con pochissime speranze di trovare un altro posto o diventare comproprietari dell’azienda attraverso il sindacato la scelta è sembrata quasi obbligata. Con un’illusione in più: i lavoratori si sentiranno un po’ padroni dell’impresa, ma a decidere saranno dirigenti sindacali e dirigenti industriali.

Luciano Lanza