rivista anarchica
anno 39 n. 345
giugno 2009


crisi

False speranze o risposta radicale
di Andrea Papi

Un’analisi semplice dell’attuale situazione economica, finanziaria e sociale. E alcune proposte per uscire dalla crisi contro chi l’ha provocata.


I gestori-fautori-complici del vigente sistema di potere, economico politico e tecnologico insieme, hanno affinato al massimo l’affabulazione, tecnica raffinata d’imbonimento mediatico. Sono sempre più bravi a raccontarci favole e a farcele credere. Lanciano slogan che colpiscono emotivamente e rimangono impressi perché ci impressionano, motivandoli però con cifre e linguaggi elitari comprensibili solo dagli addetti ai lavori, per cui è difficile esercitare il giusto spirito critico utile a farsi opinioni e decidere se ha senso ciò che ci propinano. Agendo sulle emozioni e mortificando la razionalità riescono ad indurre a seguirli le moltitudini, prive degli strumenti per approfondire e della voglia di farsi un’idea propria. Un modo estremamente efficace per tenere imbrigliate le masse (come si diceva una volta) e continuare a fotterci ottenendo un consenso, appunto, “di massa”.
Il ministro dell’economia in carica Giulio Tremonti, intervistato su Rai-tre domenica 19 aprile, in linea e in sintonia col governatore della Banca d’Italia Mario Draghi che l’aveva preceduto, annuncia trionfalmente che “l’incubo degli incubi”, il crollo finanziario globale, è finito. Sottolinea che il rischio di un’apocalisse finanziaria si sta riducendo e con enfasi ottimista afferma che possiamo cominciare a guardare al futuro con qualche speranza. Il furbone ha però aggiunto che ci troviamo ancora in una situazione incognita, per cui bisogna essere prudenti sui tempi necessari per uscire dalla crisi. Gli ha fatto eco immediatamente la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia dichiarando che il peggio è passato e che i segnali in questo senso sono ancora deboli, ma ci sono. Insomma, è come dire: «Cominciate a stare tranquilli, anche se non si sa bene né come né perché».
Sembra quasi che la classe dirigente italiana si sia concordemente conformata al modus operandi berlusconiano, di dettare le direttive generali attraverso un’opera incessante di induzione mediatica, spargendo a piene mani e ad ampio raggio di parole un rassicurante ottimismo di maniera. Come se una crisi così profonda come quella in atto, nient’affatto generata da psicosi collettive, ma da cedimenti strutturali del sistema finanziario internazionale, potesse essere contrastata con un cambiamento indotto dello stato d’animo generale. Quasi bastasse semplicemente essere e sentirsi più ottimisti. Come ben si sa, “se son rose fioriranno”. Intanto non buttiamoci troppo giù! In verità hanno tutta l’aria di non esser altro che sacrosante balle, più che altro adatte a rincoglionirci ancora di più di quello che già siamo.
Il presidente USA Barak Obama invece dal vertice delle Americhe a Trinidad dichiara che non siamo fuori dal tunnel e per l’economia mondiale si prospettano ancora tempi difficili perché il credito continua a non fluire. Mentre il Fondo Monetario Internazionale martedì 21 aprile ha diffuso delle stime secondo cui è bene per tutti prepararsi ad una crisi lunga e difficile, che potrebbe costare al sistema finanziario globale circa 4.000 miliardi di dollari fino al lento inizio di ripresa, previsto entro la fine del 2010. Con la conseguenza che il debito pubblico di tutti i paesi corre seri rischi di lievitare enormemente. In particolare fa sapere che quello italiano già l’anno prossimo potrebbe salire alla quota record del 121%, cioè di 15 punti in più rispetto al 2008 e di 9 in relazione alle ultime previsioni del piano di stabilità del governo berlusconiano in carica. Tra i grandi solo il Giappone starebbe peggio di noi. La crisi mondiale in atto costerà perciò molto cara e sta pesando come non mai sui bilanci pubblici, in special modo su quello italiano, al di là delle allegre dichiarazioni degli “ottimisti” di casa nostra.

Vortice sibillino di numeri

Che cosa possiamo dire noi poveri cristi di fronte agli spazi siderali di questi cifre? Che ne possiamo sapere? È un empireo che ci sovrasta e di cui possiamo solo subire le conseguenze. Ci viene solo da chiederci come mai gli organismi internazionali affermano cose che contrastano con le affermazioni delle star politiche nostrane. Non sono forse mesi che Tremonti, forte della credibilità acquisita per esser stato uno dei pochissimi che aveva previsto la crisi prima che scoppiasse, ad ogni occasione ci sottolinea con fare finto sornione che ad una crisi globale non si può che rispondere con misure globali? Se ne indurrebbe che non ha senso una visione limitata all’ambito nazionale. Come si concilia allora la sua iniziale sbandierata visuale a tutto campo con la propaganda che fa ora di una situazione che ci vuol far credere delimitata all’interno dei nostri confini, contrabbandati con gran disinvoltura governativa come più sicuri degli altri?
Personalmente sono convinto che per tentare di comprendere il senso di quello che sta avvenendo bisogna liberarsi dal voler capire le per noi incomprensibili contorsioni del cifrario malefico che ci viene propinato quotidianamente. Quel vortice sibillino appartiene a loro, non a noi. La differenza fondamentale è che loro ragionano abbarbicati su piedistalli di privilegi iperbolici, dall’alto dei quali ci riversano addosso il loro ragionare facendoci pagare le conseguenze delle loro malefatte. A noi subire, a loro pensare per tutti con la scusa di poter risolvere l’irrisolvibile.
C’è innanzitutto un punto fondamentale che ci distanzia, fino a farci trovare su lati contrapposti. Per loro i fattori principali che hanno causato il disastro risiedono essenzialmente nel pessimo funzionamento del sistema per come si è involuto negli ultimi decenni. Di qui la considerazione che basti trovare il modo di correggerlo per riportarlo ad un livello di funzionamento, sempre per loro, accettabile. Per noi le origini di un tale marasma vanno oltre i confini di gestione della speculazione finanziaria globale. Quello che sta succedendo è un primo terremoto di elevata intensità di una crisi di sistema, inteso nella sua interezza, molto più ampia e dilatata delle anguste delimitazioni di frontiera in cui vorrebbero racchiuderla.
Sono le fondamenta e le colonne portanti che hanno cominciato a incrinarsi paurosamente, non i fondamentali di applicazione. La crisi questa volta si è manifestata a partire dal piano finanziario per poi dilatarsi a tutti gli ambiti economici, ma è solo un campanello d’allarme di una malattia ben più vasta che travalica gli ambiti specifici in cui è apparsa e si muove. Le sue dimensioni investono in realtà l’intera sfera delle strutture di dominio su cui si sorregge il fondamento dell’attuale modo di essere società e della sua economia, che ne è la parte preponderante. Sicuramente fra qualche anno riusciranno a risolverla. Ma lo faranno dal loro punto di vista, che sarà quello di correggere ciò che non ha funzionato nei meandri applicativi. Rimarranno però intatte la filosofia e le fondamenta del sistema. Molto probabilmente sarà inevitabile che fra qualche tempo se ne riproporrà un’altra, anch’essa profonda e foriera di molte vittime, che magari non partirà dal livello finanziario.
Se non si accetta l’idea che questa crisi è soprattutto un campanello d’allarme, una segnalazione congiunturale di qualcosa di molto più ampio e radicato, non se ne verrà mai a capo. Non è solo questione di capitalismo, o liberismo che dir si voglia. La forma di gestione privatistica e finanziaria del capitale che ora stiamo subendo esprime il modo e le forme consolidate con cui il dominio si è attrezzato nel tempo, per continuare a prevalere e a prevaricare ad esclusivo vantaggio delle oligarchie dominanti. Nella sostanza il problema di fondo sono le forme del dominio prima di quelle capitalistiche. Dietro l’aspetto di questa crisi finanziaria globale bisogna allora vedere e identificare la crisi di senso e di valori su cui si fonda il sistema di dominio vigente.

Degrado ambientale

Al di là delle volontà dichiarate, il sistema vigente non è affatto fondato su principi di equilibrio stabile, bensì sul mantenimento di una costante di disequilibri strutturali, che hanno il compito di continuare a favorire la continuità del complesso sistema dei privilegi a favore del potere dei potenti di turno. Per questo è caratterizzato da un’endemica costante di precarietà che non può che generare dilanianti crisi periodiche. Siccome si fonda sul bisogno insito di una continua crescita illimitata ovviamente non può perdurare all’infinito. Non può perciò che subire periodiche fasi d’arresto che lo costringono a crisi momentanee.
Ma si fonda anche sull’impiego senza limiti di sperpero delle risorse naturali, di cui ha necessità per produrre senza sosta merci da immettere sui mercati. Siccome le risorse naturali non sono illimitate le impoverisce fino al loro esaurimento totale; una volta esaurite lascia il vuoto, ma non se ne preoccupa e fa ricerca per buttarsi su altre al fine di sfruttarle fino ad esaurire anch’esse. Si fonda pure sul bisogno di una crescita costante dei consumi delle merci, che produce senza tener conto dell’impatto ambientale, vorace com’è dei guadagni che devono aumentare i profitti che ne ricava. Per guadagnare il più possibile tende però ad elargire salari sempre più bassi. Dal momento che i potenziali consumatori per consumare hanno bisogno di soldi, mentre ne ricevono sempre meno perché i soldi circolano invece sempre di più nei meandri della speculazione finanziaria, una volta raggiunto il picco di crescita si scatenano depressioni che impoveriscono i mercati e bloccano l’economia, mentre gli stati, i cosiddetti apparati di garanzia, succhiano fondi attraverso i meccanismi fiscali aumentando ulteriormente l’incremento di povertà che ne consegue.
A questo panorama strutturale aggiungiamo il degrado ambientale globale che ne consegue, per cui ormai i costi riparatori, pagati coi soldi dei contribuenti dagli organismi sociali che se ne occupano, stanno superando gli introiti privati degli oligarchi. Dobbiamo inoltre tener conto del fatto che se l’intera popolazione mondiale potesse consumare quanto i paesi più ricchi, come ne avrebbe diritto, secondo dati ONU non basterebbero le risorse a disposizione della terra. Ci vorrebbero almeno altri quattro pianeti (c’è chi dice addirittura sei). Di fronte a tutto ciò appare davvero risibile la logica riparativa che stanno mettendo in atto i potenti della terra, basata sulla semplice correzione dei meccanismi fondamentali che hanno fallito. Il loro scopo, infatti, non è altro che quello di salvaguardare il sistema nel suo insieme e nei suoi fondamenti.
Mi sembra che si renda indispensabile uno sguardo alternativo e innovativo, capace di andare oltre quello dei potenti e degli oligarchi della terra, e di porsi il problema strategico di una trasformazione globale del senso e dei fondamenti, con lo scopo di rifondare nel suo complesso il sistema di convivenza e di relazioni sociali. Bisognerebbe trovar la forza, la lucidità e la volontà di mirare a minare l’enorme potere di cui sono forniti gli attuali gestori del mondo, nella prospettiva di tentare di trasformare il tutto, per cominciare a mettere in piedi una società non più del dominio e che sia in grado di amministrarsi attraverso forme di economia solidale, affossando il capitalismo consumistico-finanziario operante.
È ora di finirla con opposizioni che si limitano a soffiare sul fuoco della rivolta o a chiedere massicce dosi di assistenzialismo statale. È ora di comprendere che questo modo di lottare è sterile e non porta da nessuna parte. Bisognerebbe invece abbracciare una visione strategica che avesse l’intento di cominciare a mettere in piedi spazi di società autonomi, autogestiti e solidali, che si ponessero nella prospettiva di dilatarsi all’insieme sociale fino a creare una società alternativa che abbia il compito di soppiantare e sostituirsi a quella vigente. Di fronte alla continua incalzante crisi ecologica mondiale, per esempio, cosa si aspetta a mettere in discussione la qualità e il tipo di produzione, continuando a non far altro che tentare di difendere i posti di lavoro, senza fra l’altro neppure riuscirci? Perché invece di limitarsi ad esigere la distribuzione degli ammortizzatori sociali a chi rimane senza lavoro non si espropriano i luoghi di produzione improduttivi per il sistema e non si lotta per ottenere finanziamenti per la loro riconversione, gestita direttamente dai produttori, in beni puliti e socialmente utili?
Come si fa a non capire che c’è un bisogno imprescindibile di cambiare la visione della lotta per i subordinati e del mondo per l’intera umanità? Se non si comincia ad elaborare creativamente un altro modo di lottare e di opporsi, con l’intento dichiarato e sperimentale dell’autocostruzione di una vera alternativa radicale al sistema di cose presente, non si potrà far altro che continuare a ripiombare nel baratro in cui ci stanno trascinando gli oligarchi e i potenti della terra.

Andrea Papi