rivista anarchica
anno 39 n. 345
giugno 2009


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Soggetti
traditi

 

1. Nel 1766, il filosofo inglese David Hume, con quello scarso entusiasmo con il quale parla della vita in genere e delle virtù umane in particolare, si trovò a dover dare una mano al filosofo svizzero Jean Jacques Rousseau.
Rousseau, tanto per cambiare, era nei guai. Nel 1759, pubblicando la sua Lettera a D’Alembert sul teatro, aveva rotto con gli illuministi; più tardi, pubblicando La nuova Eloisa, Il contratto sociale e l’Emilio con la sua quarta parte, meglio nota come La professione di fede di un vicario savoiardo, si era inimicato tutte le istituzioni religiose e molti potenti. Non tutti, però, perché qualche nobildonna disposta a proteggerlo ed a mantenerlo, in fin dei conti, l’ha sempre trovata. Tuttavia, o perché si sentisse a rischio in virtù di un complesso di persecuzione molto sviluppato, o perché a rischio lo fosse davvero, ci fu il momento in cui l’Europa gli andò stretta e, grazie ai maneggi delle conventicole intellettuali, riuscì ad imbarcarsi – con Hume nel ruolo di protettore, per l’appunto – verso quell’Inghilterra che, all’epoca, costituiva e voleva costituire per tutti un modello di tolleranza e libertà.
Tutto avrebbe potuto garantire che il loro rapporto si sarebbe incrinato ben presto. Hume era persona schiva e piuttosto riservata, scettico rigoroso, fermamente intenzionato a corroborare la sua filosofia con comportamenti moralmente ineccepibili. Rousseau nelle contraddizioni ci sguazzava: predicava l’amore universale mentre obbligava la sua governante-amante a disfarsi dei figli partoriti lasciandoli sullo stuoino dell’orfanotrofio; tuonava contro il potere ma cercava la protezione dei suoi rappresentanti; elemosinava pensioni ma purché non si sapesse in giro; inneggiava alla libertà ma ricattava moralmente chiunque disgraziatamente gli giungesse a tiro. Gran coltivatore di paranoie, scorgeva trame oscure a suo danno ovunque – ordite, soprattutto, dagli incauti benefattori.
Ovvio che, dopo un po’, Hume non ne potesse più e non vedesse l’ora di toglierselo d’attorno – e più usava tatto per liberarsene e più l’altro sospettava chissà quali nefandezze muovendo mari e monti per immunizzarsene. La goccia che ha fatto traboccare il vaso forse è chiara forse no, ma, vista l’indiscutibile pochezza della cosa, non interessa un granché.
Rousseau starà in Inghilterra per un anno e qualche mese, ma, nel frattempo – facendo comprensibilmente perdere la pazienza ad Hume –, lettere, libelli, articoli di giornale e pettegolezzi avevano messo al corrente dei suoi incomprensibili drammi tutta l’Europa colta e altolocata.

2. La deviazione netta dalla linearità del loro rapporto apparentemente di reciproca stima, amichevole e fin affettuoso – si racconta persino di un Rousseau che salta sulle ginocchia di Hume baciandolo fra lacrime di commozione (m’immagino la faccia di Hume) – , la deviazione, dicevo, avviene in una lettera, allorquando Hume, che evidentemente proprio non ne può più, per la prima volta, modifica la propria soggettività parlando di sé in terza persona. Pronto, prontissimo, nella lettera di risposta – che maniacalmente suddivide in ben 63 paragrafi – , anche Rousseau rinuncerà all’io per parlare di sé alla terza persona. Come se, all’improvviso, i protagonisti della disputa si impersonalizzassero, negassero l’uno all’altro ogni eventuale intenzionalità di rapporto e si citassero come meri testimoni nel tribunale universale della posterità.

3. La maggior parte di chi scrive – di chi scrive storie che potenzialmente siano letture altrui – , prima o poi, d’altronde, si trova di fronte alla scelta del soggetto come problema. La più famosa è la drastica scelta tra l’io e l’egli, tra i limiti di una testimonianza diretta e lo strapotere di chi può guardare alla storia narrata da ogni pertugio ed in ogni momento – una storia che può iniziare e finire quando pare all’autore, una storia che ha protagonisti senza segreti perché l’autore, a piacimento, può governarne l’anima. Ma può anche darsi il caso in cui la scelta iniziale di un soggetto non vincoli l’intera narrazione.
Faccio un caso. Un lungo racconto di Anton Cechov, Caccia tragica – scritto tra il 1884 e il 1885 e ambientato nel 1880 – , s’impernia sulla vicenda di un redattore di giornale che riceve la visita di un giudice istruttore. Costui gli consegna un romanzo – che, guarda caso, si intitola Caccia tragica – dove si parla di un omicidio (“la gente ne ha fin sopra i capelli” di racconti polizieschi, dice il giornalista senza sospettare che il Novecento e l’oltre ne sarebbero stati zeppi). Ma, una volta terminatane la lettura, reincontrato l’autore, si scopre che l’assassino è proprio lui, l’io narrante del romanzo.
Si tratta di un racconto in cui si alternano due soggetti narranti, due “io”, ben distinti dalla struttura stessa del racconto: due tempi narrativi, quello del lettore nel racconto e quello del romanzo.
Faccio un altro caso. Allorché André Gide incontrò Proust portandogli una copia del suo Corydon (nome di un pastore nelle Bucoliche di Virgilio), si confessarono reciprocamente la propria omosessualità e Gide provò ad anticipare a Proust alcuni episodi che avrebbero dovuto trovar posto nella sua autobiografia. Proust gli disse che poteva scrivere tutto quello che voleva a condizione di non usare mai la prima persona singolare. Mai “io” – il che, in vista di un’autobiografia, fu ritenuto da Gide un consiglio piuttosto difficile da seguire. Come dargli torto ?
Il consiglio, d’altronde, non proveniva dal semplice uzzolo di un momento. In Proust, infatti, spesso, avviene un cambio di soggetto – dall’“io” al “noi”, ecco una scelta non drasticissima, la scelta di un soggetto misto –, ma, come è facile intuire, per designare un passaggio: dal singolo al collettivo di cui il singolo si sente di far parte – o per chiamare il lettore ad una sorta di complicità con l’autore.

4. Nel cinema, cambio di soggetto famoso è quello orchestrato in Rashomon di Akira Kurosawa, nel 1950. Tre persone raccontano un delitto assumendosene la responsabilità ma raccontando una bugia. Analogamente, la soluzione è adottata da François Villiers, nel 1961, con Il pozzo delle tre verità, con Michèle Morgan, Catherine Spaak e Jean Claude Brialy, madre, figlia e amante della madre pronto al cambio, ovvero i tre soggetti che, in successione, daranno la loro versione dei fatti. Il problema del cinema, tuttavia, resta quello della difficoltà ad esprimere un pronome, perché voce narrante e sua struttura percettiva – così come appare, dai risultati, allo spettatore – sono spezzate irrimediabilmente.

5. Anche Fabio Landini, l’autore di Una cosa che non sai (Carte Scoperte, Milano 2009), si mette alla prova con un cambio di soggetto e riesce a farlo nel modo meno appariscente possibile – facendo quasi defluire un soggetto nell’altro, con scarti non tutti immediatamente percettibili, fino a quando il lettore si trova a dover riclassificare tutti i dati costituiti da quanto ha letto fino a quel momento, assegnandoli ad un soggetto diverso rispetto al quale era abituato ad operare.
Non indifferente ai fini del bilancio conclusivo del romanzo è il fatto che le due prime persone singolari, i due soggetti, siano assegnati rispettivamente ad un uomo e ad una donna. In ballo c’è un’autopsia di un rapporto di coppia – non eseguita dal distaccato uomo di scienza o dal deus ex machina letterario di turno –, ma dalla coppia medesima, componente su componente, in virtuale reciprocità.
E non indifferente – ai fini del bilancio conclusivo – è il fatto che sia il secondo soggetto a mangiarsi metaforicamente il primo, a divorarselo, a rovesciarne la brillante razionalità ed a prospettare al lettore logiche tutt’affatto diverse.
Neppure indifferente – a ben guardare –, infine, è il fatto che il titolo stesso sia costituito da un segmento di discorso diretto – Una cosa che non sai – in cui ci si rivolge ad un “tu” – senza che il lettore possa esser mai sicuro di averne preventivamente individuato il destinatario.

6. La vicenda dell’increscioso rapporto tra Hume e Rousseau è raccontata con puntigliosa dovizia di particolari da David Edmonds e da John Eidinow ne Il cane di Rousseau (Garzanti, Milano 2009). Nonostante per me sia del tutto evidente che le ragioni stavano tutte dalla parte di Hume e i torti tutti dalla parte di Rousseau, Edmonds e Eidinow agiscono con molta circospezione. Ricordano Bertrand Russell che diceva: “Rousseau era pazzo, ma ebbe una notevole influenza; Hume era sano di mente, ma non ebbe seguaci” – affermazione che Russell avrebbe potuto risparmiarsi, perché sembra, allora, che il valore di un pensiero debba essere determinato dal successo sociale che questo pensiero ha riscosso, mentre si dimentica del fatto che potenti agenzie – ben più potenti dei singoli pensatori – contribuiscono a questa determinazione. Così iniziano con l’evidenziare le ragioni di Hume, ma, pian piano, gradualmente, tentano di far emergere le ragioni tutte superiori di Rousseau – più moderno, più romantico, perché, per l’appunto, autocontraddittorio, più artista, più letterato, più emotivo e più emozionante, più metabolizzabile – direi io – , più digeribile dal pragmatico intellettuale del giorno d’oggi. Si tratta di sagaci tecniche di valorizzazione – quelle che, alla conclusione di un libro, ci fanno appassionare per i destini dell’uno detestando l’altro.
Se, dunque, volessi innalzare a questo piano di etica delle narrazioni anche il romanzo di Landini, Una cosa che non sai, e dunque volessi individuarne il segno politico cruciale, dovrei far notare come l’autore non cada nella banale soluzione manichea di inzeppare di stigmi negativi uno dei suoi personaggi affinché il lettore non nutra mai alcun dubbio sulla parte da cui stare. Il suo personaggio maschile – il primo dei suoi soggetti – è brillantemente connotato di brillantezza intellettuale, sprizza razionalità e arguzia da tutti i pori, evita di quel pelo che basta i canoni di quella religione del successo che lo pietrificherebbero hic et nunc in un ennesimo paria sociale, ma tutto questo paradigma di positività non gli sarà sufficiente per salvargli l’anima. E se il soggetto che viene a vicariarlo è femmina – oberata da una storia raccontata da altri, oberata da una Storia interpretata dall’altro – peggio per lui e meglio per il mondo nostro – per il mondo di cui la letteratura è soltanto una particina –, dove di consapevolezza in ordine ai processi con cui ci si forma i valori c’è bisogno come del pane, perché soltanto da lì può seguirne, di questi valori, una distribuzione più equa.

7. Il titolo del libro di Edmonds e Eidinow è Il cane di Rousseau e avendo Rousseau effettivamente con sé un cane, Sultan, allorché si imbarca per l’Inghilterra con Hume, il lettore sarebbe autorizzato ad ipotizzarlo protagonista. Che abbia avuto un ruolo nella breve e tormentata vicenda inglese di Rousseau. Invece, ci si dovrà rendere conto – qui sì – di un tradimento bello e buono, in omaggio a quel principio truffaldino che, considerando poco vendibili i libri che nel titolo dicono esattamente di che parlano – “Origini e natura del dissidio sorto nel 1766 tra David Hume e Jean Jacques Rousseau”, per esempio – , impone titoli suggestivi o comunque frutto di associazioni inusuali. Sultan, infatti, rimane una comparsa sullo sfondo della vicenda e protagonista di un ulteriore cambio di soggetto. Il cane in questione non è lui. Il cane in questione sarebbe un cane metaforico, una sorta di fantasma che ringhia al padrone, la bestia che gli si intromette nella mente facendogli vedere dappertutto intrighi a suo danno, complotti e tradimenti. Più o meno come quelli che vedo io dopo aver comprato un libro con un titolo fasullo.

Felice Accame

Note
Di Rousseau mi sono già occupato più volte. Quella che amo ricordare di più è titolata La mammella della repubblica, in “Paginauno”, 7, 2008. L’episodio dell’incontro fra Proust e Gide è raccontato in William C. Carter, Proust in love, Castelvecchi, Roma 2007, pp. 46-47.