rivista anarchica
anno 39 n. 345
giugno 2009


terremoto

Terremoto e prevenzione
dei geologi del Laboratorio EcoAmbientale del Centro sociale occupato e autogestito Forte Prenestino (Roma)

Questo testo contiene delle prime note informative sulle cause del terremoto e su quello che dovrebbe essere approntato per affrontare adeguatamente il rischio sismico. È stato redatto dai geologi del Laboratorio EcoAmbientale di Forte Prenestino di Roma in seguito all’incontro avuto il 17 aprile con gli abitanti del campo di Fossa, organizzato dai compagni e dalle compagne dello Spazio Libero 51 di L’Aquila.


Il 17 aprile 2009, in seguito al terremoto de L’Aquila, si è svolta, nel campo di Fossa, la prima assemblea pubblica convocata dallo Spazio Libero 51 di L’Aquila e dai geologi del Laboratorio Eco-Ambientale del Forte Prenestino. L’assemblea ha avuto lo scopo di informare i/le partecipanti riguardo le dinamiche geologiche che generano i terremoti e riguardo le cause principali che portano al collasso dei manufatti durante i terremoti stessi. Si è cercato, inoltre, di discutere gli scenari futuri possibili, marcando il dibattito su una ricostruzione eco-sensibile che porti ad una gestione autonoma del territorio, in virtù delle grandi potenzialità ecologiche territoriali. Di seguito vengono riportate, in estrema sintesi, le tematiche tecniche sviluppate nell’assemblea.
I continenti della Terra possono essere immaginati come delle enormi zolle rocciose in grado di muoversi perché spinti da grandissime forze interne alla Terra stessa. Tali forze derivano da movimenti di materiale fuso/viscoso nella zona che si trova tra la crosta terrestre e il nucleo terrestre, chiamata mantello. Ciò che succede nel mantello e, conseguentemente, nelle zolle rocciose che costituiscono la crosta terrestre può essere immaginato guardando una pentola d’acqua bollire a fuoco lento. L’acqua è il mantello, mentre le bollicine in superficie che si allontanano o si scontrano, magari unendosi, sono le zolle rocciose (o placche tettoniche). Rispetto al mantello le placche tettoniche sono rigide e per muoversi possono “scivolare” l’una sotto l’altra (subduzione) o rompersi secondo linee di rottura (faglie). In generale, gli attriti che si sviluppano lungo le aree in subduzione e lungo le faglie impediscono, da un lato, il movimento delle parti a contatto e, dall’altro, permettono che si accumuli energia. Quest’ultima può liberarsi molto velocemente quando supera gli attriti stessi e generare, così, onde sismiche; un po’ come quando tendiamo un elastico al punto di romperlo.
In particolare, la penisola italiana si è formata dalla collisione tra la placca tettonica africana e quella europea e dalla collisione tra la placca tirrenica e quella adriatica. Le prime due placche si sono unite e sollevate, formando la catena alpina, mentre le seconde hanno formato due archi di collisione-subduzione (vale a dire: collisione e scivolamento di una placca sotto l’altra), quello dell’Appennino settentrionale e quello dell’Appennino meridionale e calabro-siciliano.
Attualmente questi archi continuano a sollevare la catena appenninica e generano la maggior parte dei terremoti della penisola. Tutta la fascia appenninica si trova, quindi, in una zona di sutura tra due placche in cui le rocce che occupano la parte superficiale della crosta terrestre vengono coinvolte prevalentemente in movimenti orizzontali compressivi e, secondariamente, in movimenti orizzontali trascorrenti e rotativi al contatto dei due archi, in Italia centrale.

Leggi disattese

Il terremoto è un evento naturale diffuso come pochi altri, in un anno se ne registrano nel mondo circa un milione, solo qualche migliaio è abbastanza forte da essere percepito dall’essere umano e solo qualche decina è in grado di causare gravi danni (Accordi-Palmieri, “Il globo terrestre e la sua evoluzione”). Quello che ha colpito la zona de L’Aquila, la cui scossa principale ha avuto una profondità dell’ipocentro di circa 9 km ed una magnitudo inferiore ai 6 gradi della scala Richter, in altri paesi sismici, come ad esempio il Giappone, molto probabilmente non avrebbe provocato nemmeno dei lievi danni architettonici e forse avrebbe spinto gli impiegati di un ufficio ad avere la scusa per andare a bere un tè! Questo perché in Giappone gli edifici vengono costruiti con criteri antisismici in quanto si è investito sulla sicurezza strutturale delle abitazioni anche in senso dinamico. In Italia, invece, pur essendo note le aree sismicamente attive (Appennino e gran parte della Sicilia) non vengono praticati i criteri costruttivi e ristrutturativi adeguati in senso antisismico.
In realtà nel nostro paese le leggi e le normative tecniche per costruire in zona sismica ci sono (vedi tutte le norme tecniche per le costruzioni che si sono susseguite nel tempo fin dagli anni ’70 e che sono culminate ad oggi nel DM 14/01/2008). Solo che, al solito, tali leggi vengono spesso disattese, specialmente nella fase realizzativa degli edifici, perché costruire con i giusti criteri antisismici ha un costo maggiore e le imprese edili realizzano spesso maggiori guadagni risparmiando sul materiale e sulle tecniche costruttive, pur ricevendo compensi per manufatti antisismici. Nel quadro normativo è contemplata anche la verifica sismica del patrimonio edilizio già esistente, con l’adeguamento antisismico specialmente degli edifici sensibili, come scuole e ospedali. Inoltre, nelle norme è contenuta la riclassificazione sismica del territorio italiano in zone di pericolosità (la più recente effettuata nel 2003) in base ai dati forniti dalla “macrozonazione sismica”. Questa assegna un grado di pericolosità, da 1 a 4 con pericolosità decrescente, in funzione di dati statistici legati alla ripetizione temporale di un evento sismico in una certa zona (L’Aquila ad esempio è compresa in zona 2, quindi degna di attenzione).
Nelle ultime versioni della normativa è contenuta anche una certa attenzione, anche se soltanto in via teorica e parziale, ai cosiddetti “effetti di sito”, ossia quegli elementi locali legati alla geologia che possono amplificare gli effetti di un sisma, il cui studio è oggetto della “microzonazione sismica”.
Gli studi di microzonazione sismica andrebbero applicati realmente, almeno nelle zone di pericolosità 1 e 2, in quanto le amplificazioni locali delle onde sismiche sono spesso determinanti nella diffusione selettiva dei danni provocati dal terremoto. Per fare un esempio, spesso succede che due edifici identici per geometria e caratteristiche di resistenza, che si trovano all’interno di uno stesso abitato, interessati dalla stessa scossa di terremoto, rispondono diversamente alla sollecitazione dinamica, fino alla situazione estrema, a volte, in cui uno collassa e l’altro rimane integro. Se ci si attiene ai soli dati macroscopici, relativi alla magnitudo liberata dal terremoto e alle caratteristiche geometriche e di resistenza dei due edifici, non si riesce a spiegare la causa di un tale comportamento, ma, approfondendo gli studi a livello locale si può conoscere se i due edifici erano fondati su terreni diversi dal punto di vista geologico (magari quello crollato su sabbia, e l’altro su roccia rigida), oppure entrambi su terreni, ad esempio, sabbiosi ma con diverso spessore, oppure sulla medesima geologia, però magari uno su una zona pianeggiante e l’altro sul culmine di un rilievo o sull’orlo di una scarpata.

Gli elementi al contorno che regolano gli effetti di amplificazione sismica in un determinato sito territoriale sono molteplici, sia di natura geologico-stratigrafica che morfologica, per questo non sono sufficienti le indicazioni teoriche dell’attuale legislazione, ad ogni modo sarebbe un inizio se almeno queste ultime fossero prese in considerazione.

Leggerezza e deformabilità

Per rendere più sicuro un territorio urbanizzato dichiaratamente sismico (almeno nelle aree di pericolosità 1 e 2), bisognerebbe approntare degli studi di microzonazione sismica, al fine di suddividere il territorio in aree diverse a seconda dell’amplificazione reale del sito in questione. Ciò è possibile attraverso l’impiego simultaneo di sensori posti su rocce di natura diversa che permettono di ricavare le cosiddette “funzioni di trasferimento”, ossia, come si trasmette l’energia sismica, ad esempio, da una roccia rigida ad una non rigida, oppure da una zona pianeggiante ad un rilievo topografico. In questo modo si possono conoscere, quantitativamente, le caratteristiche di amplificazione o smorzamento delle onde sismiche da parte di uno specifico terreno, oppure le caratteristiche di amplificazione di una valle alluvionale, specialmente ai bordi, per il fenomeno dell’intrappolamento delle onde sismiche che provoca riflessioni multiple delle stesse. In modo sperimentale, ossia reale, andrebbe ricavato il cosiddetto “spettro di risposta del sito”, ossia le frequenze di vibrazione con cui arrivano le onde sismiche su una certa superficie dove si intende costruire un manufatto. Cosa di fondamentale importanza se si vogliono evitare fenomeni di risonanza che si verificano quando le frequenze del terremoto sono vicine o addirittura le stesse di quelle con cui un manufatto oscilla se sollecitato dinamicamente. Tutto ciò è possibile perché le capacità ed i mezzi tecnici ci sono.
Sulla base dei dati sperimentali si può passare alla fase progettuale di una nuova struttura o all’adeguamento di una struttura già esistente. A seconda dei casi si potranno usare nuovi materiali o migliorare le caratteristiche dei materiali in posto (nei centri storici o nelle vecchie case in muratura). Una delle caratteristiche importanti nella scelta del materiale è la leggerezza; più una struttura è pesante e più le forze sismiche che la investiranno saranno grandi.
Un’altra caratteristica importante è la deformabilità; il materiale si deve cioè deformare il più possibile ritardando al massimo, in termini di quantità di sforzo, il punto di collasso totale. I materiali devono essere in grado di dissipare l’energia attraverso le oscillazioni elastiche e, qualora questa aumenti oltrepassando il campo elastico della deformazione, devono essere in grado di assorbire l’energia attraverso le deformazioni plastiche, senza arrivare al collasso strutturale. Da questo punto di vista i materiali con un comportamento fragile (come il calcestruzzo), se non hanno alti livelli di resistenza non sono idonei, perché hanno un ristretto campo di deformabilità elastica e specialmente plastica.

Sembra che uno dei materiali che racchiuda in se la maggior parte delle caratteristiche antisismiche sia il legno, specialmente quello “lamellare”, con cui è possibile costruire anche travi molto più lunghe di quelle in calcestruzzo, con ottime caratteristiche di resistenza e deformabilità.
La muratura semplice, costituita da elementi resistenti artificiali (laterizi) o naturali (blocchi di roccia) è svantaggiosa per la sua pesantezza e disomogeneità, con molte linee di debolezza (la malta) rispetto alla resistenza dei blocchi, che provocano la concentrazione degli sforzi sismici.
Tuttavia è con questo materiale che sono costruiti la maggior parte degli edifici storici dei centri abitati italiani, anche quelli in zona sismica, quindi, è a partire da questo materiale che si dovrebbe iniziare l’adeguamento antisismico. Infatti, esistono numerose tecniche di consolidamento della muratura, allo scopo di modificarla in un materiale più resistente e per aumentare il cosiddetto “fattore di struttura” dello scheletro portante degli edifici, che mette in rapporto l’accelerazione che provoca il crollo con quella che provoca il superamento del limite elastico (considerando il tipo di collegamento tra gli elementi resistenti di una struttura e la loro capacità di dissipare gli sforzi). Iniezioni di malte e resine, rafforzamento di punti sismicamente deboli con “armature” leggere, cerchiaggi, cura particolare dei collegamenti tra elementi resistenti, tirantature mediante catene, sono solo alcune delle tecniche che si possono applicare.

Il calcestruzzo armato è il materiale oggi più impiegato per la realizzazione degli edifici, pur essendo assodato che ha una vita “sana” piuttosto breve rispetto agli altri materiali. La sua persistenza come materiale da costruzione è oggi giustificata, oltre che dall’abbondante disponibilità dei suoi elementi costitutivi, anche dalla grande forza che ha l’industria del cemento, che da sempre influenza le scelte strategiche, sia per le grandi infrastrutture, che per le pianificazioni edilizie territoriali.

Quale calcestruzzo

Un buon calcestruzzo può al massimo durare un centinaio di anni, dopo di ché, gli edifici fatti con questo materiale, devono essere abbattuti. Un centinaio di anni è la durata di un calcestruzzo di qualità esecutiva elevata, ma nella maggior parte dei casi costruttivi italiani il calcestruzzo messo in opera ha qualità fisiche e strutturali medio-basse e la sua vita “sana”, in questi casi, si può abbassare anche ad una cinquantina di anni; a meno che non si intervenga con pesanti e costose operazioni di restauro che ne ritardino il disfacimento. Tuttavia, pur non essendo il materiale migliore dal punto di vista sismico, per il suo comportamento fragile e per avere un campo elastico più ridotto rispetto ad altri materiali, un edificio in calcestruzzo armato ben fatto, sia dal punto di vista del materiale che della struttura, è un ottimo deterrente nei confronti dei terremoti, almeno nei primi decenni di vita.
Che significa una struttura antisismica in calcestruzzo fatta bene?
Innanzitutto devono essere rispettate le dimensioni degli elementi resistenti, travi e pilastri, che la normativa antisismica prevede siano maggiori nelle zone a rischio sismico.
Anche la quantità e le dimensioni dell’armatura devono essere maggiori in zona sismica. Il suo impiego è fondamentale come deterrente agli sforzi a flessione e di taglio. Oltre all’armatura longitudinale è fondamentale anche la cosiddetta staffatura, che funge da contenimento della prima, opponendosi ad esempio allo spanciamento dei pilastri. Le imprese di costruzione, a volte, non risparmiano tanto sull’armatura longitudinale, quanto invece sulle staffe, la cui costruzione e posa in opera prevede un maggiore onere di forza lavoro rispetto alla longitudinale. Ma un elemento con staffe insufficienti e/o mal poste è molto vulnerabile, specialmente in caso di sisma.
L’insufficiente staffatura probabilmente è una delle cause di crollo venute alla luce dai primi controlli degli edifici in calcestruzzo de L’Aquila.
Un’altra caratteristica importante del calcestruzzo armato è il copriferro, ossia lo spessore di calcestruzzo che ricopre l’armatura. La miscela costitutiva del calcestruzzo all’inizio protegge l’armatura dalla corrosione in quanto ha un pH altamente basico. Col trascorrere del tempo il pH si abbassa, a causa del fenomeno della carbonatazione, un processo chimico generato dell’anidride carbonica e dell’umidità dell’aria che aggredisce il calcestruzzo fin dall’inizio. Tale processo comincia dalla superficie e si propaga progressivamente verso l’interno dell’elemento in calcestruzzo, in funzione anche della sua porosità e dell’ambiente esterno.
Quando la carbonatazione raggiunge l’armatura, questa non è più protetta nei confronti della corrosione, che inizia a ossidare l’acciaio senza causare effetti evidenti all’esterno. Ci si accorge del fenomeno quando il copriferro si spacca a causa del maggior volume dell’ossido di ferro (ruggine) ma, a questo punto, una discreta parte di armatura è compromessa definitivamente. Per questo è importante che nelle opere in calcestruzzo il copriferro sia di almeno tre centimetri, anche se spesso non è difficile vedere in elementi in calcestruzzo di strutture finite (anche recentissime) l’armatura arrivare in superficie (specialmente le staffe).
Infine il calcestruzzo deve avere una determinata resistenza meccanica. Questa dipende sia dalla miscela di partenza, che dalle modalità della messa in opera (getto). Nella miscela di partenza il calcestruzzo è costituito da inerti, acqua, cemento e spesso dagli additivi che ne esaltano certe qualità (presa rapida, lavorabilità, alta resistenza). Tutti questi elementi devono essere miscelati in proporzioni ben precise. Gli inerti devono avere un assortimento granulometrico non casuale, ossia, la dimensione dei granuli deve essere ben distribuita rispettando certe classi dimensionali, inoltre devono avere certe caratteristiche fisiche. Il rapporto tra il cemento, l’acqua e gli inerti deve essere di un certo tipo e deve essere rigorosamente rispettato, pena la formazione di difetti e/o impasti finali a più bassa resistenza. Tutta la miscela deve essere priva di cloruri, solfati e di tutte quelle sostanze che possono favorire la corrosione dell’armatura o impedire i processi di presa del cemento, che garantiscono determinati standard di resistenza.
È importante sottolineare che qualsiasi caratteristica dei materiali da costruzione e delle strutture con essi realizzate, può essere controllata, sia in fase costruttiva che ad opera finita. Ciò è possibile attraverso opportune prove e indagini in sito non invasive (chiamate “prove non distruttive”), che non provocano danni alle strutture indagate. Si può conoscere, ad esempio, qual è lo stato tensionale di una muratura e la sua resistenza alla rottura, o indagare riguardo la buona riuscita di un intervento di restauro. Si può misurare indirettamente il copriferro di un elemento in calcestruzzo armato, nonché la disposizione e lo spessore dell’armatura. Si può determinare la resistenza del calcestruzzo e misurare indirettamente la profondità di pali di fondazione, ecc.
Una volta stabilito che il progetto di un’opera è corrispondente ai parametri di sicurezza sismica previsti per quel sito, è necessario controllare l’impresa costruttrice, sia in fase esecutiva, con ispezioni e prelievi dei materiali impiegati da analizzare in laboratori specializzati, sia dopo che l’opera è stata finita e prima di concederne l’utilizzo col collaudo finale. I mezzi tecnico-scientifici ci sono e sono ampiamente attendibili, poiché la tecnica dei controlli strutturali è stata molto sviluppata negli ultimi decenni.
Purtroppo il maggiore ostacolo alla diffusione della cultura della sicurezza strutturale degli edifici è rappresentato dalle brame di profitto degli imprenditori edili, perché controllare tecnicamente l’operato delle imprese di costruzione italiane significherebbe impedire loro di realizzare quella fetta di guadagni che scaturisce dalla mancata applicazione di tecniche costruttive adeguate al rischio sismico, seppure queste siano già state previste dal capitolato d’appalto e quindi conteggiate economicamente. Spesso anche in quelle grandi opere, dove sembrerebbe maggiore il controllo della qualità strutturale e dei materiali, ciò non si realizza concretamente a causa delle connivenze economiche tra amministratori pubblici, professionisti e imprese. Un intero blocco sociale duro a morire perché catalizzatore di enormi interessi finanziari e produttivi. Per cui si assiste a finti controlli, o a controlli mirati, dove è l’impresa costruttrice a indicare al “controllore” quali elementi indagare.
D’altronde, cosa ci si può aspettare da un sistema dove chi sceglie e paga il laboratorio preposto ai controlli è la stessa impresa costruttrice, cioè colei che dovrebbe essere controllata? Il minimo è una situazione di sudditanza del controllore.
È evidente, però, che la responsabilità delle vittime del terremoto de L’Aquila non ricade soltanto su quelle imprese costruttrici che non hanno voluto il bene della comunità, ma anche sulla classe politico-scientifica, incapace di organizzare aiuti tempestivi alla popolazione e insensibile alle opinioni non accademiche. Infatti, davanti ai dubbi sollevati dal tecnico Giuliani, il gotha scientifico italiano è stato in grado solo di rispondere che l’aumento dell’emissione del Radon e lo sciame sismico che da ottobre del 2008 veniva registrato nell’area, non per forza dovevano far pensare al verificarsi di un evento catastrofico. Questo è vero, spesso all’aumento dell’emissione del Radon e dell’attività sismica non segue un terremoto di grande energia, è anche vero che tutte le grandi scosse non sempre sono precedute da questi e altri fenomeni premonitori. Però, spesso i due fenomeni sono associati; allora perché non è stato applicato il sano principio di precauzione, coordinando almeno un piano operativo che prevedesse una maggiore tempestività dei soccorsi, ad esempio, col dislocamento strategico dei mezzi? Perché si è risolto il tutto con un’oretta di riunione dove sono state dette una serie di ovvietà sulla pericolosità della situazione, senza però decidere niente? (vedi il verbale della Commissione Grandi Rischi del 31 Marzo 2009 su abruzzo.indymedia.org). Perché Bertolaso si è sentito in dovere di dare dell’imbecille al tecnico Giuliani, comunicando una denuncia per procurato allarme nei suoi confronti?. Chi è Bertolaso? Perché si è fatto un gran parlare degli sciacalli? Chi sono i veri sciacalli e speculatori del terremoto in Abruzzo? Dopo quello che è successo si potrebbe creare un precedente giudiziario denunciando la protezione civile per “mancato procurato allarme” o per “supponente e manifesto menefreghismo”?…..ma, al di la della rabbia e del senso di impotenza che tutti noi abbiamo di fronte a tutto questo, si può lavorare per rendere possibile l’autonomia del territorio distrutto dal sisma, per far diventare quei paesi distrutti dei villaggi ecologici che si autosostengono (attraverso la realizzazione di pannelli solari, termici ed elettrici, la rivalutazione di una microeconomia agricola) per non sottostare più alle leggi del più becero consumismo sciacallo. Si può lavorare per fare uscire le persone dai campi di “incivili protezionismi civili”, perché quelle persone si riprendano la loro socialità e dignità di uomini e donne.
Perché non sia l’ennesimo disastro culturale di questo paese.

I geologi del Laboratorio Eco-Ambientale del c.s.o.a. Forte Prenestino (Roma)