rivista anarchica
anno 39 n. 347
ottobre 2009


 

 

Ferrer i Guardia
Un secolo dopo

Francisco Ferrer i Guardia

A Barcellona quest’anno si susseguono gli eventi che ricordano il centenario della Semana Trágica e la fucilazione di Francisco Ferrer i Guardia, fondatore dell’Escuela Moderna, nell’anno che è stato proclamato “l’anno Ferrer”. Ogni istituzione, archivio o biblioteca ha colto l’occasione per celebrare in qualche modo l’anniversario della rivolta anti-clericale e anti-coloniale, che portò la folla a montare barricate e a dare fuoco a più di cinquanta edifici religiosi a Barcellona nel 1909 e alla quale seguì una repressione spropositata (nella rivolta vennero uccisi alcuni religiosi e il bilancio della repressione conta una settantina di morti e circa 2000 detenzioni oltre alle condanne a morte di Ferrer e altri quattro). Sorprende quest’improvviso interesse per un personaggio e una rivolta finora considerati “scomodi” e patrimonio esclusivo del movimento anarchico.
Quest’anno tutti si definiscono ferreristi, anche se la petizione per dedicargli una via o una piazza a Barcellona rimane marginale, come lo fu la costruzione del monumento nel 1989, che suscitò polemiche tra i vari gruppi politici e che alla fine fu collocato in un posto nascosto sul Montjuïc. Sembra si tratti di una commemorazione senza contenuto, a cui tutti partecipano, che non sia la conclusione di un processo di rielaborazione del passato, bensì una celebrazione che compensi molti anni di oblio. Risulta evidente che non c’è nessun interesse a recuperare le idee di Ferrer e il progetto di rigenerazione sociale per cui è stato ucciso: un’educazione libera da ogni tipo di dogma e volta a creare spiriti critici.
Con questo bilancio si sono aperti l’esposizione e il ciclo di conferenze organizzate dall’Ateneu Enciclopèdic Popular tra il 2 e il 13 giugno. Nella presentazione Manel Aisa, il presidente, ha ricordato che la mostra, che si inaugurò vent’anni fa ed ha già percorso diversi luoghi della pedagogia, è stata arricchita con materiale fotografico e video. Sia la proposta dell’esposizione itinerante che il ciclo di conferenze su temi storici, hanno l’obiettivo di arrivare a parlare e mettere in discussione la pedagogia di oggi.
Nel primo incontro sono stati analizzati gli eventi che hanno portato alla fucilazione di Ferrer: l’attentato di Morral e la Semana Trágica. Mateo Morral, giovane collaboratore della Escuela Moderna che lanciò una bomba contro il corteo nuziale dei re nel 1906, rappresenta il sottile limite di inizio secolo tra un anarchismo dedicato all’emancipazione culturale e la propaganda attraverso l’azione; l’attentato di Morral portò alla chiusura della Escuela Moderna e all’incarcerazione di Ferrer per un anno.
Per spiegare le cause della Semana Trágica del 1909 si risale alla perdita delle ultime colonie nel 1898 (Cuba e Filippine) che causò un forte calo nell’economia spagnola; la crisi nel settore tessile e metallurgico andava di pari passo con la diffusione delle idee anarchiche a Barcellona e con gli scioperi di inizio secolo. La nuova avventura coloniale intrapresa in Marocco dal governo di Madrid richiese la chiamata alle armi delle “riserve” catalane e furono le donne a scatenare l’insurrezione popolare opponendosi alla partenza dei loro mariti e figli per la guerra a fine luglio 1909. La rabbia si diresse contro gli edifici religiosi simbolo del potere e dei privilegi della classe dominante con il risultato di 56 edifici bruciati tra chiese e conventi. Il carattere anti-clericale della rivolta fornì alla classe politica l’occasione di accusare Ferrer come istigatore, che aveva sfidato il monopolio della Chiesa in campo educativo.
La seconda conferenza affrontava le novità introdotte da Ferrer con l’Escuela Moderna e l’influenza che ebbe sulla pedagogia catalana e internazionale. È vero che la scuola era diretta più al ceto media che alla classe operaia, ma l’organizzazione delle lezioni fu assolutamente rivoluzionaria per l’epoca: basare l’apprendimento sulla scienza, creare classi miste in aule spaziose e sane, porre l’alunno al centro del processo educativo sono alcune delle novità che rompevano con la pedagogia tradizionale. La creazione di una casa editrice parallela alla scuola che pubblicava i suoi libri di testo fu l’altra grande iniziativa che permise di mantenere vivo il progetto di Ferrer nelle scuole razionaliste che in seguito adottarono i suoi testi. Tra queste la più importante fu quella guidata da Joan Puig Elías, che si considerava il successore di Ferrer e che portò avanti le sue idee ampliando l’interesse dell’educazione non solo alla ragione, ma anche alla parte emotiva, con l’obiettivo di creare persone libere, spiriti critici. Nel 1936 il progetto educativo di Puig Elías e di Ferrer si plasmò nel CENU (Consell de l’Escola Nova Unificada), l’unico caso in cui si arrivò a istituzionalizzare questo modello pedagogico, in Catalogna durante la guerra civile.


L’ultimo incontro era dedicato al tema più importante: come influisce sulla pedagogia di oggi questa eredità? Benché sia evidente che a livello istituzionale non ci sia nessuna volontà di recuperare questo tipo di educazione, si è discusso della possibilità di creare scuole libertarie (come la scuola Paideia, che però risultano limitate a una ristretta cerchia) ma soprattutto della possibilità che gli insegnanti hanno di fornire strumenti critici agli alunni all’interno del sistema scolastico statale. La libertà nell’impostazione delle lezioni permette dare molto di più di quello che richiede il programma e sono proprio i professori più “umani” quelli che lasciano il segno nel nostro sviluppo. Non è mancata la polemica dato che uno degli invitati, Pedro García Olivo, ha abbandonato l’insegnamento convinto che non possa esistere una scuola “libertaria” perché il modello scolastico sottintende dominazione. Invece l’esperienza di Bernat Muniesa, professore all’Università di Barcellona, l’ha portato a impartire una materia che definiva “Elementi per cercare di conoscere il mondo”.
L’esposizione si è conclusa con una recital poetico dedicato a Ferrer i Guardia a cui hanno partecipato una trentina di poeti e cantautori.

Valeria Giacomoni

 

 

La rivoluzione
Anche in poltrona

Dopo il ricordo di Claudio Venza (“Ricordando Diego Camacho”, “A” 345, maggio 2009) e la traduzione da parte di Arianna Fiore di una delle sue ultime interviste (“Le forti radici dell’anarchismo”, “A” 346, estate 2009), ecco un nuovo ricordo di Diego Camacho, protagonista e storico della rivoluzione sociale del 1936-39 in Spagna, morto lo scorso 14 marzo a Barcellona. Ne è autrice Valeria Giacomoni, una giovane anarchica trentina residente nel capoluogo catalano, che a Diego è stata molto vicina nei suoi ultimi anni.

Diego Camacho

Quando ci lascia uno come Diego il dolore si trasforma subito in nuova energia: fa mettere in discussione tutte le relazioni, fa fare un passo avanti a tutti coloro che sono stati al suo fianco. Adesso tocca a noi…
“Barcellona non sarà più la stessa” mi ha detto un compagno italiano quando ha saputo la notizia. Se ne va un pezzo di storia, ma non solo; se ne va un amico e un esempio di anarchismo vivo così difficile da trovare oggi. E dico anarchismo vivo non solo perché era uno dei pochi testimoni rimasti per ricordare quel che successe durante la guerra civile spagnola, ma perché continuava a vivere in modo coerente con i suoi ideali. Diego ha visto un altro mondo. Lo ha visto nascere e morire. E a quel mondo ha dedicato la sua vita a lottare, prima contro la repressione e poi contro l’oblio perché l’esperienza della rivoluzione del 1936 non si perdesse nel nulla, mantenendone viva la memoria.
Ultimamente parlava spesso di “questa Spagna che non vuole ricordare”, di come la memoria ufficiale riesca a ricostruire la storia della guerra civile spagnola senza nominare la CNT, come se si fosse trattato di uno scontro tra “rossi” e franchisti, dimenticando la rivoluzione sociale che ebbe luogo grazie all’emancipazione che il popolo aveva raggiunto con la diffusione delle idee anarchiche. “Com’è possibile raccontare la storia senza nominarne il protagonista?” si chiedeva Diego.
Da qui partiva la sua passione per la scrittura, per lasciare una testimonianza di ciò che aveva vissuto, per evitare una visione distorta della storia, o almeno della sua storia. Credo che scrivere fosse anche un modo per “tirare fuori tutto” e non rimanere attaccato al passato: rendere i ricordi accessibili agli altri permette di dedicarsi non solo a ricordare, bensì a vivere il presente in funzione dell’esperienza. Questo è ciò che più mi ha trasmesso l’amicizia con Diego: che l’anarchismo è una maniera di vivere la vita, un modo di comportarsi; non si può solo parlare di storia e di quel che fu, in ogni momento possiamo fare qualcosa per migliorare, nel nostro piccolo, il mondo in cui viviamo.
Per questo gli interessava tutto ciò che succedeva fuori e mi chiedeva come vivevo io: non solo dell’impegno politico o storico ma anche la mia relazione con gli altri, la famiglia, i soldi, gli amori, il lavoro…è importante uno sviluppo armonico e coerente per raggiungere un equilibrio. Non possiamo aspettarci che il mondo cambi da un momento all’altro e mi sembra evidente che non sarà un movimento politico o qualche collettivo ad avere la forza sufficiente per cambiare le cose. Il primo passo sta nello sviluppo di una coscienza individuale, vivere con coerenza; ogni scelta nella nostra vita è politica, non solo l’impegno per un ideale o una lotta.
Così, dopo aver girato tutta la Spagna, l’Europa e addirittura il Giappone raccontando la sua esperienza e il suo modo di essere, Diego si era ritirato nel suo appartamento, creando uno spazio dove ognuno si sentiva come a casa. Affittava le stanze gratis in cambio di un po’ di compagnia e di qualche cura, ora che ne aveva bisogno. Riceveva visite di compagni da tutto il mondo: la sua casa era un punto d’incontro per discutere dei temi più attuali oltre che della guerra civile; così riusciva a mantenersi aggiornato su tutte le attività del movimento libertario a Barcellona e in Europa: non si stancava mai di chiedere che incontri si erano organizzati, chi c’era, cosa si era detto… non aveva più voglia di uscire di casa, un po’ perché si stancava subito e un po’ perché stufo di vedere “la merda che c’è là fuori”.
Non si sentiva di appartenere a questo mondo di relazioni ipocrite, di culto dei soldi, della politica come lotta per il potere di pochi invece che come scelta di vita di tanti. Non era il mondo per cui aveva lottato, e come testimone di “un altro modo di vivere” si sentiva zittito. Ai mezzi di comunicazione non interessava ricordare questa parte della storia della Spagna e quindi non pubblicavano più i suoi articoli.
Ultimamente diceva di sentirsi stanco e come se fosse già morto; io mi mettevo a ridere e gli dicevo che l’energia e la vena polemica con cui mi parlava dimostravano chiaramente la sua vitalità… specificava che era il disinteresse nei suoi confronti che lo faceva sentire già morto perché aspettavano solo che morisse veramente per organizzare un atto in sua memoria e poi seppellire definitivamente la sua storia.
Ci ha dimostrato invece, anche a chi (come me) l’ha conosciuto solo negli ultimi anni, che si può continuare a lottare anche dalla poltrona di casa se si riesce a trasmettere agli altri quello che sei e quel che hai vissuto.
Ogni volta che andavo a trovarlo me ne andavo più felice di quando ero arrivata: questa è la rivoluzione da cui dovremmo partire…
Ciao Diego.

Valeria Giacomoni

 

 

Cilento
Una morte sospetta

Francesco Mastrogiovanni, nato il 2 ottobre 1951 a Castelnuovo Cilento (Sa), è deceduto il 4 agosto 2009 nel reparto psichiatrico dell’Ospedale San Luca di Vallo della Lucania. La sera del 7 luglio 1972 a Salerno un gruppo di fascisti lo aggredì mentre passeggiava con Giovanni Marini. Mastrogiovanni aveva chiesto di lasciarli in pace ricevendo una coltellata alla gamba, accasciandosi sull’asfalto. Marini – che aveva ricevuto minacce per una controinchiesta sulla morte di cinque anarchici calabresi, uccisi in un incidente provocato da un autista salernitano iscritto al MSI – disarmò i fascisti e uccise Carlo Falvella. Il 14 luglio 1972 il Ministro dell’Interno, Rumor, rispondendo alla Camera, dichiarò che a ferire Mastrogiovanni era stato Giovanni Alfinito. Imputato per rissa, scontati diversi mesi di carcere, era stato assolto, ma si portava addosso il marchio di «noto anarchico» che creava «allarme sociale», anche se era pacifico e non violento. Nel 1999, arrestato per aver contestato una multa, venne condannato a tre anni, poi assolto con formula piena. L’esperienza carceraria comunque lo aveva segnato.
Insegnava come precario e gli alunni erano felici di avere «il maestro più alto del mondo», come lo definivano affettuosamente.
La sua vita, però, è stata inaspettatamente spezzata da un Trattamento Sanitario Obbligatorio richiesto dal sindaco di Pollica (Sa) perché – come ha dichiarato lo stesso alla stampa – ad Acciaroli guidava contromano. Qualche anno fa il Presidente della Regione Liguria guidò contromano addirittura sull’autostrada, ma nessuno richiese il TSO. La richiesta del TSO dev’essere fatta da due medici e pare che questa doppia richiesta non esista. L’ordinanza viene eseguita l’indomani mattina, 31 luglio, nel comune di San Mauro Cilento con grande spiegamento di carabinieri, di vigili urbani e della guardia costiera. La proprietaria del lido interviene inutilmente, facendo presente che non l’ha mai visto in escandescenze, ma i carabinieri devono ubbidire all’ordine del sindaco e gli consentono solo di farsi una doccia, e la cosa dimostra che era calmo e ragionevole e dunque non meritevole di TSO, una misura coercitiva che va applicata immediatamente per impedire che la pericolosità del destinatario metta a repentaglio la sua vita e quella degli altri.
Quando viene fermato implora profeticamente e lucidamente: «Non portatemi all’ospedale di Vallo, là mi uccidono!». Ne esce morto per edema polmonare il 4 agosto. Che cosa è successo? La cartella clinica presenta dei vuoti – la sera del 3 agosto dorme e non gli viene somministrata la cura, ma la mattina dopo alle 7,20 viene trovato cadavere. Se dorme significa che è calmo e che bisogno c’è di tenerlo legato con lacci di ferro come risulterà dall’autopsia? I funerali, previsti per il 5 agosto, vengono rinviati a data da destinarsi. I risultati dell’autopsia sono sconvolgenti per tutti e costringono la magistratura ad indagare sette medici. Al funerale, il 13 agosto, partecipano oltre duemila persone, come scrive Il Mattino di Napoli. Un paziente legato al letto di contenzione e sottoposto a pesanti torture è una storia dai contorni medievali, ma è successa nel 2009. La stampa denunzia la barbarie, il caso esplode anche su numerosissimi siti internet. Il 21 agosto i deputati radicali Rita Bernardini, Farina Coscioni, Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti presentano un’interrogazione parlamentare urgente al Ministro degli Interni e al Ministro del Lavoro e della Salute. I familiari creano un Comitato (www.giustiziaperfranco.it) per rendere giustizia al loro congiunto ucciso dalla mala amministrazione e dalla mala sanità.
Chi scrive conosceva Mastrogiovanni da sempre e di tanto in tanto passava per prendersi dei libri ed era passato anche verso la metà di luglio ed era, come sempre, assolutamente normale. C’è infine da dire che anche se veniva definito anarchico e pericoloso non ha mai svolto militanza anarchica né ha partecipato a riunioni, pur continuando a riconoscersi idealmente nel movimento anarchico.

Giuseppe Galzerano

 

 

Razzismo
A scuola

È trascorso poco più di un anno da quando i risultati delle ultime elezioni politiche hanno determinato un ulteriore peggioramento degli scenari istituzionali del Paese. Gli effetti catastrofici della vittoria della destra si stanno concretizzando attraverso una serie di iniziative e leggi che progressivamente restringono gli spazi di agibilità politica, limitano le libertà individuali e collettive (caso Englaro, accordi e norme antisciopero, “Pacchetto Sicurezza”), fanno pagare la crisi ai lavoratori e ai pensionati (rinnovi contrattuali-bidone, ennesimo attacco alla previdenza pubblica, “soluzione finale” per i precari), apportano barbari tagli al Welfare State (Scuola, Sanità) e difendono a spada tratta gli interessi del peggiore padronato, allentano al massimo la stretta su evasori “standard” e mafiosi, premiano i colossi finanziari responsabili del crak, ammiccano a Confindustria.
Particolarmente preoccupante risulta il clima sociale e culturale che sta maturando in questi ultimi tempi, risultato di una serie di norme già codificate e proposte di legge sempre più pesanti, ingiuste, disumane, tendenti a rendere impossibile l’esistenza agli immigrati.
Dall’istruzione-ghetto (cosiddette “classi-ponte”) al vaticinio di vagoni separati sui mezzi pubblici; dalla crociata anti-kebab a quella contro i phone center e le moschee, fino alla verifica sanitaria delle abitazioni, la tassa e l’esame di italiano per la carta di soggiorno. Dietro alle “norme per la sicurezza”, in realtà avanza un complessivo imbarbarimento della vita sociale, si alimentano sempre più i disvalori e l’egoismo, l’intolleranza, la paura del “diverso”, si pongono le condizioni per maggiori divisioni e disuguaglianze, odi e scontri inter-religiosi ed interetnici.
La ventata reazionaria ha coinvolto, loro malgrado, anche le istituzioni scolastiche.
Dapprima, come già accennato, con la mozione del leghista Cota a favore dell’istituzione di classi separate per gli alunni stranieri che non parlano l’italiano, poi con la proposta del ministro Gelmini di determinare una quota massima per la presenza di alunni stranieri nelle classi, infine, con la vexata quaestio dei presidi-spia.
Le vicende che nel giugno scorso hanno visto come protagoniste due dirigenti scolastiche più “realiste” del re (prima della stessa approvazione del “pacchetto sicurezza”). La prima a Genova (dove è stato scritto sulle lavagne l’elenco degli alunni di origine straniera che nel corso dell’anno avrebbero raggiunto i 18 anni di età e non risultavano in regola con il permesso di soggiorno), e la seconda a (dove è giunta agli alunni immigrati la richiesta di presentare da un giorno all’altro il permesso di soggiorno medesimo).
Una “cartina di tornasole” che, oltre ad essere il frutto avvelenato del disegno di legge in materia – il quale, introducendo il reato di immigrazione clandestina, impone la spada di Damocle della denuncia in qualsiasi momento – sono la prova che l’incitazione all’odio, alla discriminazione (ed alla delazione) razziale, simile ad un fiume carsico si muove nell’humus razzista, un tempo latente, che si va affermando nel nostro paese e riemerge all’improvviso in “forme spontanee”, in comportamenti palesi che sfruttano l’ignoranza diffusa o che sono frutto dell’insensibilità di massa (in particolare dei neo-ricchi), nonché le smanie di protagonismo e la voglia di far carriera di eventuali “zelanti” pubblici ufficiali.
Si tratta di veri e propri provvedimenti xenofobi che compromettono il diritto allo studio dei giovani migranti: come se questi inficiassero la sicurezza dei cittadini italiani per il solo fatto di esistere.
Iniziative, d’altro canto, senza alcun plausibile retroterra giuridico, dal momento che su questo tema – oltretutto – la normativa internazionale di riferimento è di segno ben differente, dalla Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo, sino alla Costituzione italiana (Art. 34 “La scuola è aperta a tutti”).
D’altro canto, i casi che al loro manifestarsi hanno richiamato elementi di resistenza nella coscienza della società civile o riaperto un ciclo virtuoso, come quello del preside del liceo socio psicopedagogico “De Sanctis” di Cagliari che su un cartello posto all’ingresso ha fatto scrivere: “Questa scuola accoglie sardi, italiani, comunitari, extracomunitari e clandestini, bianchi, olivastri, neri, gialli e rossi, di qualsiasi fede religiosa”, sono lì a segnalarci anche (e purtroppo) quanto affermazioni del genere non siano poi così ovvie e condivise.
L’intolleranza, il vero e proprio razzismo, che in Italia per anni sono rimasti sotterranei, trovano adesso legittimità e proprio in un periodo di profonda incertezza le paure vengono amplificate. Cresce così la voglia di segregare, espellere, difendersi dall’altro con ogni mezzo, con ogni forma (da quella legalizzata del “respingimento”, al “fai da te” del branco, spicciola e bestiale).
Meraviglia che proprio l’Italia (a lungo terra d’emigranti) non riesca a trovare nella propria storia e memoria gli anticorpi per far fronte in maniera seria e civile al razzismo. Infine, cosa ancora più grave, situazioni di discriminazione e xenofobia cominciano a verificarsi anche nel mondo dell’istruzione (da tempo il più refrattario in assoluto).
La scuola è troppo importante per consentire una tale deriva. Insegnanti ed operatori scolastici (anche solo per evidenti motivi professionali, deontologici ed etici) non possono accettare la politica dell’apartheid e devono combattere e denunciare qualunque istigazione alla delazione.
Oggi più che mai occorre impegnarsi in prima persona affinché il mondo dell’istruzione divenga realmente il luogo fondamentale del dialogo, della comprensione e della collaborazione: il laboratorio per la crescita e la formazione di personalità libere e consapevoli, protagoniste autonome di una cultura rispettosa delle differenze e promotrice in primis di solidarietà ed accoglienza.
Per questi motivi invitiamo tutti coloro che hanno a cuore le sorti della scuola pubblica, che vogliono impegnarsi, confrontarsi, discutere, a sviluppare un confronto ampio e approfondito con il chiaro obiettivo di giungere ad indicazioni e sintesi comuni di attività solidale e antirazzista, ed a partecipare alla manifestazione nazionale che si terrà il 17 ottobre nel settore del Coordinamento Nazionale STOP RAZZISMO.

Stefano Lonzar
componente dell’Esecutivo Nazionale dell’Unicobas ed è membro di SociAlismo LibertArio

 

 

Anarchico batte
Sindaco 1-0

San Lorenzo del Vallo (Cs)/ Festeggiata l’assoluzione di Vincenzo Giordano

Venerdì 31 luglio 2009, a San Lorenzo del Vallo (CS), in piazza Saverio Lupinacci, la Federazione Municipale di Base (FMB) di Spezzano Albanese e la Federazione Anarchica “Spixana”- FAI (Cosenza), hanno tenuto un pubblico comizio che ha avuto quale argomento principale l’assoluzione del compagno Vincenzo Giordano avvenuta con formula piena, in seguito alla denuncia del 2007 mossagli dal sindaco del Comune di San Lorenzo del Vallo, Luciano Marranghello, che dichiarava in illo tempore di essersi sentito offeso “nel prestigio e nell’onore” dal contenuto di alcuni volantini e manifesti redatti e resi pubblici da Giordano Vincenzo. Altro argomento, non certamente secondario, trattato nel corso del comizio è stato quello relativo alla costruzione dell’inceneritore che il sindaco Marranghello sembra voglia a tutti i costi imporre, nella Frazione Fedula.

La protesta degli anarchici del Cosentino
davanti al Tribunale del capoluogo il giorno del
processo contro l’anarchico Vincenzo Giordano

Gli interventi, concreti e numerosi, non hanno fatto altro che evidenziare le manie dittatoriali del sindaco e dell’Amministrazione Comunale, protese a calpestare la libertà di pensiero, di critica individuale e collettiva, e la necessità di continuare a contrapporre ad esse iniziative sociali libertarie. La compagna Deborah De Rosa ha parlato di libertà di parola e di diritto al dissenso e nel denunciare l’autoritarismo dell’amministrazione comunale, ha difeso strenuamente l’attività sociale corretta e lineare del compagno Giordano, che a sua volta col suo intervento ha fortemente rivendicato la sua azione politica contro l’operato autoritario e clientelare del sindaco e dell’Amministrazione Comunale. Il compagno Oreste Cozza di Cosenza, nell’esprimere solidarietà al compagno Vincenzo, ha ribadito il no degli anarchici e di tutte le realtà ambientaliste e di base della provincia di Cosenza alla costruzione dell’inceneritore che il sindaco vuole impiantare nella Frazione di Fedula. Il compagno Domenico Liguori ha concluso i lavori affermando con forza che “le libertà non si concedono, si prendono”, libertà che a San Lorenzo del Vallo vengono oggi quotidianamente calpestate dagli atteggiamenti da ducetto di paese del sindaco Marranghello; ricordando altresì la dura battaglia che gli anarchici hanno condotto a Spezzano Albanese insieme alla comunità tutta contro un altro sindaco-duce, ha esortato la comunità di San Lorenzo del Vallo a lottare unita per affermare con la prassi sociale i valori di libertà, giustizia ed eguaglianza, col fine di determinare la caduta del duce di San Lorenzo del Vallo, al pari di come è stata determinata, da un ventennio all’incirca, la caduta del duce di Spezzano. Il compagno Domenico ha affermato inoltre la netta e dura opposizione degli anarchici contro l’inceneritore che il sindaco Marranghello intende costruire a Frazione Fedula, in quanto detta costruzione se malauguratamente dovesse avverarsi minerebbe non solo la salute pubblica e ambientale di San Lorenzo ma quella di tutti i paesi limitrofi fino alla vasta area della sibaritide.

Vincenzo Giordano

Nonostante il sindaco, l’Amministrazione Comunale e il comandante dei vigili, hanno fatto di tutto per non far riuscire la manifestazione vietando di fatto la piazza principale, l’iniziativa della FMB e della Federazione Anarchica “Spixana”- FAI ha visto un’ottima presenza di pubblico sanlorenzano che ha applaudito fragorosamente i passaggi più interessanti del comizio. Rimane da sottolineare che il sindaco, Luciano Marranghello, a mò di provocazione, si è posizionato davanti al palco per tutto il corso della manifestazione ed a fine comizio si è messo a girare per la piazza con quella tipica aria che tra l’indifferenza e l’arrabbiatura sembrava volesse dire ai “suoi” concittadini: “se ho vietato il comizio nella piazza centrale, come vi siete permessi a venire ad ascoltarlo in questa piazza interna! Domani vi aggiusto io, tanto vi ho schedati, uno per uno!”. Questo atteggiamento provocatorio del sindaco ha suscitato le ire di alcuni compagni che a fine comizio, mentre faceva la sua passeggiatina di sfida per la piazza gli hanno gridato: “Dimissioni, dimissioni”. Erano presenti compagni venuti da Cosenza e da Sant’Agata d’Esaro.
La serata ha avuto il suo epilogo al Caffè Culturale “Il Galeone”, dove c’è stata l’esibizione del gruppo musicale “Bashkim”, che con tarantelle, musiche e canti popolari anche in arbereshe, ha allietato una serata indimenticabile per il suo significato sociale e politico. Da notare anche l’esecuzione di canti anarchici e di Fabrizio De Andrè. Vincenzo ha ringraziato tutti i compagni e le compagne, i cittadini e le cittadine, per la solidarietà mostratagli in tutti i momenti processuali e non.

Federazione Anarchica Spixana e Federazione Municipale di Base (Spezzano Albanese - Cs)

 

 

Se la taranta
Si fa Europa

Dicono che il tamburello sia uno strumento di terra, che abbia a che fare con la fatica dei campi, con quel bisogno millenario di liberazione che batte un ritmo di rivalsa.
Uno strumento di terra in questa punta d’oriente, incistata nel mare. Eppure il mare deve avercelo un ruolo su questo percuotere serrato che porta in sé il rimando continuo a altri mondi.
Basta ascoltare i tamburellisti che si alternano in queste prime tappe della Notte della Taranta per capire che, dopo averli ascoltati, non si riparte più da quel “sotto palco” dove siamo.
Ma da più in là.
Che dietro di noi, mentre torniamo a casa, oltre al tema melodico della pizzica, ci fa eco un vento africano, l’odore dell’incenso delle danze sufi, ci arrivano le feste dei rom dei balcani.
Si è qui, sì, nel sud della nostra piccola Italia, in questo lembo di tradizione greca chiamato appunto Grecìa Salentina.
Si è qui, sì, eppure si è al tempo stesso in un altrove.

È quasi inspiegabile in questa epoca di chiusure culturali, di privilegi che si vorrebbero innalzare a barriere escludenti, in questa epoca di difesa spasmodica dei propri cortili di appartenenza .
È quasi inspiegabile eppure, più si sentono battere i tamburelli di una tradizione così radicata, più si sente il violino lanciarsi in fughe tra le chianche te le piazze e più succede che i pensieri si stacchino dal grembo di questa terra, si facciano suggestione di un viaggio che comincia.
E in questo viaggio prende corpo soprattutto un pensiero: nessuna identità può sopravvivere se la si chiude ad ammuffire nelle teche del proprio museo locale poiché c’è futuro solo se le identità accettano di potersi confrontare.

È straordinario che un progetto musicale nato all’interno di una comunità a minoranza linguistica riesca a sviluppare tutto questo discorso.
Che i gruppi musicali che si alternano sui pachi, sappiano a mettere a nostra disposizione la sapienza di antiche figure di liberazione, e nella potenza dei loro testi e dei loro ritmi
Batti batti u tamburredhu!
Dai cchiu forte! dai cchiu forte!
ci sia più Europa e più futuro, che nei provvedimenti della nostra politica culturale nazionale.

Uno dei momenti delle numerose serate della Notte della Taranta
(foto di Carlo Elmiro Bevilacqua)

Non ho nessuna intenzione di fare della retorica da quattro soldi. Per me, seguire le tappe di questa Notte della Taranta, è prima di tutto, un’esperienza fisica.
Un esperienza di selvatichezza. Come dirlo altrimenti?
Le voci dal palco salgono acute e a volte cadono in intonazioni roche, i ritmi che spesso travolgono, a tratti portano malinconie lontane, malinconie che pur venendo da un passato millenario, dalla condizione di donne pizzicate tra le spighe del grano, risvegliano in noi qualcosa di terribilmente sopito, qualcosa di tutt’ora drammaticamente irrisolto tra le mura delle case moderne e a cui facciamo addirittura fatica a dare il nome.

È capitato ieri, che mentre il gruppo sul palco intonava quel magnifico canto di protesta che è “E lu sule calau calau mena patrunu ca me ne vau”, mi è parso di riconoscere in quelle note il rancore di tutti gli uomini di terra d’Otranto che se ne sono dovuti andare davvero, e non solo a fine giornata, se ne sono andati dalla propria casa , per consumarsi nelle miniere del Belgio, della Germania del Lussemburgo.
Me li sono visti addirittura , con quei caschetti a lampadina sulla testa, loro, là sotto, nel buio dei corridoi sotterranei, insieme ai loro compagni veneti e lunigiani.
E mi è sembrato di capire una cosa.
Ogni canto di lotta è tutte le lotte. Ogni recupero del passato è tutto il nostro passato.
E al diavolo questa storia del legame esclusivo con i luoghi in cui abbiamo le nostre radici anagrafiche, al diavolo questa eterna dicotomia tra nord e sud. Non lo dico per fare una sciocca semplificazione.

C’è molta più storia mia di cittadina emiliana in questa Notte, che non nella politica culturale della mia regione.
Sarà perché c’è un sud dentro ogni territorio, perché dentro ogni regione ci sono discendenti di contadini poveri, figli di operai dalle mani perennemente sporche, ragazzini relegati nel degrado delle periferie.
Sarà perché in ogni regione passarono padri con canzoni di liberazione sulle labbra, passarono donne possedute da una condizione di fatica insopportabile che tendevano la mano a noi, a noi che non l’abbiamo saputa stringere.

Ma se è vero che la grande opportunità del nostro secolo è quella di poterci costruire delle patrie è anche vero che la musica di questa Grecìa a minoranza linguistica, una musica considerata per troppo tempo un fenomeno periferico e marginale, ci offre oggi la sua capacità di resistere al linguaggio uniformante della rimozione e proprio a partire da questa sua forza interna ci spalanca l’opportunità di navigare verso il mondo di tutti.
Non a caso sul palco della notte finale verrà intonato soprattutto un messaggio, e non si tratterà di un messaggio esclusivamente musicale: – Guardate che c’è futuro solo nei luoghi in cui le identità si possono scambiare.
In fondo è un canto d’amore: e dammi la mano e stringila forte e fino alla morte…

Milena Magnani

Milena Magnani

 

Metti un week-end
A Marghera

Questo scritto nasce dalla voglia di capire la società in cui viviamo, la contemporaneità e l’attualità del pensiero libertario in una società postmoderna.
Il mondo cambia sempre più velocemente e mi rendo conto che l’idea anarchica ha bisogno di essere attualizzata. Fino qui tutto bene, il problema è capire come.
Esistono molte teorie e molte pratiche anarchiche che cercano di attualizzarsi, di non rimanere ancorate alla tradizione. L’idea anarchica\libertaria non è parola rivelata, non è un dogma e deve capire il presente, svilupparsi per riuscire a sopravvivere e darsi un nuovo slancio. Per far un pò di chiarezza fra le nuove teorie vorrei parlare di post anarchismo, e nuovi anarchismi.
Iniziamo dal post-anarchismo
Penso sia troppo accademico, perché già nel definirsi post sembra rinunciare forse al pre, alla cultura e tradizione anarchica, cosa importante, da studiare comprendere per andare avanti. Certamente ci sono molti spunti interessanti negli scritti post anarchici, proviamo a capire cosè questa “nuova” teoria:
Il suo tratto saliente è il rifiuto dell’essenzialismo, una predilezione per la contingenza, la fluidità, l’ibridità nonché il ripudio di tattiche avanguardiste, il che implica la critica di schemi occidentali nel quadro dell’anarchismo. Si può definire l’opera di Todd May intitolata Anarchismo e poststrutturalismo fondante del postanarchismo.
Il post anarchismo non è una nuova teoria anarchica, ma una prospettiva nella quale l’anarchismo fornisce al post-strutturalismo un quadro più ampio, al cui interno è possibile collocare le proprie analisi. L’approccio postanarchico non deriva pertanto dall’anarchismo e nemmeno dall’universo politico propriamente detto. Non si pone nemmeno in nessun rapporto con una pratica politica passata o futura.
È importante notare che in nessuno scritto , pubblicazione postanarchicha troviamo una pratica politica nuova.
Altra cosa importante, il postanarchismo elabora una interpretazione dell’anarchismo fuori dalle pratiche libertarie e dalla storia dei movimenti anarchici, partendo da una magra scelta di testi che si limita a qualche scritto di autori che possiamo chiamare «classici», per esempio Michail Bakunin e Pëtr Kropotkin.
Per quello che ho letto di pubblicato in Italiano, il postanarchismo è una teoria molto confusa, e sottolineo “teoria”, nel senso che rimane chiuso nell’accademia e non ha uno sbocco nella pratica della lotta quotidiana.
Chiaro è, che non è una teoria senza un suo valore, in quanto, sottolinea certe linee e crocevia ed evidenzia alcuni punti di tensione. Come scrive su Libertaria Vivien Garcia: Bisogna stare attenti a non confondere l’immagine con quello che rappresenta, altrimenti quei punti di tensione finiscono per cristallizzarsi e rendono impossibile qualsiasi passione collettiva.
È importante che l’anarchismo sappia rinnovarsi, ma il post anarchismo non mi convince, penso sia più coerente e interessante parlare di un anarchismo post moderno piu che di un post anarchismo. Perché è impossibile non rendersi conto che viviamo una post modernità e l’anarchismo deve, dovrebbe essere in grado di capire, comprendere questa nuova modernità e quindi riuscire a attualizzare le sue proposte e i suoi metodi. Quindi al momento mi sembra meglio far riferimento a un “anarchismo post moderno”, o a un neoanarchismo, che come scrive Tomás Ibañez, ...evoca un rinnovamento, un cambiamento, uno spostamento, un rifiuto dell’immobilismo, mantenendo tuttavia il legame con l’anarchismo classico. Questo permette un dialogo più aperto con i sostenitori della nuova soggettività antagonista, disgustati dal passatismo identitario che l’etichetta anarchismo può veicolare.
I “nuovi anarchismi” sono molti e una delle caratteristiche principali è che non si autodefiniscono anarchici, ma utilizzano le pratiche e le teorie anarchiche. Li possiamo trovare in quasi tutte le lotte contemporanee da quelle contro la globalizzazione, da Seattle in avanti, alle lotte ecologiste, animaliste o nelle occupazioni di case. (questo solo per fare qualche esempio). È importante notare che in moltissimi paesi, tra i movimenti anarchici degli ultimi trenta anni non c’è stata quasi mai una continuità storica e ognuno ha reinventato l’anarchismo su basi diverse.
Questi nuovi movimenti hanno compreso l’importanza di una opposizione a diverse forme di dominio, una visione ibrida, una comprensione più sviluppata del dominio nelle sue svariate forme in modo da poter permettere un’opposizione a forme di potere che prima non erano contemplate.
Nella società post moderna assistiamo a un potere molto più diffuso sul territorio, più disperso in mille tipologie di forme differenti, ed è importante non sottovalutare le logiche di potere e dominio che abbiamo al nostro interno.
Certamente non tutti questi nuovi movimenti libertari sono coerenti con le tradizionali teorie e pratiche anarchiche, ma sempre prendendo in prestito le parole di Tomás Ibañez; è solo accettando la sua natura inevitabilmente imperfetta, temporale e peritura che l’anarchismo può essere coerente con i suoi principi”.

Marghera (Ve), 4-5 luglio 2009.
Un momento del dibattito al Seminario promosso
dal Centro Studi Libertari di Milano

Proprio di questi temi abbiamo discusso a Marghera sabato 4 e domenica 5 luglio in un seminario dal titolo “Anarchismo neo-anarchismo e post-anarchismo nel ventunesimo secolo” organizzato dal centro studi libertari e dal laboratorio libertario nella nuova sede dell’ateneo degli imperfetti a Marghera (Ve).
I relatori di questo seminario erano; Tomás Ibañez di Barcellona e Vivien Garcìa di Lione, coordinati da Salvo Vaccaro. A questo seminario hanno partecipato una quarantina di persone, sono stati due giorni intensi e interessanti, la partecipazione dei presenti attiva e il dibattito è stato complesso e eterogeneo.
Sono uscite varie posizioni su questa difficile tematica, e apparsa chiara la necessità di un anarchismo capace di attualizzarsi, ma su le modalità di cambiamento e su le posizioni da prendere nel corpus politico le divergenze fra i presenti erano molte.
Le relazioni sono state dettagliate ed hanno aiutato e stimolato il dibattito, soprattutto Vivien Garcìa è stato molto critico del post anarchismo, ha fatto una relazione molto precisa e puntuale su questa tematica, mentre su i nuovi anarchismi è stato molto più breve ed informale. Riassumendo in poche parole la sua tesi è critica del post-anarchismo afferma che gli intellettuali post-anarchici vogliono andare contro l’ideologia dominante, ma non vanno nel senso dell’anarchismo, creano nuove teorie, e rendono difficile il compito a chi invece tenta di trovare la dimensione pratica delle proprie idee.
Tomás Ibañez è stato a mio modo di vedere molto chiaro e stimolante su entrambe le tematiche, con una critica velata al post-anarchismo e una profondità nell’analisi dei nuovi anarchismi. Ci ha parlato di nuove soggettività antagoniste e pratiche sovversive, di come queste sembrano reinventare gran parte dei principi anarchici. Un esempio fondamentale nella sua relazione su i nuovi anarchismi sta nella convinzione che l’emancipazione cominci subito, nell’azione che mira a ricercarla, o non comincia e che quello per cui si lotta deve essere già presente nella pratica che si utilizza. Per creare “la differenza” subito nel momento in cui si lotta, senza aspettare la presa rivoluzionaria della Bastiglia, creando spazi di vita e modi d’essere rivoluzionari nel quotidiano che si distacchino totalmente dal sistema costituito.

Andrea Staid

Alcune opere post-anarchiche

Todd May, Anarchismo e post-strutturalismo. Da Bakunin a Foucault, Elèuthera, 1998.
Rechard Day, Gramsci è morto. Dall’egemonia all’affinità, Elèuthera, 2008.
Saul Newman, From Bakunin to Lacan. Anti-authoritarianism and the dislocation of power. Lanham MD: Lexington Books, 2001.
Saul Newman, Power and Politics in Poststructuralist Thought. New theories of the political. Londres: Routledge, 2005.
Saul Newman, Unstable Universalities: Postmodernity and Radical Politics. Manchester: Manchester

 

 

Ricordando
Horst Stowasser

(7 gennaio 1951 - 29 agosto 2009)

Horst Stowasser (1951-2009)

Con il bastone in mano, il sigaro in bocca e l’entusiasmo nel corpo, Horst era della famiglia dei “giramondo”, degli infaticabili propagandisti anarchici. Cresciuto in Argentina, terra dei suoi primi impegni, era rientrato a studiare in Germania proprio nel momento in cui un nuovo movimento anarchico stava nascendo. Con suo fratello Klaus si buttò a capofitto in un progetto tipografico ed editoriale creando nel 1971 un centro di documentazione a Wetzlar, inserito in un progetto comunitario più vasto. Velocemente strinse contatti in tutta l’Europa, pubblicando opuscoli e periodici autoprodotti con passione, partecipando a riunioni intenazionali: a Losanna venne la prima volta nel 1972 a parlare della Germania, nell’ambito dell’incontro su “Società e contro-società”, l’ultima volta due anni fa per la riunione della FICEDL e per l’anniversario del CIRA.
Gli ostacoli per lui erano altrettante possibilità di cambiamento. L’idea del “Progetto A”, l’inserimento in una città media di tutta una serie di collettivi praticanti attività remunerative, insieme con un lavoro militante, erano scaturiti dalla sua vita, dall’unione tra la casa editrice e l’attività di grafico, accogliendo i lettori a “das AnArchiv”. Si impegnò fortemente nella vita locale, nel lavoro con gli immigrati di lingua spagnola e nel problema della casa.
Le difficoltà ed i conflitti non gli sono certamente mancati, ma lui non dava l’impressione di esserne afflitto e anche quando la malattia lo obbligava a rintanarsi riusciva sempre a venirne fuori. Fino all’ultimo progetto, visionario e realizzato: l’acquisto collettivo e la ristrutturazione di un enorme gruppo di case storiche vicino Neustadt, le Eilarsdhof, per vivere e lavorare tutte le generazioni insieme, per offrire a giovani e anziani una casa, un esempio pratico di solidarietà.
Il suo primo libro di successo, Leben ohne Chefs und Staat (“Vivere senza capi né Stato”, 1986), fu scritto con questo stesso spirito del “doppio progetto”: racconta episodi della storia degli anarchici facendo dei piccoli corsi per i “simpatizzanti”, una pedagogia dell’azione diretta e dell’etica. Uno dei dei suoi ultimi libri, intitolato semplicemente Anarchia! (2007) è stato per varie settimane in testa alle classifiche tedesche della saggistica, pubblicizzato con un giro instancabile di conferenze e di dibattiti.
Una delle ultime foto dell’album Ciao anarchici, sull’incontro internazionale di Venezia nel settembre 1984, mostra Horst mentre balla con una ragazza sulle spalle che tiene una bandiera nera, facendo rivivere la foto iconica del maggio ‘68 a Parigi.

Marianne Enckell
CIRA - www.cira.ch

Ricordando
Horst Stowasser

Abbiamo tradotto questo piccolo ricordo di Marianne con fatica, perché Marianne scrive sempre con grande precisione e con parole personali e molto espressive. Quasi una poesia, e tradurre le poesie è impresa ardua,
Esattamente come scriveva e si comportava Horst, questo nostro grande compagnone. Un cuore grande così, un entusiasmo che sprizzava dai pori, e al contempo una capacità di essere attivo, riflessivo, lavoro manuale e intellettuale. E un sorriso, un abbraccio, una capacità di coinvolgimento che non passavano mai inosservati.
Lo avevamo sentito a lungo, più volte, nelle ultime settimane, perché abbiamo in mano un paio di lunghe interviste – con sue aggiunte in tedesco, castigliano e italiano – in cui Horst fa (faceva?) il punto sui suoi progetti, quasi tirando un bilancio della propria traiettoria militante. Eravamo d’accordo che gli avremmo mandato le bozze per un’ultima revisione.
La pubblicheremo su uno dei prossimi numeri. E sarà un’occasione per ricordare questo giramondo dell’anarchia.

Aurora Failla e Paolo Finzi