rivista anarchica
anno 39 n. 349
dicembre 2009-gennaio 2010


società

La finanza ci regala la sua crisi
di Andrea Papi

Il capitalismo ha confermato la sua vitalità mentre le ricette proposte dalla sinistra istituzionale mostrano la corda. Bisogna studiare possibilità di alternativa autogestionaria.

 

Il quesito che da mesi aleggia come un fantasma e incombe sulla politica e le sue decisioni è se la crisi stia per finire, se abbia cessato la caduta libera o continui a tormentarci e crearci problemi. Una risposta molto convincente la dà senz’altro la rivista Libertaria (1) nel suo ultimo numero con l’articolo redazionale introduttivo e con l’articolo di Massimo Amato Adesso viene il peggio. A chiare lettere e con competenza ci spiega che non è affatto finita, che sostenerlo è una sciocchezza e che i suoi frutti peggiori sono in dirittura d’arrivo, ovviamente solo per gli esclusi dai lauti benefici dell’oligarchia dominante, la sempre più ampia schiera dei diseredati, dei senza lavoro, dei lasciati a casa con la scusa che il mercato non è più in grado di assorbirli e sostenerli.
Tutto verissimo! Ma personalmente sono convinto che bisogna soffermarsi sul fatto sostanziale che il quesito c’è perché ci sono almeno due chiavi di lettura contrapposte. Quella dell’oligarchia globale, che è in grado di imporre i propri interessi sulle decisioni e sulla vita del pianeta, e quella di tutti gli altri che, nolenti o volenti, ne subiscono l’immenso nefando potere. Dal punto di vista dell’oligarchia, il cui modo di operare ne è stato la causa prima e vera, probabilmente il peggio che temeva non è più incombente e identifica segnali di “inizio uscita dalla crisi”. In fondo per diversi mesi si è vista costretta all’angolo perché si paventava il pericolo concreto che non potesse più continuare nei suoi maneggi e nelle sue speculazioni, dal momento che il mercato da lei gestito, per come si era andato consolidando negli ultimi decenni, era andato letteralmente a puttana.
A detta degli esperti accreditati sembrava che ci fosse il rischio di una vera e propria crisi di sistema, che cioè il sistema finanziario nel suo complesso stesse per saltare definitivamente fino a diventare impraticabile. L’oligarchia cioè, per propria mano, si è presa un gran bello spauracchio.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, verrebbe da dire d’istinto. Purtroppo non è proprio così e tutto è molto più complesso e complicato. Già si è permesso ai manager e ai dirigenti responsabili della debacle, venuti allo scoperto e costretti ad esser messi fuori campo, di autopremiarsi con liquidazioni da nababbo che nulla hanno a che vedere con una punizione meritocratica per la loro manifesta incapacità. Evidentemente, vien da dire, non hanno sbagliato: hanno fatto ciò che l’oligarchia si aspettava, incuranti gli uni e gli altri di rischiare di affondare tutta la baracca. I guadagni che stavano facendo, frutto di speculazioni fuori da ogni controllo e regola, erano talmente lauti che a nessuno di loro importava se ciò avrebbe poi messo sul lastrico milioni di esseri umani che già non godevano di buona salute economica. Quello che a lor signori interessava erano le ingenti accumulazioni finanziarie nelle proprie tasche, non il benessere dell’umanità, la quale, anzi!, si facesse “fottere”.

Il capitalismo gode ottima salute

Il baratro che temevano sembra finito e probabilmente, una volta trascorso il tempo indispensabile per un necessario riassestamento, in cuor loro si apprestano a riprendere la ginnastica speculativa per rimpinguare nuovamente il bottino. Sicuramente però con nuove formule speculative e giochi finanziari diversi e aggiornati, dal momento che quelli vecchi, oltre ad essere ormai logori, si sono dimostrati disastrosi. Al di là delle segrete speranze di qualche anticapitalista d’antan, che all’inizio della crisi aveva provato a dichiararlo trionfalmente, il capitalismo non è affatto morto. Anzi! Rischia di esser destinato a godere, fra qualche anno, di rinnovata ottima salute, continuando a peggiorarci la vita, a ordire trame che garantiscano le rendite dei potenti, a condurci (fra qualche decennio?) verso un altro disastro economico di portata epocale.
Non vedo nulla di buono all’orizzonte. Nonostante l’apparente crisi endemica del capitalismo, l’anticapitalismo è sempre di più ko, incapace, in tutte le sue svariate forme e propensioni, di mettere in campo un’alternativa credibile ed efficiente. La sostanza di tutto ciò che gli anticapitalisti avevano denunciato prima si è pienamente verificata. Eppure neanche in piena emergenza nessuno degli operatori che contano si è rivolto agli anti, tanto meno alla sinistra nel suo complesso, per vedere cosa fare e chiedendo soccorso perché il loro sistema non stava funzionando. Anche di fronte alla situazione tremenda provocata da loro stessi, i sostenitori del capitalismo hanno fatto da soli, sapendo che da chi li ripudia non potevano ricavare nulla di buono e di utile. Così hanno dato avvio ad interventi che, com’è sempre successo, hanno spostato la crisi dal luogo d’orine, la finanza globale, regalandola al sistema produttivo e all’insieme della società.
Massimo Amato è molto esplicito e chiaro:

«…non l’abbiamo evitata… grazie alla capacità di autoregolazione dei mercati. L’abbiamo evitata perché i governi hanno buttato nel fuoco trilioni di dollari, debito dei contribuenti presenti e futuri (per molti anni) scardinando gli equilibri di finanza pubblica di tutti i principali paesi,… nazionalizzando di fatto gran parte del sistema bancario, sacrificando gli investimenti di cui il mondo ha bisogno, ponendo, quasi sicuramente, le premesse per una nuova inflazione.» (2)
Prelevando fondi dall’erario pubblico, gli stati hanno salvato coloro che col loro potere finanziario ne hanno sempre condizionato la politica. Per capire l’entità di un simile intervento, basti dire che quelle ingentissime somme, regalate a piene mani alle banche che affondavano per aver navigato nei meandri insidiosi di una finanza fin troppo allegra, sono state superiori decine di volte alla somma che, secondo dati ONU, sarebbe stata necessaria per risolvere definitivamente la fame nel mondo. Per la fame e la povertà non si trovano mai i capitali disponibili per risolverle, mentre i guadagni stratosferici dell’oligarchia debbono riprendere.
In contemporanea stiamo assistendo a un impoverimento generalizzato. I bilanci nelle nostre case e negli uffici delle piccole imprese familiari sono sempre più smilzi, non si riesce più a risparmiare e investire, la disoccupazione aumenta e tocca cifre milionarie, la precarizzazione la sta facendo da padrona nel mercato del lavoro. Un numero crescente di persone non riesce più a programmare la propria vita ed è costretto a vivere giorno per giorno con l’incubo di non arrivare a fine mese. Senza parlare delle condizioni sempre meno umane cui sono costretti i migranti, gli emarginati, i diversi in genere. Per l’Italia in particolare si prevede nel lungo periodo una difficilissima risalita, ammesso che riesca ad innescare la marcia giusta, e molti economisti, compreso Draghi, ci avvisano che difficilmente si potrà tornare ai fasti di prima, che le possibilità di lavorare e guadagnare decentemente sono ormai destinate ad essere una chimera per ogni tipo di lavoro dipendente.

I residui del socialismo autoritario

Loro risolveranno la crisi di gestione finanziaria avendoci regalato un mondo che sta peggiorando irrimediabilmente. C’è da chiedersi il perché di questa china di cui non si riesce ad intravedere il fondo.
Una prima risposta la troviamo constatando l’avvenuta mutazione della struttura economica portante. Il motore che oggi dà il moto a tutto il sistema capitalistico è la finanziarizzazione. Il centro motore dell’economia non è più da tempo nel rapporto tra capitale e lavoro, che la critica socialista al seguito di Marx vedeva in conflitto necessario, ma nell’accumulazione finanziaria, che non opera più soprattutto all’interno dello stato nazione, bensì naviga a livello globale tra i mercati finanziari di tutto il mondo. Oggi a farla da padrona e a dettare l’agenda di marcia non è più il profitto, derivato dallo sfruttamento del lavoro da parte dei proprietari dei mezzi di produzione, e il sistema produttivo nel suo complesso è assoggettato alle spinte verso l’accumulazione, la speculazione e la rendita finanziarie. Non è infrequente che, indipendentemente che siano efficienti o no, dei pezzi produttivi vengano smembrati e sacrificati a giovamento di investimenti finanziari.
Forse è soprattutto per questo che i residui del socialismo autoritario, teorizzante la gestione del potere e che era riuscito a egemonizzare e conquistare il monopolio della cultura e delle scelte strategiche delle lotte per l’emancipazione, sono scivolati in un declino inarrestabile. Da decenni hanno abbandonato ogni velleità di una qualunque alternativa seppur blanda, non certo rivoluzionaria. Ora si propongono solo come regolatori del sistema capitalistico sostenendone l’insuperabilità. Ma nel far questo ho il sospetto che continuino a pensare al capitalismo che si analizzava nell’ottocento, incentrato appunto nel rapporto tra capitale e lavoro. Di fatto non rappresentano ormai che un post-socialismo che rinnega se stesso. Mantenendosi abbarbicati ad una sub/cultura derivata dal socialismo, si propongono come il “nuovo” gestore della macchina tritasassi che oggi gestisce la speculazione finanziaria e dà il là a quella che, non si capisce perché, gli esperti si ostinano a chiamare “economia reale”, quando è invece subordinata ai processi reali che definiscono i movimenti e le scelte economiche.
Così delle tesi della “fu sinistra” non sa che farsene nessuno. Non servono né alle oligarchie dominanti, che hanno ben altro cui pensare, né alle masse dei diseredati, dei subordinati, dei consumatori, dei precari, che sempre di più affollano le stive di rimessa dei vertici speculativi. Non più ben accetti, dopo averle espropriate della spinta all’alternativa con cui in origine le avevano illuse, invitano queste masse sempre più alla deriva a delegare loro la gestione della conservazione dello status quo sempre meno accettabile in cui si trovano. Risiede senz’altro in ciò una delle ragioni principali della ormai endemica crisi della sinistra nel mondo occidentale.
Ma se la sinistra culturalmente egemone è praticamente in via d’estinzione, proprio per la sua incapacità d’interpretare il cammino del mondo, ciò non vuol dire che bisogna rassegnarsi perché ha avuto ragione la destra. Destra e sinistra in fondo sono state speculari rispetto alla visone del mondo che hanno messo in campo. Di fatto non esistono più, se non come mera collocazione politica convenzionale. Al loro posto esistono apparati che si fronteggiano per una gestione sempre meno in grado di gestire il potere vero, sempre di più collocato altrove, i quali si divertono a cimentarsi in ipotesi differenti di soluzioni tecniche tutte all’interno del sistema vigente, che in realtà funziona sempre meno dato i presupposti su cui si fonda: l’accaparramento delle risorse e l’accumulazione speculativa da parte di una stretta oligarchia a danno e detrimento della gran parte delle masse umane della terra.

La vecchia idea proudhoniana

Dato come sta andando il tutto, urge il bisogno di riprendere in mano le tensioni e le spinte di emancipazione dallo stato di cose presente. Emancipazione radicale, perché ciò che c’è e ci domina appare sempre meno riformabile. Va sovvertito, mettendo però in campo logiche e pratiche di sovvertimento che non continuino a nutrirsi dei miti della rivoluzione-insurrezionale, ormai troppo consumata in modo fallimentare sul piano storico per poter essere né aggiornata né tanto meno ripresa. Come pure è ormai del tutto insufficiente opporsi e protestare. Ogni opposizione e protesta che si limiti a rimanere tale è irrimediabilmente destinata o a essere repressa o riassorbita. È ora di azzardare a tentare costruzioni rivoluzionarie dell’alternativa. Tra le ipotesi da mettere in campo, cominciando a sperimentare, non ci può non essere il tentativo di sottrarsi alla cappa plumbea della costrizione finanziaria, perché è lì il centro del potere che ci schiavizza e ci condiziona l’esistenza.
In questa prospettiva senz’altro ci può essere d’aiuto la vecchia idea proudhoniana delle banche del lavoro e di mutuo soccorso. Ovviamente aggiornata, adeguata ai tempi, in modo da risultare efficiente e propositiva. Se pensiamo che tutti ci troviamo costretti a versare i soldi dei salari e degli stipendi nelle banche della speculazione disastrante, non mi sembra nient’affatto male l’idea di rendere agibili luoghi, accessibili a tutti gli esclusi dal mercato speculativo, in cui versarli al posto delle banche, gestendoli direttamente e votandoli alla solidarietà e al finanziamento di progetti autogestiti. Sarebbe un primo passo per non regalare all’oligarchia i sudati risparmi, quando ci sono, ottenendo di sottrarli agli scopi nefandi dell’onnivoro potere finanziario e di autogestirli direttamente per scopi sovversivi di autogestione alternativa.

Andrea Papi

Note:
1. Libertaria, il piacere dell’utopia, anno 11 numero 3, luglio/settembre 2009.
2. Ibidem, pag. 7.