rivista anarchica
anno 39 n. 349
dicembre 2009-gennaio 2010


 

Per un anarchismo
“aperto”

Lo storico del pensiero politico, che consideri l’anarchismo ancora uguale a Proudhon, Bakunin, Stirner, Kropotkin, Maaltesta, Reclus, Fabbri, Merlino, Berneri (cito da ultimo il più attuale tra loro), dovrà ricredersi: oggi, uno studioso del valore di Papi (Per un nuovo umanesimo anarchico, Zero in condotta, Milano 2009), che è anche pubblicista e militante, aggiorna il pensiero libertario, senza buttare via le mediazioni storiche (gli autori citati e non solo, nella loro enorme diversità), tenendo conto delle teorie del caos e delle catastrofi, quelle che da Th. Kuhn arriva a F. Capra, passando per Prigoyne, Stengers, R.Thom, ma anche della rivoluzione attuata da M. Foucault.
Riducendo tutto ai minimi termini: la teoria del caos e delle catastrofi mette in crisi la”certezza” delle scienze, mostrando come neppure la matematica sia “sicura”e sempre affidabile, come insomma un paradigma scientifico sia accettabile come assoluto, mentre la teoria foucaultiana ci parla di poteri e non di un Potere, ipostatizzato come verità assoluta da “anarchismo classico” e da Pasolini (i saggi e gli articoli di un grande artista, di inizio e metà anni Settanta, ora ripubblicati in differenti edizioni), mentre anche le ricadute politiche di quanto detto prima, a livello epistemologico, si possono comprendere senza problemi: non c’è una verità, una teoria che valga.
Immaginarsi l’attuale deriva anarco-capitalista e “liberale”di certo libertarismo attuale, totalmente “falsificato” (Papi mi perdonerà questo lemma popperiano) dalla recente crisi economica, tutta “finanziaria” (ma non solo, certo) in origine. Da leggere con estrema attenzione, centellinando le frasi, ma la lettura non è difficile, in quanto
Papi, che è oratore pregevolissimo, oltre che notista politico “militante”su “A”, sa dosare la retorica anche del e nel testo scritto. D’altronde, l’autore, che riflette da quasi un quarto di secolo con saggi teorici su un rinnovamento globale dell’anarchismo, sa molto bene come e che cosa proporre al lettore. Un libro ricco, stimolante, che non dà risposte, ma giustamente, e da libertario, interroga, senza dare facili soluzioni, appunto.
Del resto Papi, anche poeta e scrittore, sa far interagire sempre molto bene emisfero sinistro del cervello(scienza, logica, teoria) e emisfero destro (creatività), dove, del resto, le neuroscienze ci dimostrano ormai ampiamente che tra le due “dimensioni” non c’è stacco netto né tantomeno dicotomia. Un libro, oltre a tutto, che apre anche a un libertarismo non anarchico, quello che si trova in un Berneri, che pure anarchico era e rimase sempre, come Papi, del resto), quello di un Piero Calamandrei, di un Ernesto Rossi, dei fratelli Rosselli, di Piero Gobetti, che, pure nelle loro talora anche accentuate divergenze, diedero un contributo fondamentale a un socialismo libertario oggi non certo rappresentato né dal Partito Radicale né dai frammenti di quanto rimane dell’”area socialista”.
Le presunte contraddizioni rilevate nella post-fazione di Giampiero Berti, insigne storico del pensiero libertario quanto dichiaratamente “scettico” sull’anarchismo stesso, non sembrano essere reali, tanto che sembrerebbe opportuno, in questo caso, un rinvio al mittente, O meglio, le eccezioni sollevate dallo storico vanno bene se inserite in una discussione problematica, non sono una proposta nè una risposta a Papi, il cui testo è appunto aperto, distante da ogni modellistica politica sociale (per esempio, collettivismo bakuniano versus comunismo kropotkiano...). Roba da Ottocento, ormai lo si può dire senza problemi, per non dire dei nostalgici della propaganda del fatto.
Grande spazio all’utopia, nel volume di Andrea Papi, giustamente rivendicata come “forza motrice” della storia (non lo dice così, ma il senso è quello), come “quella che morde sulla storia” (Otto Ruehle), ma al tempo stesso fermo e continuo confronto con la realtà.

Eugen Galasso


“Quannu vene
l’anarchia”

A cura dell’Associazione Culturale “La società altra” – Laboratorio Comunalista di ricerche e iniziative sociali – che ha sede in Spezzano Albanese (CS), è stato editato un CD di canti anarchici, “Quannu vene l’anarchia”, eseguiti musicalmente e cantati da un gruppo di compagni anarchici e libertari che si sono dati il nome di suonatori libertari calabresi.
I canti contenuti nel CD nascono all’interno del Gruppo Musicale Anarchico di Amantea in provincia di Cosenza, sono inediti e rispettano fedelmente le caratteristiche poetiche, politiche e musicali del canto anarchico tradizionale. Nati durante gli anni settanta, dal risveglio delle lotte dei movimenti di lotta studenteschi e operai, questi canti si contraddistinguono per l’uso del linguaggio dialettale e perché raccontano le vicende sociali e politiche di un territorio, la provincia di Cosenza e della Calabria, facendo riferimento alle problematiche del mondo intero in quanto gli anarchici sono internazionalisti. Il contenuto dei testi è contrassegnato da un linguaggio duro, forte e deciso, contro l’ingiustizia, un linguaggio che propone un’utopia, una società altra, alternativa a quella esistente. L’uso del linguaggio dialettale si spiega perché i testi sono a forte contenuto politico e sociale in cui prevale la riscoperta, il mantenimento e la difesa della cultura calabrese. La riscoperta della cultura calabrese vissuta nella quotidianità e utilizzata in chiave di lotta. Una lotta che si pone contro le ingiustizie, lo sfruttamento, la soppressione della cultura tradizionale, la cultura massificante del capitale di cui lo stato si fa portatore. L’uso della cultura popolare di contestazione é un mezzo per comunicare messaggi e svegliare le coscienze.
Il disco è il risultato di un lavoro collettivo tra musicisti e compagni che è una delle caratteristiche fondamentali dei canti anarchici. Il repertorio musicale è costituito da ballate, tarantelle, canti, eseguiti con strumenti tipici della cultura tradizionale: chitarra francese, tamburello, tammorra, fisarmonica, flauto, mandola. Altri strumenti suonati nel disco sono il contrabbasso, l’armonica a bocca il rullante, il cembalo, il trombone, che pur facendo parte di altre culture musicali popolari, interagiscono perfettamente con i suoni ed i canti della cultura popolare calabrese. Il canto, come il contenuto dei testi, mantiene i tratti tipici della musicalità tradizionale, timbrica rauca, ritmica potente, a simboleggiare la rivendicazione dei torti e delle ingiustizie subite dal mondo contadino e operaio. Il tema dell’emigrazione, essendo la Calabria un popolo di migranti, è uno dei temi principali: in “L’emigranti” si cerca di ironizzare su un problema che, padroni, fascisti, antimeridionalisti, avevano cercato di celebrare con la triste frase: “Ognuno alla sua terra” disinteressandosi della tragedia della nostra terra: si parte, si lasciano i propri affetti, il luogo natio, la propria cultura per andare in un altro paese. La ballata “E mò ca simu ccani” esprime con durezza il desiderio dei calabresi di restare nella terra natia, di non partire, per realizzare la vita tra i propri affetti; ma la realtà è ben diversa: politici, baroni, padroni, genti di altri paesi hanno depredato la bella Calabria senza dare nulla in cambio, perciò la condanna senza appello verso la classe dirigente: la chiesa, lo stato e l’occupante straniero che hanno costretto i calabresi ad emigrare. I canti piu’ interessanti sono i cosiddetti canti ideologici in cui si aspira ad una società diversa: “Quannu vena l’anarchia”, “’A canzuna i l’anarchicu federalista”, “Cinque guagliuni”. “’U primu maggio a Spizzanu” è un omaggio alla cittadina di Spezzano Albanese, centro Arbëresh della provincia di Cosenza, dove si teorizza una società altra ma è nel contempo un omaggio alla cultura paesana tradizionale.
In conclusione posso dire che questo disco, per la riproposizione dei contenuti e dei valori espressi, la società dell’avvenire, la fratellanza universale, la lotta contro la tirannia e lo sfruttamento, la solidarietà umana, la lotta contro l’ingiustizia, la lotta per una società di liberi e di uguali è un disco attuale.

Vincenzo Giordano

Per richiedere il CD “Quannu vene l’anarchia” servirsi dei seguenti recapiti: Domenico Ligurori, cas. post. 9, 87019 Spezzano Albanese (CS); tel. 339-57 888 76 (Domenico); email minicuz@alice.it. Una copia del CD costa euro 10,00 più spese di spedizione; per richieste dalle 10 copie in euro 6,00 a CD.
Versamenti ccp 17208877 intestato a Domenico Liguori via L. Amato, 27 – 87019 Spezzano Albanese (CS).


L’amore
contro i tiranni

“Schiaffi, carezze e altro” raccoglie le poesie più belle di Bruno Misefari, ingegnere e filosofo anarchico di Palizzi che morì nel 1936. Il volume, curato da Pino Vermiglio, reca 30 illustrazioni a colori di 16 individualità creative libertarie, fra le quali Pablo Echaurren, Horst Fantazzini, e Libereso Guglielmi classe 1925 conosciuto come “il giardiniere di Calvino”.

“Un poeta o uno scrittore che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in prosa. L’arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere eminentemente rivoluzionaria” (Bruno Misefari)
Ho seguito con enorme piacere il progetto del libro dalla sua ideazione, anche se le distanze imponevano l’uso del telefono. Leggere le splendide poesie di Misefari, che parlano d’amore, carcere, guerra, antimilitarismo e di tanti altri temi a lui cari, è stato molto emozionante, in effetti il linguaggio è antico ma la tensione verso la libertà appartiene ad ogni tempo. Trascorso un anno dalla nostra prima conversazione, io e il mio compagno abbiamo incontrato Pino di persona, in occasione della Vetrina dell’editoria anarchica e libertaria. È stato bello trovarsi e ragionare per prima cosa di umanità, perché come diceva Misefari “Prima di pensare di rivoluzionare le masse, bisogna essere sicuri di aver rivoluzionato noi stessi”.
La prima cosa che balza agli occhi e al cuore è la simpatia e l’umanità di Pino, la sua straordinaria generosità. Durante la presentazione fiorentina, nel parlare dei calabresi Angiolino Rinato (Rian), e poi di Angelo Casile, e della strage dei 5 giovani anarchici partiti alla volta di Roma la sera del 26 settembre del 1970 in Mini Minor con “documenti che faranno tremare l’Italia” e mai arrivati a destinazione, gli viene un po’ di magone. L’emozione nel ricordare queste vite spezzate, e pure Horst (“calabrese” solo per brevi periodi, per il regime speciale) che ormai non ricorda pubblicamente più nessuno, gli appanna gli occhi di lacrime.
Sarà che da “artista” sono abituata a pensare di più con le emozioni che con le parole, ma il suo lavoro da “inesperto” in materia artistica (così si autodefinisce, con il raro dono della modestia che hanno solo i grandi e un velo di ironia burlona nel sottolineare che non appartiene a nessun “comitato scientifico”) mi sa istintivamente di buono. In effetti questo nostro lavoro è nato in modo spontaneo e le “pecche” qualora riscontrate potrebbero avere come unica matrice la genuinità, la stessa che ha dato vita a forme e colori ispirati e in molti casi felicemente aderenti alle Poesie.
Non è solo un libro, è la prima tappa di un percorso dove la poesia, l’arte grafica e pittorica, la musica, il teatro e tanto altro, così come avrebbe amato Misefari, escono dai soliti percorsi autoreferenziali in senso stretto, si intrecciano per un ideale comune.
Scrive P.V. in copertina: “In questo volume sono raccolte le poesie di Bruno Misefari, apparse postume nel 1969, a 33 anni dalla morte dell’anarchico di Calabria, con il titolo “Schiaffi e carezze”, stampato dai F.lli Morara di Roma, amici di famiglia di Pia Zanolli Misefari. A questa silloge si aggiungono altre 13 poesie, pubblicate su alcuni periodici tra il 1910 e il 1987 (Il Libertario di La Spezia, Il Risveglio Comunista-Anarchico di Ginevra, Umanità Nova), che sono state reperite attraverso le ricerche condotte presso l’International Institute of Social History di Amsterdam, l’Archivio storico di Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e la disponibilità del compagno e amico Natale Musarra... Questo omaggio all’Autore nasce in Calabria da Libertari calabresi, che condividono gli ideali di Bruno Misefari: il sottoscritto che ha pensato e coordinato il lavoro; Antonio Orlando, che all’attività dell’insegnamento e alla libera professione di avvocato, abbina la passione di ricercatore storico di grande competenza, scrivendo anche la prefazione a questo libro; Alessandro Mazzà, poeta, fotografo, grafico ed editore, che ha curato l’impaginazione e la grafica; Elio Marchese, che è stato il primo a sostenermi concretamente per la riuscita del progetto. Si ringrazia anche l’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea di Cosenza, diretto da Giuseppe Masi, impegnato a promuovere la ricerca sui protagonisti della storia calabrese del Novecento...”
Segue un ringraziamento di noi autrici autori delle opere grafico pittoriche, nell’ordine così come riportato dal libro: Libereso Guglielmi “il giardiniere di Calvino”, Horst Fantazzini, Francesco Namia, Carmelo Panté, Franco Pavese, Tito Solendo, Santo Catanuto, Pablo Echaurren, Francesco Triglia, Antonio De Rose, Pippo Gurrieri, Salvatore Corvaio, Patrizia “Pralina” Diamante, Giulia Morano, Ilenia Dragonetti, Dario Gioffré Florio.
Un omaggio a Bruno Misefari e alla Calabria, ma anche una danza di segni che mostrano una “continuità” tra Poesia e Pittura, Cuore e Ragione, Passione e Impegno sociale.
Chi volesse copie del libro e/o proporre qualche serata con cena di sottoscrizione, letture poetiche e presentazione, può scrivere a libertariamente@libero.it.

Patrizia “Pralina” Diamante

Bruno Misefari “Schiaffi, Carezze e altro” sottotitolo: “...alta poesia sociale e umana che per amore sferza vili, impostori, tiranni” a cura di Pino Vermiglio, con le opere originali e appositamente create da 16 artisti, alcuni dei quali di fama internazionale.
Copertina di Pablo Echaurren. Impaginazione e grafica a cura di Alessandro Mazzà, casa editrice OggiNoi. Pagg.110, 30 illustrazioni a colori. Una copia 15 euro, per più copie si applica lo sconto.


Ivan Illich
e la perdita dei sensi

La perdita dei sensi di Ivan Illich (Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pagg. 352, euro 18), uscito lo scorso settembre, completa il corpus delle opere illichiane, proponendo in italiano i saggi, i discorsi e i testi di conferenze che coprono l’ultima fase della vita di Illich, dal 1987 al 2002.
Il volume, uscito postumo in Francia nel 2004 col titolo La Perte des sens, è un’opera fondamentale per comprendere le ultime fasi del pensiero del grande storico e filosofo, che ha sempre testimoniato con la vita la sua critica dello sviluppo, delle istituzioni e della società dei servizi. La raccolta, eterogenea sia per generi sia per argomenti trattati, permette di approfondire i temi dell’ultimo Illich, già proposti al lettore italiano dai due preziosi volumi di conversazioni curati da David Cayley pubblicati dalla casa editrice Quodlibet di Macerata (Pervertimento del Cristianesimo, 2008 e I fiumi a nord del futuro, 2009). La perdita dei sensi consente ora di avvicinarsi al pensiero dello studioso con più precisione e rigore, ampliando e specificando meglio quanto già apparso negli ultimi anni in Italia, specialmente in I fiumi a nord del futuro, anche se l’apparato critico del volume lascia un po’ a desiderare: le note bibliografiche sono scarne e si è rinunciato a ricercare le edizioni italiane dei testi citati, inoltre manca un indice dei nomi e un indice analitico davvero efficace.
I temi raccolti da Illich in questa sua ultima pubblicazione, cui lavorò insieme a Valentina Borremans prima della morte, avvenuta nel 2002, vanno dalla ricerca sull’origine e la critica dei servizi (in primis scuola e salute, questioni da sempre care all’autore) sino alla storia dei bisogni e agli argomenti «economici» tesi a «risvegliare dal sonno economico» e a far «perdere la fede nell’Homo oeconomicus», illuminante a proposito è la conferenza su Leopold Kohr del 1994. Grande spazio occupano poi i temi della mutazione delle percezioni: della visione (storia dell’ottica), del leggere (lectio divina e mutazione del testo), del sentire (amplificazione…). Commoventi poi, per la loro preveggenza e la loro incidenza sull’esistenza delle persone, le riflessioni sul morire: particolarmente toccanti e significative la lettera sulla «Longevita postuma», scritta a delle monache di clausura, e quella su «La perdita del mondo della carne», indirizzata all’amico Hellmut Becker.
Illich, in questo libro, si trova più volte a rileggere le sue opere precedenti, specialmente Nemesi medica, alla luce dei mutamenti sociali e culturali degli ultimi trent’anni, confrontandosi con la «società dei sistemi» che ha inciso inaspettatamente sulla percezione del sé in relazione all’‘altro’, al di là di ogni critica dello sviluppo e che – secondo l’autore – esige analisi sempre più complesse.
L’obiettivo di Illich, per cui si batte in tutti questi interventi, è «la rinascita delle pratiche ascetiche, allo scopo di mantenere vivi i nostri sensi, nelle terre devastate dallo ‘show’, in mezzo a informazioni schiaccianti, a consigli perpetui, alla diagnosi intensiva, alla gestione terapeutica, all’invasione dei consiglieri, alle cure terminali, alla velocità che toglie il respiro». Pratiche ascetiche che devono necessariamente basarsi sull’amicizia. «Ho scritto questi saggi – ricorda Illich – durante un decennio consacrato alla filia: coltivare il giardino dell’amicizia in mezzo all’Absurdistan in cui ci troviamo e progredire nell’arte di questo giardinaggio con lo studio e la pratica dell’askesis».
Ivan Illich

Tra i molti argomenti trattati da Illich ne La perdita dei sensi, la critica alla «a-mortalità» proposta in queste pagine risulta particolarmente preziosa: precisa, infatti, il pensiero dell’autore su quelli che noi siamo oggi abituati a chiamare i «temi della bioetica». Su questo punto spesso Illich viene frainteso da chi fa dei suoi testi una lettura superficiale, non comprendendo che egli si colloca al di là della cosiddetta bioetica. Compiendo una critica radicale delle categorie mediche imposte dall’ideologia dello sviluppo, Illich si schiera contro ogni rappresentazione degli esseri viventi come «sistemi immunitari», concezione che legittima la riduzione dell’essere umano a «una vita». «‘Zigote’ – afferma – è il nome dato all’uovo umano fecondato che cerca di trovarsi una nicchia nell’utero. Questo ‘fatto scientifico’ sta per acquisire uno status giuridico in quanto soggetto umano». Ma come si è arrivati a questo? «Almeno in parte perché i costituzionalisti come la cancelleria pontificia insinuano che il genoma e il citoplasma possono svilupparsi in un ‘io’ per il riconoscimento dell’‘altro’ – all’occorrenza, la madre» (p. 252).
Illich rivendica il «contatto con la carne» e, in questo senso, si colloca al di là (o al di qua) della bioetica, in quanto considera la morte e la sofferenza due territori che devono restare estranei alla medicina. I medici antichi «imparavano a riconoscere la facies ippocratica, l’espressione del viso che indicava che il paziente era entrato nell’atrio della morte. In questa soglia la ritirata era il migliore aiuto che un medico potesse portare alla buona morte di un suo paziente». Oggi, invece, ci troviamo di fronte alla «crescita esponenziale dei costi delle ‘cure’ terminali, al miserabile prolungamento di ‘pazienti’ tuffati in un coma irreversibile e che hanno l’esigenza che una ‘buona morte’ – letteralmente euthanasia – sia riconosciuta come una parte della missione assegnata al ‘corpo curante’» (pagg. 254-255).
È facile comprendere come questa critica radicale del «sistema medico», che viene prima di ogni bioetica, con tutta la sua libertà e il suo coraggio, difficilmente può essere accettata dalle fazioni che oggi occupano il dibattito pubblico su questi temi. Sia i difensori della «vita» ad ogni costo – grazie alle preziose tecniche della medicina – sia i difensori della «libertà» e della «buona morte» si trovano spiazzati di fronte alla prospettiva illichiana. Entrambi i fronti, per gli strumenti che propongono e per l’accettazione a-critica del sistema medico (comunque, sempre chiamato ad intervenire o «pro» o «contro» – e viceversa) restano schiavi della medicalizzazione della vita – e della morte. Due facce della stessa medaglia, insomma. Illich scompagina questa dicotomia con la sua libertà, che si coniuga nell’amicizia e nella prassi ascetica e conviviale (che è «destinata all’uomo austeramente anarchico», scriveva ne La convivialità).
In questo senso Ivan Illich è fuori da ogni bioetica, proprio perché è conseguenza della medicalizzazione. «Un tempo la facoltà di vivere verso la morte si acquisiva nel quadro della cultura di ciascuno … Nell’era della gestione dei sistemi, il medico, in quanto professionista, può solo essere d’ostacolo al morire intransitivo. Oggi, la preparazione al morire si può praticare solo con degli amici. Esiste una vecchia norma mediterranea secondo la quale ciascuno ha bisogno di un amicus mortis, che gli dica la verità e resti con lui fino alla fine» (p. 260).

Gabriele Guccione


Alle radici culturali dell’intellettuale
De André

Vi ricordate la bella testimonianza da noi pubblicata all’indomani del brutale assassinio di Bruno Tommasoli, il giovane di Verona picchiato a morte da un gruppo di giovinastri a caccia di capelloni e immigrati? Ce la mandò Federico Premi, un giovane a noi sconosciuto, amico fraterno di Bruno: ci colpì per la sua profondità.
Poi Federico venne a trovarci un giorno in redazione e si parlò anche della sua tesi di laurea su Fabrizio De André. Su quel testo Federico ha lavorato a lungo e ora esce come libro, pubblicato da una casa editrice di Trento, Il Margine. Un testo di quasi duecento pagine dal titolo Fabrizio De André, un’ombra inquieta e soprattutto dal sottotitolo impegnativo “Ritratto di un pensatore anarchico”.
Si tratta di un grande lavoro, frutto di mesi trascorsi a Siena, presso la locale Università, dove esiste da anni un Archivio Fabrizio De André incentrato soprattutto su una (piccola) parte della biblioteca personale del cantautore ligure: Questo Archivio, nato in collaborazione con la Fondazione Fabrizio De André, è mandato avanti da un ristretto numero di persone di grande volontà e professionalità, tra le quali cito Stefano Moscadelli e il mio amico Gianni Guastella (che ha partecipato anche alla recente 4° Vetrina dell’editoria anarchica e libertaria, a Firenze).
Federico ha tra l’altro consultato decine di libri posseduti da Fabrizio, ne ha letto le innumerevoli chiose (che Fabrizio era solito fare leggendo) e anche su quella base ha approfondito in maniera notevole l’analisi dei filoni culturali, delle specifiche letture e in generale del contesto culturale in cui si è sviluppato il pensiero di Fabrizio – con un’attenzione speciale per l’aspetto anarchico, intelligentemente colto da Federico non tanto e non solo nella sua “adesione” ideologica, quanto sviscerato nella sua profondità culturale ed esistenziale.
Insomma, quello che viene fuori dalla non complessa lettura di questo denso studio è ancora una volta un Fabrizio intellettuale, uomo di grande cultura e sofferto pensiero, stimolante crocevia di tanti filoni culturali. Non unico, ma certo essenziale il filone anarchico.

Paolo Finzi