rivista anarchica
anno 39 n. 349
dicembre 2009-gennaio 2010


pedagogia

Dialogo con mia figlia
di Francesco Codello

È uscito nelle librerie Né obbedire né comandare l’ultimo libro del nostro collaboratore Francesco Codello, direttore didattico a Treviso. Sottotitolo: Lessico libertario. Eccone l’originale premessa dell’autore.

 

Quando ho preso in mano le bozze del tuo libro, devo dire che mi è sembrato un po’ «strano», nel senso che ha una struttura particolare. Sembra quasi un dizionarietto e ho temuto che si trattasse di una specie di «bignami».
In effetti la prima impressione potrebbe essere quella di un libro che mette in fila una serie di voci senza un nesso logico tra loro. In realtà il libro parla di un’idea complessa come l’anarchia, declinata attraverso alcune parole chiave presentate in modo sintetico. Nei miei intenti, questo approccio dovrebbe facilitare la lettura di quell’idea senza però banalizzarla.
Per spiegarmi meglio, cito le parole di un non anarchico, il Mahatma Gandhi, che mi hanno dato una ragione in più per scrivere queste pagine: Ho scoperto che la vita prevale sulla distruzione, quindi deve esserci una legge più forte di quella della distruzione. Una società bene ordinata e una vita degna di essere vissuta sono pensabili soltanto sotto il dominio di quella Legge. E questa è la Legge della Vita: dovremo cercare di realizzarla nella vita di ogni giorno.
Per me questa «legge» è l’idea anarchica. E il libro dunque parla di anarchia e di anarchici secondo una mia personale visione, una mia specifica sensibilità, una mia particolare conoscenza.

A quanto ne so, esistono già diversi libri sul tema. Che cosa pensi di poter aggiungere di nuovo? E in particolare, che cosa ti fa pensare che qualcuno della mia generazione possa aver voglia di leggere quello che scrivi?
È vero, di libri ce ne sono già parecchi, anche se forse non molto diffusi. Ne serviva davvero un altro? In effetti non penso di poter aggiungere molto di nuovo, ma il mio scopo è un altro. Innanzi tutto la scelta della struttura a lemmi mi è parsa utile per non spaventare un lettore giovane, o comunque al primo approccio, con un trattato noioso e pedante tipico di certi intellettualismi. Poi, la scelta delle parole chiave è molto diversa da quella che ci si potrebbe aspettare trattandosi di un libro su quella che è riduttivamente considerata una dottrina politica. Infatti, aver incluso parole riferibili più ad argomenti esistenziali che politici rappresenta una novità, in quanto consente di affrontare questa idea complessa attraverso il filtro della vita quotidiana. E come mi pare saggio e giusto, oggi le nuove generazioni si interessano molto di più ai grandi temi che caratterizzano l’esistenza umana piuttosto che alle questioni prettamente politiche, che offrono uno spettacolo sempre più avvilente e misero.
Ho inoltre cercato di soddisfare una doppia esigenza. Da un lato, esporre ciò che gli anarchici hanno detto e sostenuto nel corso del tempo rispetto agli argomenti affrontati, scegliendo nell’immensa mole di libri, opuscoli, canti, film, ecc. Dall’altro, far trasparire in modo chiaro e immediato, fin dalla scelta dei testi e degli autori, che si tratta della mia personale lettura di questa idea, senza pretendere in alcun modo di rappresentare una qualsivoglia ortodossia.

Quella speranza ancora attuale

Ho l’impressione, però, che tu abbia risposto alla mia domanda solo in parte, perché a me piacerebbe capire qual è la motivazione profonda che ti ha spinto a scrivere.
Per risponderti questa volta mi rifaccio a una canzone dei Rokes, che ha costituito (insieme ad altri brani) una sorta di colonna sonora della mia giovinezza. Quei versi trasmettevano la sensazione forte che qualcosa si stesse finalmente muovendo, che il mondo stesse cambiando: sotto una montagna di paure e di ambizioni, c’è nascosto qualche cosa che non muore. Se cercate in ogni sguardo, dietro un muro di cartone troverete tanta luce e tanto amore. Il mondo ormai sta cambiando e cambierà di più. Ma non vedete nel cielo quelle macchie di azzurro e di blu, è la pioggia che va e ritorna il sereno [The Rokes, È la pioggia che va, 1966].
Nonostante tante cose mi inducano al pessimismo, quella sensazione, o meglio quella speranza, in me è ancora attuale. In realtà io amo gli esseri umani, mi intrigano le loro debolezze, mi incuriosiscono le loro idee, mi stimolano le loro azioni, e soprattutto mi entusiasmano i loro gesti d’amore.
Detto questo, per me la spinta maggiore a scrivere è stata la volontà di presentare l’idea anarchica in modo che chi legge queste pagine non cada più nel tranello teso da quanti abitano le stanze dei privilegi e del potere quando utilizzano la parola anarchia, di cui spesso capovolgono il significato. Insomma, cercare di mostrare come anarchia sia sinonimo di ordine senza potere, di amore senza sopraffazione, di libertà senza arbitrio, di responsabilità senza obbedienza, di uguaglianza senza mediocrità, di diversità senza discriminazione.
L’esigenza primaria è dunque del tutto razionale, mentre la motivazione di fondo è emotiva. Far conoscere un pensiero senza i sentimenti che lo contaminano non mi interessa, perché sono sempre più convinto che sia necessario rendere le nostre idee più aperte, più critiche e anche più autentiche, pescando dentro di noi, nei nostri sogni, nelle nostre speranze, nei nostri dubbi. Non ho intenzione di insegnare nulla a nessuno: ho soltanto voglia di stimolare ognuno a ricercare dentro di sé le risposte più spontanee ai problemi della nostra vita, suggerendo un metodo antiautoritario che produca soluzioni libertarie. Anch’io penso, come cantava Giorgio Gaber, che questo mondo corre come un aeroplano e mi appare più sfumato e più lontano. Per fermarlo tiro un sasso controvento, ma è già qui che mi rimbalza pochi metri accanto. Questo è un mondo che ti logora di dentro, ma non vedo come fare ad essere contro. Non mi arrendo, ma per essere sincero io non trovo proprio niente che assomigli al vero. Il tutto è falso, il falso è tutto. Il tutto è falso, il falso è tutto [Giorgio Gaber, Il tutto è falso, 2003].
Ma questo pessimismo della ragione non mi impedisce di vivere secondo l’ottimismo della volontà e della speranza.

Scorrendo le pagine, la cosa più sorprendente è che mi sono imbattuta nei nomi di filosofi, poeti, scrittori, musicisti che mai avrei pensato di trovare in un libro come questo. Non sempre si tratta di anarchici dichiarati, anzi spesso mi sembra che siano persone che non abbiano niente a che fare con l’anarchia. Non credi di aver forzato la mano, rischiando di strumentalizzare le idee delle persone che citi a vantaggio delle tue idee?
Devo dire che anch’io mi sono posto il problema. Ma in realtà la mia intenzione non era affatto quella di strumentalizzare chicchessia per dare dignità all’idea anarchica. Per me questa idea ha una storia e una geografia ben precisa, ovvero l’Illuminismo europeo. Ma questo è solo l’anarchismo storico, auto-referenziale. Mi è sembrato invece più utile – ed ecco il perché di questi autori anomali – indagare tra i pensieri più eterogenei, al fine di scoprire quelle istanze libertarie che non appartengono né a una parte del mondo né a una precisa epoca storica. Il pensiero anarchico o si nutre di tutte queste influenze e contaminazioni, liberandosi delle pesanti storicizzazioni, o è destinato a finire nella soffitta delle ideologie. A me interessa individuare quanto di vivo e utile c’è dentro questa straordinaria tradizione e metterlo in relazione con il pensiero critico contemporaneo. Solo un’idea aperta può offrire risposte alla vita, al qui e ora, che ci permettano di essere più felici e di adottare soluzioni più efficaci.
Occorre ribadire a questo punto che dentro lo stesso milieu anarchico ci sono state e ci sono tuttora posizioni anche molto diverse. Gli anarchici sono stati e sono individualisti, comunisti, collettivisti, mutualisti, sindacalisti, educazionisti, primitivisti, femministi, movimentisti, post-strutturalisti, esistenzialisti, ecc. (ecco perché ha più senso parlare di anarchismi e non di anarchismo), ma hanno sempre avuto e tuttora hanno una cosa che li accomuna: il rifiuto di ogni forma di dominio in qualsiasi forma si manifesti, sia esplicita che implicita, che combinano con una visione utopica che li spinge verso un orizzonte di pace, libertà e solidarietà.
Tuttavia, come sostiene Colin Ward, anarchico inglese contemporaneo che per me è un punto di riferimento essenziale, l’anarchia è anche una soluzione organizzativa concreta e antiautoritaria ai vari problemi che sorgono nel campo dell’economia, della politica, dell’educazione, dell’abitare, della produzione, del consumo, della distribuzione, ecc., una soluzione che esiste già oggi e che si riproduce spontaneamente. Questo approccio, radicalmente innovativo nelle sue pratiche, è alla portata di tutti, soprattutto di coloro che sentono il bisogno di costruire immediatamente spazi e tempi diversi.
La pluralità dell’anarchismo è comunque un dato di fatto, come si capisce chiaramente analizzando i tanti nomi che vengono citati e che rappresentano appunto sensibilità e approcci diversificati.

Francesco Codello

Due aspetti complementari

Mi sembra infatti che tra gli esponenti storici dell’anarchismo ci siano due nomi che ricorrono più di frequente: Pëtr Kropotkin e E. Armand. Dalla lettura fatta, mi sembra di capire che uno è il padre del comunismo libertario e l’altro quello dell’individualismo anarchico. Ma se è così, come possono convivere in questo tuo approccio?
Prima lasciami sottolineare come uno degli aspetti che più mi ha affascinato dell’idea anarchica sia stato proprio il fatto che non faccia riferimento a un singolo pensatore da cui tutto discende. Questo permette non solo di muoversi con la massima libertà tra una molteplicità di pensatori, riprendendo quelle riflessioni e intuizioni che riteniamo più valide e attuali, ma anche di cogliere in altri mondi culturali aspetti e influenze libertarie. Il che si adatta perfettamente alla mia propensione personale a individuare tracce libertarie nelle culture orientali e antiche, come nei testi del Tao e del buddismo o negli scritti filosofici di cinici, stoici e scettici della Grecia classica, oppure nel senso di autonomia espresso da una parte della cultura e dell’organizzazione sociale del tardo Medioevo, o ancora nella sapienza dei popoli indigeni delle Americhe; insomma, in tutte quelle espressioni culturali, passate, presenti e future, che rivendicano il diritto alla massima libertà per ogni essere umano.
Per rispondere alla tua domanda, il fatto che nel mio lavoro citi più volte quei due autori, così diversi tra loro, risponde alla mia esigenza di bilanciare costantemente due aspetti complementari che stanno tra loro in un equilibrio sempre instabile e mutevole, ovvero il senso di appartenenza a una dimensione collettiva e il bisogno di salvaguardare la libertà personale.

Mi ha un po’ lasciato perplessa che tra le parole chiave che proponi mancano del tutto quelle che rimandano ai temi legati all’ambiente e all’ecologia. Come mai questa scelta? Perché non ritieni importante questi aspetti o magari perché non ci sono stati anarchici che abbiano pensato o scritto attorno a questi temi?
In realtà non ho inserito di proposito nessuna voce specifica su queste tematiche proprio perché, lungi dal sottovalutarle, intendo assegnare loro un posto speciale. Ritengo infatti, come ha efficacemente affermato già nel 1905 il geografo francese Elisée Reclus nella sua opera L’Homme et la Terre, che «l’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa». Ho quindi una visione olistica della specie umana e della natura e sono convinto che gli esseri viventi – tutti – siano inesorabilmente legati tra loro. È dunque dai tempi di Reclus e di Kropotkin, ecologisti ante litteram, che tra gli anarchici quegli aspetti sono lo sfondo sul quale valutare e definire gli altri ambiti delle relazioni umane.
In questa stessa prospettiva, ma misurandosi con la contemporaneità, si colloca anche il lavoro pionieristico di Murray Bookchin, che ha sistematizzato l’approccio libertario all’ecologia nella sua opera L’ecologia della libertà. Bookchin propone un modello di società strutturata su basi sostenibili, antigerarchiche e autogestionarie a partire dalla spontanea predisposizione alla cooperazione esistente in natura. A suo avviso, per comprendere come e quando si sono sviluppati i concetti di gerarchia e di dominio, passo necessario per la loro eliminazione, bisogna ripercorre la storia delle società umane, analizzando l’organizzazione delle prime società caratterizzate dall’assenza di rapporti gerarchici e da un rapporto armonioso con la natura. Queste società, da lui definite organiche, sono state poi soppiantate dalle attuali società gerarchiche, al cui immaginario dobbiamo l’idea, largamente prevalente, di una natura che deve essere addomesticata da un’umanità razionale. Ed è appunto questo immaginario che ha prodotto forme tiranniche di pensiero, scienza e tecnologia, una frammentazione dell’umanità in classi, razze, generi, credi ed etnie, e una filosofia della norma che identifica l’ordine con il predominio e la sottomissione. Per Bookchin non si può risolvere la crisi ecologica attuale se prima non si ricompone il dualismo umanità/natura, senza per questo incorrere nell’errore di annullare l’una nell’altra.

Costruire una società libera

Mi sembra comunque che in tutto il libro ci sia molta più sintonia con i problemi esistenziali umani che con i tradizionali argomenti politici cui fa riferimento l’anarchismo. Pensi davvero che abbia senso avvicinarsi a questa idea trattando temi come l’amore, la depressione o la felicità e tralasciando invece concetti come Stato, rivoluzione, globalizzazione, democrazia, ecc.? In altre parole, l’anarchismo che proponi è una scelta esistenziale prima che una militanza politica?
In effetti, dopo tanti anni di militanza politica, e dopo aver vissuto anche altre esperienze affini, ho sentito la necessità, quasi l’urgenza (anche per le mie scelte professionali di educatore) di liberare il mio anarchismo da cose e argomenti che non mi appassionano più. Ecco perché oggi mi sento più attratto da alcune domande che, a ben vedere, sono le domande di ogni tempo e di ogni luogo. Ecco perché privilegio la rivolta esistenziale alla teoria rivoluzionaria. Oggi la mia attenzione si è concentrata sul fare concreto, sulla vita vissuta, più che su una visione teorica. Mi sento più adatto a condividere il tempo e il lavoro con persone che anche senza dirsi anarchiche esprimono concretamente valori e speranze libertarie. E devo molto, per questa mia convinzione, a quell’anarchismo pragmatico «applicabile» alla vita di tutti i giorni, senza dover attendere un mondo futuro che non so se arriverà. Perché è nel qui e ora che sento il bisogno di rifiutare ogni forma di dominio, il bisogno di realizzare un mondo anche solo un po’ più giusto e felice di quello che ho davanti agli occhi.

Adesso mi è chiara qual è la chiave di lettura che suggerisci. In queste pagine troviamo dunque un po’ di teoria classica, molto approccio pragmatico e soprattutto il «tuo» anarchismo. Dal mio punto di vista, la cosa che mi interessa di più in un libro di questo genere è che alla fine della lettura, piuttosto che trovare facili risposte, io mi ponga soprattutto nuove domande. Non ho bisogno, né tanto meno voglia, di certezze dottrinarie. Anche per me sono i comportamenti concreti, gli stili di vita e le sensibilità individuali che danno valore e sostanza a un’idea, a ogni idea.
Vorrei aggiungere un’ultima considerazione. Tutto ciò che ho scritto in queste pagine ha uno scopo principale, cioè quello di contribuire, per dirla con Colin Ward, ad «accrescere il contenuto di anarchismo nel mondo in cui viviamo». Spero che questo accada, fiducioso come sono che se «si vuole costruire una società libera, gli elementi necessari si trovano già tutti a portata di mano».
Proviamo a coglierli.

Francesco Codello