rivista anarchica
anno 40 n. 350
febbraio 2010


riflessioni

Anarchici. Esserlo, non farlo
di Francesco Codello

A proposito di speranza, sogni e progetto libertario.

La speranza è il nutrimento
del sogno e dell’utopia.

Fin dalla sua interpretazione presso la cultura greca classica però, la parola speranza è portatrice di un significato ambivalente. Nel mito di Prometeo (che disobbedendo a Giove rubò il fuoco agli dèi per consegnarlo agli uomini) questa duplicità di valore si manifesta nelle “cieche speranze” (aspettative sfocate, miopi, buie) che permettono però all’essere umano di sopravvivere. Le speranze sono presso i greci come il “farmaco”, ossia aiuto indispensabile al vivere e al contempo rischio perpetuo di autodistruzione.
Con l’avvento dell’Ebraismo e poi del Cristianesimo la molteplicità veniva sostituita dall’unicità: le speranze vengono decostruite e sostituite dalla Speranza (del regno dei cieli). In questo modo solo la salvezza in Dio è vera speranza ma al contempo anche abdicazione alla molteplicità delle esperienze e delle possibilità. Vi è insita nella tradizione giudaico-cristiana la fine della storia, la rinuncia a priori della ricchezza della diversità e del rischio della libertà. Inoltre la speranza, proprio perché Speranza, diviene qualche cosa che non è dato conoscere se non dopo la morte terrena, quindi è intelligibile.
Sarà il grande drammaturgo William Shakespeare (1564-1623) che nel Macbeth (Atto III, Scena V), attraverso il discorso di Ecate, metterà in risalto come le speranze siano qualche cosa di sofisticato e complesso e come le utopie politiche possano diventare mortifere. La speranza non deve uccidere quella di un altro essere umano. Dunque non una sola speranza o utopia ma il fiorire di diverse alternative nel rispetto della diversità e del punto di vista altrui.

Ruolo essenziale

È molto importante questa sottolineatura del “bardo” perché ha dei risvolti immediati nell’interpretazione e nell’applicazione delle ideologie politiche.
La storia infatti è piena zeppa di “utopie mortifere”, di tentativi, più o meno riusciti, di rendere quella Speranza extra-terrena in società attuale. Ma, come la stessa storia dimostra, proprio nella sua totalizzante unicità costruttiva e costitutiva, questo sogno, già in fieri, diviene la negazione di altri sogni, annulla nella sua pretesa autoritaria, anche la possibilità di pensare e progettare altrimenti.
In altre parole possiamo dire con Shakespeare che solo una molteplicità di speranze è compatibile con una società libera e pluralista, solo la possibilità concreta di sperimentare altri mondi, altre relazioni, altre convivialità, può essere considerata una speranza condivisibile e libertaria.
Nell’Enrico IV (Parte II. Atto I, Scena III) ancora Shakespeare, questa volta sotto le sembianze di Lord Bardolph e del principe Henry, ci fa capire che quando la speranza diviene azione è progetto, peraltro sempre rivedibile e modificabile, e pertanto se non si è capaci di revisione e cambiamento, essa non è altro che una “mal tessuta ambizione”. Insomma nel sostenere l’utopia, nell’alimentare le speranze, nel nutrire i sogni, la sensibilità anarchica ci suggerisce di valutare attentamente questa ambivalenza privilegiandone di volta in volta i tratti diversi secondo questa felice espressione del personaggio del fumetto Martin Mystère: “Credo a ciò che vedo, ma non mi rifiuto di credere a ciò che non vedo… se capite quello che intendo dire” (n. 286).
Le speranze quindi svolgono un ruolo essenziale nell’ordine di un discorso libertario.
Potrebbe esistere una visione anarchica che non contemplasse l’atto di sperare?
Se prendiamo per buone le considerazioni sopra esposte sicuramente la risposta è “no”. Ma ribadisco occorre fare molta attenzione affinché queste considerazioni si trasformino simultaneamente in comportamenti sociali e in atteggiamenti esistenziali.
Un altro aspetto della questione qui sollevata attiene alla funzione della speranza (delle speranze) quando questa (queste) si trasformano in attività onirica che pretende di divenire realtà. Allora se è pur vero che è sempre “cercando l’impossibile che l’uomo ha realizzato il possibile”, è altrettanto vero che noi abbiamo bisogno di costruire “possibili”, mantenendo però sempre aperta la porta all’apertura visionaria che solo “l’impossibile” può garantirci. Insomma ancora una volta l’atteggiamento anarchico non può rinchiudersi dentro una delle categorie delle speranze (possibile e impossibile) ma, come sempre, trovare quell’equilibrio, instabile per definizione, tra dimensioni diverse, facendo prevalere ora l’una ora l’altra a seconda della necessità di non escluderne alcuna.
È pertanto una sfida prima di tutto esistenziale che ci appare in ogni istante, un mettersi sistematicamente in discussione, un camminare sulla sabbia cercando quell’equilibrio instabile che i nostri piedi gioco forza devono trovare, sapendo che dopo un semplice movimento, un altro assestamento è inevitabile e così via.
Essere anarchici e non fare gli anarchici è dunque la sfida principale. Non è facile ma è l’unica garanzia che ci permette di non perderci.

Francesco Codello