rivista anarchica
anno 40 n. 351
marzo 2010


(in)giustizia

Che cos’è un omicidio di Stato?
di Fabrizio Dentini

La lunga serie di omicidi di Stato, nelle carceri e non solo, è stata al centro di una combattiva manifestazione a Livorno lo scorso gennaio. Notevole la partecipazione degli anarchici.

 

Nell’Italia del XXI secolo ci troviamo a fare i conti con pratiche che hanno il loro punto di origine nella costituzione dello stato moderno. La detenzione, associata al silenzio burocratico (alle sue plurime interpretazioni) e all’agire delle forze di polizia, ha dato luogo, nel corso della storia italiana, a numerosi casi di morte di persone sotto la tutela dello Stato e sotto la regolamentazione delle sue leggi.
Può capitare infatti, che un cittadino di questo paese, in funzione delle leggi vigenti, venga sottratto per un lasso di tempo alla sua autonomia e non torni più indietro.
Non torni più a casa dai suoi cari. E il vuoto che lascia risulta molto difficile da riempire in termini di presa di coscienza collettiva. Perché queste morti sono talmente assurde che farle diventare rappresentative di una patologia democratica è un compito che i soli familiari non possono supportare.
Sabato 16 gennaio, a Livorno, si sono date appuntamento le persone sensibili a questo aspetto della vita democratica: un luogo dell’esperienza, che difficilmente sale a destare l’interesse comune. Perché chi incorre in queste dinamiche spesso non ha né voce né il diritto di averla.
È servita una morte esemplare come quella di Stefano Cucchi (la cui violenza e inspiegabilità portano a interrogarsi sul procedere delle nostre vite) per convogliare un’attenzione frammentata e dispersa territorialmente e portarla a dare un segnale concreto. Di indignazione.
Le storie sono tante. Persone comuni. I nostri figli. I vostri figli. Curati per anni e poi spariti senza un perché.
Riccardo Rasman, Stefano Frapporti, Marcello Lonzi, Aldo Bianzino, Alberto Mercuriali, Manuel Eliantonio, Federico Aldrovandi. Questi fra i nomi recentemente più noti. Persone decedute in differenti circostanze ma sotto il medesimo denominatore della violenza poliziesca, dell’indifferenza burocratica e dell’avvallo mediatico. Una notorietà conquistata dalla forza dei familiari, nel non accettare le comode versioni ufficiali e nel pretendere, per la propria dignità, luce e chiarezza su questi decessi.
Può succedere a qualsiasi persona che si trovi ad essere terminale dell’uso legittimo della violenza nel nostro stato democratico.
Le testimonianze orali si sprecano, ma la dimensione del dibattito pubblico rimane inficiata dalla retorica ufficiale, che considerando cinicamente queste morti come incidenti di percorso, non ne sviluppa le cause effettive, ma ne contestualizza la dimensione specifica in ambiti ambigui e generici quali la lotta al crimine. Lotta, che garantisce certo consensi bipartisan, ma che lascia inalterato il silenzio sulle cause di un’agire spesso sproporzionalmente violento. Il contrasto dell’illegalità secondo canoni meta legali. Succede infatti che chi esegue la legge resti frequentemente e si consideri spesso, immune alle sue prescrizioni. Un risultato cercato, anche solo per la foga ricorrente di dover presentare statistiche positive, può essere raggiunto a costo di calpestare i diritti e le garanzie di chi si trova di fronte.
In fondo non siamo mica in America. E per consuetudine, non certo per legge, chi lavora nel campo dell’applicazione della norma, non se ne può distaccare illegittimamente, perché la violenza statale è sempre legittima, il margine di necessità, finalizzato alla propria missione, basta a giustificare ogni operato condotto.

Livorno, 9 gennaio. Manifestazione contro gli omicidi di Stato

Le storie informali sono parecchie. I frammenti riportati di seguito sono solo un’anonima ed emblematica rappresentazione della normalità.
Celle di sicurezza, tutto buio, isolamento due metri per quattro, psicofarmaci, ansie che perdurano nel tempo. Lo spaccio di fumo è stata la causa di questa reazione. Un anno e tre mesi di intercettazione e poi la retata. Questa è finita bene, il ragazzo sputava solo sangue, inginocchiato, dopo le botte nella schiena con un budello pieno di sabbia, che le macchie spuntano dopo una settimana. Questa volta è finita bene. Nessuno ci ha rimesso il collo.
Altre volte invece le cose vanno meno bene. Anche agli esecutori della legge può scappare di mano la situazione e i risultati prodotti, quando troppo imbarazzanti per essere ammessi, si coprono, si nascondono e si tacciono con grande accondiscendenza delle istituzioni statali.
Queste sono le condizioni in cui si opera quotidianamente l’esercizio democratico della legittima violenza statale nei riguardi dei cittadini italiani. E i familiari che chiedono verità sono diffamati, screditati, umiliati, dalle istituzioni stesse, che permettono la dissuasione dalla ricerca del vero attraverso intimidazioni, calunnie ed ingiurie. La versione ufficiale deve essere accettata, non si prevede il dolore di una madre o la fermezza di un padre che vuole sapere.
L’omicidio di Stato infatti si riconosce non solo dalla concreta dinamica che ha condotto alla morte, ma ancora di più, da tutti gli atteggiamenti che si sviluppano, in seno ad apparati dello stato, per dissimulare, impedire, insabbiare ogni atto teso a rivelare le più scomode circostanze.
Se sei straniero poi, la situazione peggiora esponenzialmente. Si rischia di contare quanto vale in questo momento in Italia un clandestino e di vedere i carcerieri approfittarsi del loro ruolo e prendersi delle libertà che i diritti civili non consentirebbero. Ovviamente non è sempre così. Ma è buona norma accettare anche questa possibilità.
I diritti di una persona infatti, in queste situazioni di confine normativo, quando la vita di un uomo è totalmente dipendente dai suoi custodi, si declinano in base al suo passato, alla sua fedina penale, al clima politico e alla serie di garanzie che la legge riserva o preclude per l’individuo in questione. Essere clandestino significa godere di uno svantaggio legale e di essere percepito come un surplus, la cui eccedenza non deve essere regolata alla pari con gli altri cittadini, ma declinata in base al principio dell’esclusione.
Rieccoci al corteo di Livorno. Una ragazza del comitato antirazzista milanese scoppia in lacrime per la telefonata che da Milano le annuncia la morte di Mohamed El Abbouby. Mohamed aveva preso parte alla rivolta nel Centro di identificazione di Via Corelli a Milano lo scorso agosto. Dal Cie è passato al carcere ma quando gli hanno comunicato che sarebbe tornato in Via Corelli si è tolto la vita.
Di seguito la sua ultima missiva e la lettera di un suo conoscente che inquadra il contesto che ha fatto maturare questa decisione.

1) Carissimi
Oggi stesso ho ricevuto la lettera e i fogli di giornale, mi ha fatto moltissimo piacere, così almeno riesco ad essere aggiornato sui fatti attuali. Vi ringrazio di aver reso di pubblico dominio il mio caso.
Anche se mi sento fisicamente depresso sto bene. Come voi lotterò per la giusta causa fino al mio ultimo respiro, contro gli sfruttatori di noi proletari. Prima o poi la verità verrà a galla. Non possiamo che vincere, sapendo che il prezzo sarà salato. Ma ne vale tutto il sacrificio.
Che dire di questo governo razzista, senza idee per la gioventù, che, secondo logica, è il futuro di ogni nazione. Senza giovani lavoratori non si possono incassare le tasse, e senza tasse addio pensioni. Comunque nella mia prossima missiva sarò molto più esplicito e dettagliato a proposito del mio passato e della mia persona. Buone feste a tutti i ragazzi, auguri

Mohamed El Abbouby

la lettera di cui parla Mohamed non è mai arrivata.

2) Lettera di Kalem Fatah da S.Vito sulla morte di Mohamed:

Milano 15/01/ 2010

Ciao carissimi amici/amiche
Vi scrivo questa mia brutta e triste lettera per mettervi al corrente che oggi uno dei nostri (Elabbouby Moahamed) è venuto a mancare, si è suicidato con il gas dopo avere saputo che sarebbe finito al centro di accoglienza nuovamente dopo la scarcerazione, e questo l’ha spinto a farla finita.

Lui avrebbe finito la carcerazione il 12/02/10. Questo ci turba molto noi che abbiamo il suo stesso problema e a dire la verità pensiamo tutti come lui. Speriamo che le nostre vite serviranno a cambiare le cose con questo governo fascista.

Un abbraccio a tutti voi dai vostri amici ribelli di Corelli

Le lotte di questi stranieri, da Rosarno a via Corelli, sono le lotte alle quali gli italiani hanno rinunciato da tempo. Lotta per una vita migliore. Per avere la possibilità di vivere del proprio lavoro senza dover essere schiavo del primo imprenditore senza scrupoli. Lotte che possono far capire che chi sta lottando senza alcun diritto dovrebbe essere supportato da chi i diritti gli ha, ma non ne usufruisce.
Sino a che un bel giorno ci si renderà conto che senza far valere attivamente le nostre tutele democratiche, il codice diventa solo un orpello che fa sempre il gioco di chi tiene il mazzo.

Fabrizio Dentini