rivista anarchica
anno 40 n. 351
marzo 2010


anarchia

Scrittori e anarchia

di Pino Cacucci, Valerio Evangelisti e Carlo Oliva

È uscito in libreria un libretto che raccoglie gli scritti di una dozzina di scrittori, che parlano del loro rapporto con le idee e le persone dell’anarchia.
Ne riportiamo in queste pagine la prefazione di Carlo Oliva e gli scritti di Pino Cacucci e Valerio Evangelisti.

 

1. Prefazione
di Carlo Oliva

Dirsi anarchici, oggi, è la cosa più facile del mondo. Non, naturalmente, nel senso tradizionale del sovversivo, del nemico giurato dell’ordine pubblico, del vendicatore armato dei delitti di chi sta al potere: quell’accezione, ormai, non la usano più neanche le questure, salvo che in casi di necessità estrema, quando non sanno proprio che altri pesci pigliare, e con l’aggiunta, precauzionale e fastidiosamente pleonastica, dell’aggettivo “insurrezionalista”. Ma anarchico nel senso di chi si sottrae alla logica dei poveri cristi qualsiasi, di chi è capace di pensare con la propria testa e di prendere le sue decisioni senza badare ai pregiudizi correnti, anarchico come simpaticamente ribelle... beh, chi rifiuterebbe una simile definizione? Persino Berlusconi, che ribelle certo non è (e simpatico nemmeno), ha avuto modo, tempo fa, di affermare che il suo partito era anarchico e nel suo governo esiste tuttora una componente anarchica, anzi, “gioiosamente” anarchica. Era una contraddizione, naturalmente, un paradosso buttato lì per giustificare il fatto che c’erano dei ministri che sostenevano più o meno il contrario di quanto affermavano gli altri, ma nessuno ha trovato niente da eccepire. E tutti hanno avuto occasione, in vita loro, di ascoltare una quantità di brutti arnesi, prepotenti, vanesi ed egoriferiti di ogni risma, proclamarsi tranquillamente anarchici, nel senso di chi intende fare sempre e soltanto ciò che gli garba e gli altri non si azzardino a criticarlo se no guai. Ne parla anche uno degli autori degli scritti che compongono questo singolare volume, uno che proprio in base a considerazioni del genere – dice – a proclamarsi anarchico non ce l’ha più fatta, anche se poi recupera, dalla storia della pubblicistica libertaria, la rara variante “refrattario”. Perché il dubbio è lecito: se l’anarchismo è, per sua natura, individualista, “anarchico” non dovrebbe essere la definizione più esatta di chi mette il proprio interesse individuale sopra ogni altra cosa e poco o niente si cura delle necessità altrui?
Il problema, naturalmente, è molto più aggrovigliato. L’individualismo anarchico, come sappiamo, è tutto il contrario dell’egoismo autoreferenziale e la dialettica che comporta tra il rifiuto delle regole imposte e la necessità di dotarsi comunque di un sistema di regole liberamente assunte crea una tensione che non a tutti è dato sostenere, soprattutto nella dimensione minoritaria di un movimento che, non se ne offenda nessuno, sembra talvolta ridotto a una dimensione residuale. È un genere di tensione che insorge sempre quando si mette a confronto l’utopismo degli ideali con gli inevitabili compromessi della militanza quotidiana e non è ignoto, in quanto tale, ad altre esperienze rivoluzionarie, ma gli anarchici non credono, ahimè, nello spirito oggettivo, in una superiore dimensione storica che riassorba in sé le contraddizioni individuali, e della contraddizione devono farsi carico di persona, con se stessi, con i propri compagni, con la società in cui agiscono.
Da ciò deriva, probabilmente, quel tanto di disperato, di irragionevole, che a volte sembra caratterizzare il loro volontarismo. Ma questa è anche l’origine del fascino che la loro frequentazione sa suscitare in chi non è proprio negato alla ragione e alla speranza.
Così, nelle pagine che seguono, i rapporti, più o meno occasionali, che i nostri scrittori hanno intrattenuto con l’anarchismo sono spesso rivissuti in termine di fascinazione. Sono, i loro, ricordi di esperienze giovanili o di incontri con personaggi caratteristici, soffusi, il più delle volte, di quella fortissima impronta bohèmienne che a tali incontri ed esperienze evidentemente si addice. Non si tratta, tuttavia, di una bohème esclusivamente sentimentale e giovanile, di una esperienza un po’ ingenua, ormai superata e da custodire, con un sorriso di rimpianto e una scossa del capo di compatimento, nello scrigno dei propri ricordi. È chiaro che dall’incontro con l’anarchia i nostri scrittori sono stati tutti, chi in un modo chi nell’altro, segnati, anche quello che anarchico proprio non riesce a dirsi.
Che poi gli esiti, caso per caso, siano diversi che più non si può, è solo inevitabile. Suppongo che Erich Mühsam (1), uno che quanto a bohème non era secondo a nessuno, nel paragonare la rivoluzione (anarchica, ça va sans dire) a una suora che si spoglia, volesse sottolineare la contraddittorietà e l’eccezionalità del concetto, ma è anche vero che, alla fine della giornata, al momento di andarsene a letto – doverosamente da sole – anche le suore devono spogliarsi e ci sono tanti modi di spogliarsi quanti ordini monacali affollano i conventi, per cui è logico che i risultati non siano sempre sovrapponibili. A ciascuno, in definitiva, tocca la rivoluzione che si merita.

Carlo Oliva

1. Il titolo di questo libro è tratto da un testo di Erich Mühsam (Berlino 1878-Oranienburg 1934).

 

2. Io e gli anarchici
di Pino Cacucci

Mio nonno materno, appena tornato dalla bassa macelleria della Grande Guerra, si mise a frequentare gli anarchici, e intanto arava la terra con una coppia di buoi. Era in sintonia, condivideva gli ideali e diffidava delle ideologie, ma poi decise che i comunisti gli sembravano più concreti: l’utopia lo attirava ma sperava in una bella dittatura del proletariato, più per spirito di rivalsa che per coscienza di cosa realmente fosse. Anche quando la dittatura arrivò, quella fascista, rimase comunista pur continuando a intendersela benissimo con i libertari della sua terra; infine, con l’invasione dell’Ungheria, stracciò l’ennesima tessera del pci e si tenne in disparte.
Io, invece, ho rotto la tradizione di due generazioni di comunisti sentendomi anarchico fin dall’età della sragione. A Chiavari, prima ancora di diventare anagraficamente maggiorenne, frequentavo un’osteria dal soprannome curioso, “U sucidu”, per via del puzzo di vino rancido, il fumo, i tavoli con un dito di grasso sopra... beh, un po’ sudicio sì, ma era un bel posto. Lì ci andava spesso Roberto Leimer, e intorno a lui ci radunavamo in vari ragazzi, attratti un po’ dal suo eloquio impastato, un po’ dall’aria bohèmien, e molto dalla sua generosa capacità di invettive libertarie pacate ma incrollabili. Avremmo fondato insieme il Durruti del Tigullio, affittando una sorta di ripostiglio di fianco a un fornaio, che non serviva neppure come garage, dove il problema principale era il puntuale rigurgito di liquami fognari ogni volta che pioveva. Forse era per questo che durante le frequenti riunioni avevamo tutti la faccia schifata: non era disprezzo per la società borghese, ma semplice puzza di cacca. Un giorno presi la situazione in pugno: comprai un sacco di cemento e tappai il tombino interno. Il giorno dopo, venne giù una povera signora dicendo che la casa era allagata di merda. Tappi da una parte, sfoga dall’altra.
Insomma, avevamo più problemi con le fognature che con la polizia. Che però prendeva nota, e senza che lo sapessi, passava a Genova i rapporti, dove sicuramente si leggeva: «Addì, il soggetto attacchinava nottetempo manifestini anarchici in spazi non consentiti... ».
Lo avrei scoperto tanti anni più tardi, quando andando a rinnovare il passaporto a Bologna, dopo un mese di attesa, l’agente preposto, sbuffando, mi disse: «Stiamo ancora aspettando il nullaosta da Genova, sa, lei è schedato là... ». Dovetti andare ai piani superiori, per riavere il passaporto, dove sostenni un dialogo dell’assurdo con una simpatica poliziotta, che esordì: – Vede, io so tante cose degli autonomi, dei lottacontinui, dei potereoperaisti, dei maoisti-linea-dura-filoalbanese... ma mi dica, mi tolga questa curiosità: voi anarchici, che diamine volete?
Risposi serafico: – La pace nel mondo.
Sbottò allargando le braccia: – Eh, già, come no, pure io la vorrei, ma mi faccia il piacere, mi faccia.
E mi ridiede il passaporto rinnovato.
Dopo quei tempi squinternati del gruppo anarchico del Tigullio (che per chi non lo sapesse non è il nome di un rivoluzionario paraguayano ma del golfo su cui si affaccia anche Chiavari), venne il tempo di migrare... L’università a Bologna era un buon pretesto per andare a vivere da solo, con un gruppetto di sciamannati come me. Prima andai a Genova a salutare i compagni di là: Giuseppe Pasticcio, figura storica dell’anarchismo genovese, mi scrisse una commovente lettera di “presentazione” per i compagni dei circoli bolognesi: la conservo ancora, inizia con la frase «potete avere fiducia nel nostro compagno Cacucci»... E sulla sua firma tremula, un bel timbro con la A cerchiata dalla scritta «Circolo studi sociali Pietro Gori». Erano tempi così, da candore carbonaro.
Quando la feci vedere al Cassero di Porta Santo Stefano, ricordo lo sguardo tra il divertito e lo stupito degli “anziani”, che sembravano voler dire: «da quando in qua ci vuole la lettera di raccomandazione per dichiararsi anarchici?». Allora c’erano Libero Fantazzini e la sua compagna Maria, presenze costanti di ogni assemblea, riunione, manifestazione, tutto. Instancabili, anche a ottant’anni suonati. Libero non ci vedeva granché, anzi un occhio non ce l’aveva proprio, eppure guidava la sua Simca impavidamente. Una sera arrivò tardi, e non era da lui: aveva scambiato una luce rossa di un cantiere di lavori in corso per un semaforo, e dopo essere rimasto fermo un quarto d’ora e forse più, Maria lo aveva esortato a ingranare la marcia. Libero non parlava volentieri del figlio Horst, che stava in galera per quasi l’intera vita senza aver mai sparato a nessuno, il rapinatore gentile che mandava fiori alle cassiere spaventate, ora c’è pure un film, Ormai è fatta, tratto dal suo libro di memorie, con Stefano Accorsi a interpretare lui, e l’ottima regia di Enzo Monteleone. Curiosa, la vita: Monteleone lo avrei conosciuto quando scriveva la sceneggiatura di Puerto Escondido. Horst invece lo avrei conosciuto poco prima che tornasse in cella, a morirci.
Libero voleva un gran bene a quel suo figlio ribelle, troppo ribelle persino per lui, che era di quegli anarchici per i quali l’onestà dev’essere di esempio al resto del mondo, compresa l’onestà “borghese”. Ma non ne parlava quasi mai, a noi giovanotti che scrivevamo a Horst in carcere e lo consideravamo un compagno anarchico a tutti gli effetti.
Tornando ai tempi liguri, Fabrizio De André era una presenza fissa nelle orecchie come nel cuore e pure nelle viscere, e come poteva essere altrimenti, poi, quando viveva in Sardegna, nella grande casa colonica nei pressi di Tempio Pausania, a qualche anno di distanza dalla brutta esperienza del sequestro, gli telefonai per chiedergli l’ennesima firma in un appello per chissà quale ennesima ingiustizia. Fabrizio non si faceva pregare neppure per fare concerti in sostegno della stampa anarchica, e ovviamente mi disse che firmava, anzi, mi invitò ad andarlo a trovare. E me lo avrebbe ripetuto altre volte, ma per i casi della vita, è finita che all’Agnata ci sono andato solo dopo che lui non c’era più. E questo mi rimane come rimpianto.
L’altro giorno ho ricevuto un piccolo libro. Confusione caos casino, di Roberto Leimer. Contiene l’essenza della sua vita portata all’eccesso, ma sempre con delicata gentilezza: persino nei momenti autodistruttivi, Roberto era così. E nell’ultima pagina... dubito che chi lo ha editato lo sappia, ma quella copertina de l’Antistato, ciclostilato del Durruti del Tigullio, l’ho disegnata io, e pure scritta come si vede riprodotta. Allora mi firmavo sas, come si vede in un angolino del disegno, e stava per “Sovversivo Altamente Sensibile”, una scemenza autoironica di gioventù.
Chissà dove diamine sia stata conservata e da chi, per tutto questo tempo.
Tempo che intanto ha confermato le mie convinzioni. Non ho certezze ma solo dubbi, pertanto, sono anarchico.

Pino Cacucci

Pino Cacucci è nato nel 1955 ad Alessandria, cresciuto a Chiavari (Ge) e trasferitosi a Bologna nel 1975. Ha pubblicato finora numerosi libri di narrativa e saggistica, tra cui La polvere del Messico (Mondadori, 1992, Feltrinelli 1996 e 2004), In ogni caso nessun rimorso (Longanesi, 1994, poi tea, 1996, poi Feltrinelli, 2001), Ribelli! (Feltrinelli, 2001), Oltretorrente (Feltrinelli, 2003), Un po’ per amore e un po’ per rabbia (Feltrinelli, 2008), Le balene lo sanno (Feltrinelli, 2009). È inoltre autore di soggetti e sceneggiatore dei film di Puerto Escondido (Gabriele Salvatores, 1992), Viva San Isidro! (Alessandro Cappelletti, 1995), Nirvana (Gabriele Salvatores, 1997).

 

2. Un anarchico in municipio
in ricordo di Gianni Donati
di Valerio Evangelisti

Nel 1968, dopo avere letto il libro L’anarchia di George Woodcock, fondai nel mio liceo, assieme a due compagni di scuola, il circolo anarchico Bandiera nera. Per metà si trattò di uno scherzo, per metà no. Distribuimmo un volantino in cinque copie, realizzate con la carta carbone, appendemmo una bandiera nera con la A cerchiata a una finestra della scuola, componemmo persino un inno. Ne ricordo un verso solo: «Un vessillo rosso e nero / Pianterem sul mondo intero / Privilegi, tirannia / Faran posto all’anarchia».
La faccenda durò circa un mese, e fu la mia sola esperienza di militanza anarchica, totalmente autoinventata. Prima, fra i 14 e i 15 anni, avevo simpatizzato per il psiup, Partito socialista italiano di unità proletaria (allora non sapevo che fosse finanziato da Mosca); in seguito avrei militato in formazioni di ispirazione marxista, ma grosso modo “libertarie”, da Lotta continua all’Autonomia. Continuai però a leggere «Umanità nova» e «Volontà», e a tenermi alla larga dal comunismo ortodosso. Forse pesava su di me l’eredità di un nonno materno imolese, mai conosciuto, con un fiocco nero al collo (in realtà, pur professandosi anarchico, era un seguace di Andrea Costa); oppure i germi sparsi da Woodcock continuarono a produrre i loro effetti.
Non lo so. Sta di fatto che, come era naturale tra i militanti della sinistra anti-istituzionale, continuai a frequentare anarchici senza badare alle differenze ideologiche. Con uno di questi coltivai un’amicizia difficile ma prolungata, che culminò nell’episodio curioso che voglio raccontare.
Si chiamava Gianni Donati, bolognese. Quando lo conobbi, nel 1973-74, aveva una sessantina d’anni. Era ai limiti dell’alcolismo, e quando aveva bevuto troppo diventava insopportabile, violentissimo (non con me), fastidioso. Girava sempre con un cane nero. Io lo incontravo quasi tutti i pomeriggi in una birreria del centro di Bologna in cui teneva corte, circondato dagli amici più disparati, in genere ottima gente, a volte molto equivoci. Quando non aveva bevuto troppo, in effetti, Donati si mostrava persona intelligente e spiritosa, dotata persino di un pizzico di cultura generale. Venivano a trovarlo libertari tutti d’un pezzo, come Mario Barbani (allievo diretto di Armando Borghi) o Gino Fabbri. Ricordo con molto piacere l’allora giovanissimo Roberto Mander, reduce da una sequela impressionante di traversie giudiziarie (come tutti coloro che furono nel mirino del commissario Calabresi, oggi in via di santificazione), oppure il più vecchio e il più giovane dei Fantazzini, e tanti altri. Quella birreria (“Lamma”, si chiamava allora) era insomma un crocevia dell’anarchismo, in cui le varie anime del movimento libertario si trovavano a bere con Gianni Donati – il quale, peraltro, beveva più di tutti. L’affiliazione grosso modo marxista mia e di altri era ampiamente tollerata, tra molti brindisi, a parte ricorrenti frecciate. Il premio erano serate divertenti, animate e condite da visite illustri (venne accolto come una specie di papa laico Alfredo Maria Bonanno, grande fautore dell’azione diretta). Il pegno era assistere alle sfuriate di Donati quando aveva ecceduto in alcolici. Di solito se la prendeva con alcuni anziani frequentatori del locale, da lui ritenuti in toto “fascisti” (e magari lo erano, ma di sicuro non dei più pericolosi). Altre volte aveva reazioni incontrollate: morse il suo stesso cane, buono come pochi, e, una sera, sparò vari colpi di pistola, dalla finestra di casa sua, contro la moglie Rina, senza peraltro avere l’intenzione di colpirla sul serio. Donati era fatto così. Però ripeto, da sobrio, era un uomo dotato di arguzia e dignità.

L’amicizia notoria che ci legava ebbe un curioso risvolto elettorale. Finivano gli anni Settanta e iniziavano gli anni Ottanta. L’estrema sinistra bolognese, su impulso di Diego Benecchi (ex dirigente di Lotta continua ed ex leader del ’77), formò una propria lista per le elezioni amministrative a Bologna, denominata Lista del sole. Si trattava di candidare un numero sufficiente di personalità, a supporto degli unici due candidati effettivamente eleggibili: lo stesso Benecchi e un medico di nome Bacci, estremamente popolare per i certificati di malattia che elargiva. Contattato da Benecchi proposi non me stesso, bensì Donati. Ci avrei pensato io a convincerlo. D’altra parte, si trattava di inserire semplicemente in lista un nome qualsiasi, per raggiungere il numero prescritto.
Persuadere l’anarchico Donati non fu troppo difficile. Nella nostra birreria discutemmo degli anarchici che, durante la rivoluzione spagnola, avevano accettato cariche istituzionali. Abbozzammo un programma, che prevedeva una damigiana di vino al giorno per tutti i consiglieri comunali, e altre misure deliranti. Ci accomunava il fatto che la cosa ci divertiva. Donati non credeva nelle elezioni in assoluto, io non credevo nella Lista del sole. Alla fine lo accompagnai da un notaio (un ex maoista di Servire il popolo) a registrarsi come candidato.
In teoria, la funzione di Donati avrebbe dovuto concludersi lì. Il suo nome era in realtà un numero – uno degli ultimi – buono a sorreggere i capilista. Benecchi ci diede pacchi di volantini da distribuire nel quartiere in cui Donati abitava, la Dozza, con l’indicazione di votare chi figurava in testa, cioè Benecchi stesso. Oltre a manifesti vari per la Lista del sole.
Per una notte intera io e l’anarchico fummo impegnati a cancellare dai volantini il nome «Diego Benecchi» per sostituirlo con «Gianni Donati». Li distribuimmo ovunque, nel quartiere. Poi facemmo stampare, presso una tipografia nata da una costola di Lotta continua, centinaia di manifesti recanti a grandi lettere la scritta: «Un anarchico in municipio. Gianni Donati!». A lato il simbolo della Lista del sole, e sotto slogan che non ricordo. Passai diverse notti ad affiggere quei poster, a volte piegato in due dal ridere.
Quando rividi Diego Benecchi, mi rimproverò non tanto i manifesti, quanto i volantini corretti. Allargai le braccia. «Sai, questi anarchici... imprevedibili».
E Gianni Donati imprevedibile lo era davvero, tanto che poco dopo morì di cancro. Penso di essere stato tra gli ultimi a visitarlo. Corpo rinsecchito, testa ridotta ad un teschio. La sua mano, tra le mie, tremava. Però gli occhi ridevano o minacciavano ancora, a seconda di ciò che udiva. Aveva sempre oscillato tra euforia e collera. Gli anarchici sono così, anche quando muoiono.
L’avventura elettorale di Donati finì con soli otto voti. Sua moglie Rina rifiutò di votarlo, io mi astenni. Bacci arrivò primo fra i non eletti, Benecchi secondo. In seguito ha fatto un suo sfortunato percorso istituzionale. Un’oscura provvidenza punisce chi rinnega il proprio passato.
Invece l’insopportabile Donati, l’“anarchico in municipio”, l’ubriacone, il violento, il maestro di sarcasmo, tra luci e ombre rimase fedele a ciò che era sempre stato: un libertario. Da uno che non l’ha mai pensata del tutto come lui, tanto di cappello. Mi manca ancora.

Valerio Evangelisti

Valerio Evangelisti (Bologna, 1952), storico di formazione, è noto soprattutto per la saga dell’inquisitore Eymerich, pubblicata da Mondadori e giunta al nono volume. È anche autore di romanzi fantastici e storici, alcuni dei quali dedicati al movimento operaio negli Stati Uniti e in Messico (Antracite, Noi saremo tutto, Il collare di fuoco, Il collare spezzato, tutti pubblicati da Mondadori). Il suo ultimo romanzo è Tortuga (Mondadori, 2008). Ha scritto numerosi saggi politico-letterari, e dirige la popolare testata on line Carmilla (www.carmillaonline.com) su “Immaginario e cultura di opposizione”.