rivista anarchica
anno 40 n. 351
marzo 2010


1969

L’anno dei giovani

di Diego Giachetti

41 anni dopo il 1969. Ricordando Mirafiori e Nada, quei vestiti e Patty Pravo, Antoine e i bassitaglia.

 

Ad alimentare le lotte operaie che percorsero i paesi industrializzati del mondo nel periodo 1968-1972 concorsero sia le condizioni di lavoro e di sfruttamento subite in fabbrica e sia motivazioni ed esigenze che provenivano dal mutamento sociale e culturale della società.

Nuovi contenuti della lotta di classe

Nuove abitudini e modi di pensare erano comparsi in strati sociali delle classi subalterne, spesso in contrasto con quelli formati da lavoratori adulti di un’altra generazione. I giovani lavoratori e le giovani lavoratrici, segnati dalle caratteristiche di generazione e di genere, furono le categorie sociali che proposero e portarono nella lotta di classe atteggiamenti, comportamenti, rivendicazioni e proposte diverse da quelle “storiche” del movimento operaio. Quando entrarono nelle fabbriche incontrarono una situazione produttiva profondamente trasformata. Una parte consistente delle nuove leve operaie finì alla catena di montaggio che, in quei decenni, segnò una trasformazione del processo produttivo, che portò alla riduzione del ruolo e del numero di operai professionali a scapito di quello cosiddetti comuni e dequalificati. Messi di fronte a questo nuovo modo di lavorare, parcellizzato in poche e ripetitive operazioni manuali, eternamente ripetibili e eguali, i giovani maturarono un atteggiamento critico verso il lavoro e la fabbrica, scontrandosi con la mentalità da “costruttori” e “produttori”, tipica dei loro genitori operai. Quel modo di lavorare a loro non poteva piacere, non arrecava alcuna soddisfazione, non stimolava la loro intelligenza e il loro saper fare, non potevano quindi identificarsi con esso né volevano rassegnarsi al pensiero che quella sarebbe stata la loro vita per tutta la vita.
A rendere ancora più sofferta questa condizione lavorativa concorreva la sirena del consumismo che prometteva beni di largo consumo per tutti e valorizzava il tempo libero come luogo del piacere, del divertimento, spazio ambito di vera realizzazione di sé. Nell’immediato queste due lusinghe cozzarono contro tre impedimenti: i bassi salari, l’orario di lavoro troppo lungo, la pochezza dei giorni di ferie che scatenarono poi lotte, anche dure, per ottenere, “tutto e subito”, come si diceva e si scriveva sui cartelli, e cioè, secondo un sintetico slogan dell’epoca: “più salario, meno orario”.
La battaglia per avere più tempo libero e il modo di usarlo spaccò le generazioni operaie. Per i giovani il tempo libero divenne luogo di vacanza, di consumo, di spesa di denaro, per i lavoratori della generazione precedente il tempo libero era considerato tempo di riposo, quando non veniva occupato con altri lavori.
Sempre più tra i lavoratori e nelle fabbriche divenne quasi impossibile distinguere nettamente tra la lotta di classe e conflitto fra le generazioni. I giovani lavoratori erano più simili ai loro coetanei che non ai membri anziani della classe operaia. Ugualmente il giovane rampollo della classe borghese era più in sintonia con la sua generazione che con gli altri appartenenti alla classe dominante. Effettivamente, come è stato detto, quella lotta di classe si inseriva a pieno titolo nella lotta contro i “cinque P”: il padre, il padrone, il professore, il prete e il partito. Il conflitto generazionale si affiancò e si intersecò col conflitto di classe per ottenere più salario e più tempo libero da dedicare al soddisfacimento dei propri desideri, per appagare il proprio piacere: viaggiare, divertirsi, avere più spazio per coltivare una vita di relazioni più intensa e fitta, poter frequentare bar, cinema, luoghi di ritrovo, sedi di gruppi dell’estrema sinistra.

Il ’69 italiano

Furono gli operai comuni, in genere di origine contadina e meridionale, di relativa o recente immigrazione, prevalentemente giovani, che connotarono quel ciclo di protesta caratterizzato da una scarsa disciplina sindacale, dall’insofferenza per il lavoro, per le regole del conflitto negoziale tra sindacato e padroni, per l’ostilità e la ribellione verso la gerarchia aziendale, per le forme di lotta nuove usate. In quelle lotte i giovani operai si scrollarono “di dosso il paternalismo dei vecchi” e introdussero un nuovo modo di vedere e di fare.
Similmente alle università, anche il luogo di lavoro venne trasformato in uno spazio pubblico liberato in parte dai tempi stretti del ritmo lavorativo, dove socializzare e fare amicizia. La conflittualità generazionale si mescolò con quella prodotta dell’immigrazione meridionale nelle città industriali e si scontrò con lavori, mansioni, ambienti lavorativi dequalificati e degradati dall’introduzione della catena di montaggio e della grande produzione in serie. Sorse una coscienza rivendicativa egualitaria (aumenti uguali per tutti, abolizione delle categorie), una richiesta di governo dal basso delle decisioni e delle scelte (l’assemblea di reparto, i delegati per gruppi omogenei o, più radicalmente ancora, il rifiuto della delega), un rifiuto del lavoro monotono, ripetitivo, privo di significato e di senso e, conseguentemente, una scarsissima identificazione con l’azienda, col processo produttivo in sé, con la tecnica e l’industria, quali elementi di progresso umano e civile, che era tipico invece dell’operaio di mestiere, qualificato, produttore, prevalentemente, più avanti degli altri con l’età, residente nella città dove lavorava da più generazioni, sindacalizzato e, magari, militante socialista o comunista che conservava ancora memoria ed esperienza della Resistenza e della repressione subita nelle fabbriche nell’immediato secondo dopoguerra.
Essere giovani, vestire in un certo modo, ascoltare una certa musica, sentirsi parte per questo di un universo più grande di quello rappresentato dal mondo del lavoro e delle fabbrica, era un forte elemento di identificazione tra i giovani operai, capace di attenuare o superare le differenze regionali e dialettali, di provenienza familiare e di status.
Giovani erano gli operai più disposti ad esporsi nella lotta in fabbrica, meno impauriti dalla repressione aziendale, meno intimoriti dal padrone. Quando l’incontro operai e studenti partorì ad esempio a Torino la manifestazione del 3 luglio del 1969, culminata negli scontri di Corso Traiano, un giornalista descrisse i partecipanti al corteo come «l’esercito degli irregolari delle lotte alla Fiat», insieme ai giovani del movimento studentesco torinese c’erano operai, in buona parte ragazzi meridionali immigrati da poco a Torino, quelli che erano designati col soprannome di “napoli”, “bassitaglia”, “terroni”. E in pieno autunno caldo così erano descritti i nuovi protagonisti di quella lotta operaia: «Pugliesi, calabresi, irpini, lucani, non sono specializzati. Vengono dai paesi dell’abbandono, dai lager del sottoproletariato urbano; li hanno messi alle linee di montaggio dove sono avvenuti gli incidenti più gravi, gli episodi di violenza e di sabotaggio. Sono giovani approdati nelle plaghe del Nord, robusti, intatti, non possiedono qualifica, li hanno messi alle linee a montare per otto ore di fila i pezzi […] Sono crollati non solo per via dei ritmi insostenibili, delle multe, della disciplina da caserma, ma perché fuori dalla fabbrica si sono sentiti respinti da una città tetra che in cambio degli istituti associativi tradizionali (la piazza del paese, l’osteria) non gli offriva nulla se non le otto ore di lavoro e le otto ore di sonno nella branda» (M. Monicelli, L’ora delle buste leggere, «L’Espresso», 9 novembre 1969).

Antoine

Questione meridionale nelle città del Nord

Erano giovani ed erano meridionali quelli che andavano esplorando le città del Nord dove erano appena giunti col treno. La scoperta e la presa di possesso della città si mescolava al senso di solitudine e di angoscia determinato dall’impersonalità della vita tipica di una grande metropoli: «Tutta mia la città/ un deserto che conosco/ tutta mia la città/ questa notte un uomo piangerà» (Equipe 84, Tutta mia la città, di Mogol, Wood, 1969).
Molti di loro avevano lasciato la luce e il sole del Meridione alle spalle e si erano trovati a vivere nel freddo, nella nebbia e nel colore grigio industriale delle città settentrionali. Il freddo che faceva in città era un tema ricorrente in alcune canzonette scritte e cantate nel 1969, in quel fatidico anno periodizzante, di ripresa decisa delle lotte operaie nei grossi centri industriali e cittadini. «Non senti il freddo che fa/ in questa città», cantava Antoine in Ma cosa hai messo nel caffè, scritta da Bigazzi e Del Turco, al festival di Sanremo di quell’anno. E Nada di rincalzo: «D’inverno il sole stanco/ a letto presto se ne va/ non ce la fa più/ non ce la fa più./ La notte adesso scende/ con le sue mani fredde/ su di me/ ma che freddo fa/ ma che freddo fa» (Nada, Ma che freddo fa, di Migliacci, Mattone, 1969).
Un freddo che era dato dalla lontananza dal sole caldo del Sud, ma anche dalla mancanza di calore umano, una sofferenza in primo luogo data dalla separazione forzata con le donne, rimaste al Sud, una richiesta di bisogno d’amore, di rapporto fisico con una donna, di cui i meridionali si sentivano privati: «io son qui lontano dal sole […] lontano dal mio amore», cantava Nicola Di Bari. E Soli si muore, urlava Patrick Samson, e pregare non era un’alternativa valida alla solitudine e alla mancanza di una donna: «È l’ultima notte/ che prego il signore/ fa freddo di notte/ soli si muore/ non ho l’amore»; un bisogno d’amore e di calore corporeo forte e giovane che «scoppiava nel cuore» e rompeva ogni indugio di carattere morale, pronto ad infrangere il tabù della monogamia romantica e sentimentale: «tu o un’altra è lo stesso/ aspettare non posso/ soli si muore/ senza un amore» (Patrick Samson, Soli si muore, di James, Lucia, Mogol, Minellano, 1969). Un bisogno d’amore che, data la solitudine sessuale in cui si trovava a volte il giovane meridionale appena immigrato in una città del settentrione, poteva risolversi nel rapporto con una prostituta: «sono solo nella strada o no, no/ qualcuno c’è./ Non dire una parola/ ti darò quello che vuoi/ tu non le somigli molto/ non sei come lei./ Però prendi la mia mano/ e cammina insieme a me» (Dik Dik, Senza luce, di Mogol, Battisti, Procol Harum, 1967).
Davanti alle fabbriche in lotta, nelle università occupate, la vita normale, fatta di lavoro e di studio, parve fermarsi, s’impose una pausa, si liberò per un attimo la vita dai doveri e dagli imperativi categorici, si scoprì che si aveva tempo da sciupare percorrendo la strada che portava ad appropriarsi della propria vita, quella fatta di relazioni, di amicizie, di riunioni e di impegni politici, di tempo libero dal lavoro, fregandosene, assieme al cantante Antoine, dell’etica del lavoro: «C’è a chi piace tanto lavorare/ ed è felice quando può faticare/ forse ha ragione/ ma a me sembra che poi / è più bello fare quello che vuoi» (Antoine, Mi piacerebbe, 1969). C’era una consapevolezza, voluta, compiaciuta e gioiosa che consisteva nel godere del fatto che si stavano “sciupando” giorni ed energie che avrebbero dovute essere impiegate nello studio e nel lavoro, secondo il volere dei genitori, degli imprenditori: «so che sciuperò/ tutti i giorni miei/ lo dicevi già/ quando son partita/ lungo la mia vita» (Dalida, Mama, di Dossena, Bono, 1967); «L’unica cosa che ci rimane/ è questa nostra vita/ perciò compagni/ usiamola insieme prima che sia finita» (Pino Masi, Lotta continua).
Non solo le lotte studentesche, ma anche quelle degli operai comportavano un momento di festa, di rottura delle regole sociali, gerarchiche e normative, una riappropriazione di identità collettiva, di tempo da perdere e da trascorrere assieme. Quel movimento e quelle lotte misero in crisi i valori di efficienza, di pianificazione e di produttività che regolavano la società industriale e proposero nuovi modi di vivere e lavorare, scanditi da tempi e ritmi più rilassati, secondo la canzone di Enzo Del Re, Lavorare con lentezza, che ha dato il titolo al film del 2004 di Guido Chiesa, ambientato a Bologna nel 1977. Cantava Del Re: «lavorare con lentezza/ senza fare alcuno sforzo!/ Chi va veloce si fa male/ e finisce all’ospedale./ Pausa ritmo/ ritmo lento».

Pino Masi

Tutto e subito

Insieme si scoprì che “la lotta pagava”. Per avere bisognava chiedere, osare, lottare e si poteva ottenere molto, in un crescendo di rivendicazioni: riduzione dell’orario di lavoro, dei ritmi, del cottimo, aumenti salariali uguali per tutti, passaggio di categoria automatico e per tutti, diritto di assemblea in fabbrica, riduzione delle tariffe, degli affitti, delle tasse scolastiche, pensioni decenti, case popolari con affitti popolari, mense, delegati di reparto e di quartiere. Un crescendo di rivendicazioni e di conquiste da parte di strati subalterni che si stavano accorgendo di avere poco, ma che lottando e chiedendo potevano ottenere molto, se non proprio tutto, come recitava un immaginifico slogan del 1969: «Cosa vogliamo? Vogliamo tutto. Tutto e subito»: «la vita è così/ tu quando non hai/ puoi avere di più/ e dopo che hai/ ti accorgi che tu/ fermarti non puoi/ e vuoi quel che vuoi» (Patty Pravo, Il paradiso, di Mogol, Battisti, 1969). Avere tutto e subito e alzare sempre di più il prezzo della contrattazione, senza mai trovare punti di convergenza con l’azienda e i sindacati: «Signor padrone questa volta non ci comperi/ con le cinque lire dell’aumento/ se offri dieci vogliamo cento/ se offri cento mille noi vogliam/ […] E no ai burocrati e ai padroni!/ Cosa vogliamo? Vogliamo tutto!/ Lotta continua a Mirafiori/ e il comunismo trionferà. (Pino Masi, La ballata della Fiat).
L’agire politico, già ridefinito e rimodellato dal movimento studentesco, subì un ulteriore sterzata radicale, “estremista”, che non accettava mediazioni, compromessi tattici, sospensione della tensione conflittuale e della lotta. I giovani operai assieme ai loro compagni davano alla lotta un significato e una valenza che travalicavano le richieste contrattuali. La loro battaglia investiva gli stessi istituti produttivi, la fabbrica, l’organizzazione del lavoro, la gerarchia, la disciplina dei produttori e gli assetti che reggevano la società capitalistica, comprese le sue norme legislative e costituzionali. Volevano un cambiamento radicale, rivoluzionario, da conseguirsi attraverso una lotta continua capace di destrutturare tutti gli assi portanti del sistema. Anche i sindacati e i partiti di sinistra volevano il cambiamento e agivano nella prospettiva di modificare la società, ma per loro la politica era innanzi tutto rispetto delle regole comuni, scienza della contrattazione e della mediazione al fine di risolvere i conflitti, ricostituendo l’equilibrio sociale e politico là dove il conflitto lo aveva scardinato e messo in discussione. L’“estremismo” giovanile concepiva invece la politica come conflitto antagonistico e permanente, capace di liberare nuovi soggetti da immettere nella lotta contro il potere e i suoi simboli. In questa dimensione non c’era spazio per la mediazione e per la ricomposizione degli equilibri politici e sociali. Il conflitto, la lotta di classe, avevano quasi una dimensione catartica e, attraverso la prassi quotidiana dello smascheramento del potere, si autoeducava una generazione militante nuova.

Diego Giachetti