rivista anarchica
anno 40 n. 352
aprile 2010


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Parlare della vita

Ascanio Celestini: il teatro, la narrazione, il popolare e il Pop

Ascanio Celestini è un artista coraggioso, un indomito.
Restai sbigottito quando una sera lo sentii cantare in televisione una canzone molto bella, una sorta di moderna canzone della mala, la storia di un ladro che compie un furto nella casa di… un ladro.

Così entro di nascosto come un ladro nella casa del ladro
Mi guardo intorno nella casa del ladro è tutto rubato
Pure l’aria che adesso respiro con il fiato corto è frutto di un furto.

Quando un ladro trova un ladro dentro casa non è mica contento
E difatti quel ladro mi vede e mi dice: “stai attento”
Lui mi dice: “guardami bene, io non sono ladro soltanto. Io sono il padrone.”

Non sappia l’occhio destro quel che guarda il sinistro
Taccia la bocca memore di quel che ha visto
Che io mi muovo adesso, prima che sia mattino
Nessuno spia il mio passo sotto il cielo turchino.

Ma io dico che suonare un sonaglio davanti a un serpente
Io dico che pure il serpente, pure quello, si pente
E capisce che sputare veleno per tutta una vita non è servito a niente.

Ma il padrone è una cosa diversa, è uno strano serpente
Il padrone è una cosa diversa, è una bestia curiosa
Lui comincia succhiando il latte da quando è bambino, ma poi succhia ogni cosa.
E difatti alla fine il padrone è una specie di ladro
Solo che quando ruba il padrone non è mica reato
E anche quando che viene arrestato il suo alibi regge, perchè lui è la Legge.

Così entro di nascosto come un ladro nella casa del ladro
E quel ladro mi dice che lui non è un ladro soltanto
Ma neanch’io sono un ladro gli dico e così mi avvicino.

Io sono un assassino.
E così sotto il cielo turchino c’è un padrone di meno.

La canzone, poi inserita nel CD “Parole sante”, è un esplicito attacco alla proprietà privata, e come se ciò non bastasse, Celestini terminò quell’esecuzione televisiva con una dedica: Emanuele Filiberto di Savoia ha recentemente dichiarato che “L’Italia è un paese pronto per una monarchia costituzionale”. In considerazione di questa dichiarazione del principe, volevamo dedicare questa canzone a Gaetano Bresci, tessitore, anarchico e uccisore di re.
“Questo in televisione non ci va più”… pensai, e invece fortunatamente mi sbagliavo. Ne ho appunto parlato con Ascanio.

Ascanio Celestini

La parola “anarchia”

Purtroppo non gliene frega a niente e a nessuno – mi dice – non ho avvertito alcuna agitazione per quel che ho detto.
La parola “anarchia” non spaventa più i re come non affascina più i popoli... è considerata sinonimo di disordine e forse nemmeno. Il disordine antiborghese e maledetto che affascina i ragazzi ormai è attribuito al Rock’n’Roll.
Qualcuno semmai pensa che l’anarchia sia sinonimo di menefreghismo.
E così non fa a paura a nessuno neppure la dedica a Gaetano Bresci. I giorni successivi alla trasmissione ho ricevuto mail, messaggi… persone come te, preoccupate che mi cacciassero, ma non è successo niente.
Le proteste più virulente sai su che ce le ho?
Non quando parlo del fascismo o di Berlusconi, figuriamoci! Le proteste vere arrivano quando parlo della religione cattolica. Allora arrivano lettere in cui c’è scritto “Celestini è ateo e non può parlare in televisione, perché un ateo è diseducativo.”
C’è persino qualcuno che prega per la mia conversione, o gente che, più semplicemente, mi scrive parolacce.
Quindi forse è arrivato il momento di riparlare d’anarchia seriamente, come una proposta sensata, come una risposta ai bisogni reali. Non come una minaccia per i forti ma come una risorsa per i deboli.
Se a volte certe parole come “anarchia”, “sindacato” paiono svuotate di significato è proprio il momento di cercare cosa è presente di quelle idee nel tempo che viviamo.
A un principio anarchico come quello dell’autorganizzazione stanno arrivando un sacco di persone, per conto loro, senza nulla conoscere dell’anarchia… e se glielo accenni magari ti rispondono “No, ma io mica sono anarchico”.
Magari, quello che sta al presidio in Val di Susa, gli è pure capitato di votare per la Lega, magari è pure leghista, però si rende conto che se sta vivendo una questione urgente, che lo preoccupa, se ne deve occupare lui in prima persona senza delegare alcuno.
Della sua questione non si occuperà il suo partito, non la sua patria, non l’Europa, non lo farà il suo Dio, la sua mamma, il suo condominio, il suo sindacato…
Quindi l’autorganizzazione è una maturazione personale che si fonda proprio su quello: io non sono rappresentato da nessuno e non rappresento nessun altro che me stesso. Non do, né accetto deleghe. Mi faccio carico personalmente delle questioni che m’interessano.
Su quest’agire pioveranno facilmente accuse di individualismo, di isolamento rispetto a un quadro politico più generale, ma a mio avviso è una presa di coscienza e porta a una presa di responsabilità. Un passo avanti.
L’anarchia nella sua interpretazione più semplice, ma forse più efficace, è buonsenso.
È il buonsenso che mi sento di avere io, per esempio, nei confronti della trascendenza: mica devo negare per forza l’esistenza di Dio, solo che non penso che sia sensato fondare la vita sull’esistenza di un essere ultraterreno.
Se poi Dio esistesse, credo che io, come tutti gli anarchici, lo rispetteremmo, come rispettiamo… un uomo!
Come antropologo appassionato ho imparato il rispetto per la cultura popolare così intrisa di ritualità, come teatrante apprezzo la bellezza di certe messe in scena.
Per esempio mio figlio, quando ha visto un presepio e al centro la Madonnina con le mani giunte, m’ha detto “Papà, lo sai che fa la Madonnnina?”.
Io mi son preoccupato: ecco ora qualcuno gli ha insegnato che prega e me lo viene a ripetere.
Invece lui m’ha detto “batte le mani”.
Diciamo allora che da quell’innocenza della non conoscenza della religione può partire la più bella smitizzazione dell’autoritarismo religioso, forse meglio ancora che dal rancore degli anticlericali venuti su con l’odio per i preti.
Non possiamo prescindere dalla cultura cattolica, in cui ci hanno immersi, come non si può prescindere dalla filosofia di Socrate e d’Aristotele. Così non possiamo ignorare il nazismo e il fascismo: son cose che purtroppo fanno parte del nostro presente perché hanno fatto parte del nostro passato.
Ma proprio perché non ignoro, so che esistono prospettive inaccettabile quali la superiorità della razza e la presenza trascendente, divina, cui affidare la vita.
Ma questo non è che buon senso. Questo, la maggior parte dei cattolici lo pensano pure, e alla fine, dal loro punto di vista, vivono come se Dio non esistesse.

Ascanio Celestini

Nelle fabbriche e nei call-center

Celestini è un artista che ha il coraggio del suo “buon senso”, perciò in questo momento ci appare come un uomo imprescindibile. Quando ci parla, sopra o sotto il palco, il suo candore nell’affermare verità terribili, apparentemente senza alcuna mediazione, seguendo il filo esile della chiacchierata, ci fa scorgere gli angoli più bui del senso comune, del comune razzismo, del baratro nero che si spalanca nella quotidiana storia.
Chiariamoci subito: Celestini non è un improvvisatore, non afferra casualmente il filo del suo discorso per sentito dire. L’uso e il raffinamento di una tecnica affabulatoria gli viene dalla sua preparazione antropologica, dagli studi approfonditi sulla cultura orale, dagli spettacoli (teatrali e radiofonici) tratti dalle fiabe popolari, da lui lungamente frequentate.
Celestini ha fatto e fa ricerca: col registratore a tracolla ha documentato narrazioni. Storie di lotte di classe nelle fabbriche e nei call center, storie di lotte in classe nelle scuole minacciate da riforme e privatizzazioni. Vecchie storie personali, familiari, del tempo di guerra e di quell’altra guerra quotidiana, combattuta per l’esistenza, che i governanti chiamano “pace”.
Per intuizione sua e fortuna nostra, questa ricerca Ascanio ce la restituisce viva, palpitante e parlata, nei suoi spettacoli lunghi per il teatro, come nella serie di fulminanti monologhi di pochi minuti presentati in televisione.
L’elaborazione della sua impeccabile tecnica di racconto orale, una macchina da guerra di suoni sensati, assedio di parole armate, è l’arte di Ascanio Celestini. Il suo modo di parlare sul palco, di scarnificare il discorso, lo si può considerare un’invenzione teatrale e letteraria, un’intuizione originale, l’elaborazione di un attento artigiano che, cercando una commistione fra l’antica oralità popolare e la sovrapposizione contemporanea dei discorsi, trova uno strumento per raccontarci il suo tempo.
Ovviamente Ascanio si schernisce e quando gli chiedi “da dove vieni, da cosa discende il tuo percorso” ti risponde, come faceva Petrolini ottant’anni prima, “dalle scale di casa mia”.
L’elaborazione dello stile è invece l’esito più compiuto del suo lavoro, perché è giunto a un livello tale da riuscire a fare spettacoli in cui, seduto su una sedia in totale assenza di macchine sceniche, magnetizza per ore il pubblico di festival cui accorrono migliaia di spettatori, sputando parole come una mitragliatrice. La sua tecnica, che parte dalle narrazioni singole e giunge ad un coerente spettacolo narrativo, funziona perfettamente anche quando il punto di partenza è un libro, come “L’ordine è già stato eseguito. Roma, le fosse ardeatine, la memoria” di Sandro Portelli, da cui Celestini ha tratto lo spettacolo “Radio Clandestina”.
Questo è il punto focale in cui il suo lavoro appare più che mai utile.
Celestini non è l’unico rappresentante della corrente che viene definita “Teatro di narrazione”, ma appare senza dubbio uno di quelli che meglio ne conosce i meccanismi, che più s’è interrogato sulla coerenza fra mezzi e fini del proprio mestiere.
Il candore di Celestini, lungi dall’essere un’affettazione, fa pensare al ruolo provocatorio che s’era assunto Pier Paolo Pasolini: spina nel fianco e avanguardia.
Celestini corre il rischio d’essere visto piuttosto di sovente in televisione: i suoi spettacoli sono stati ripresi e messi in onda e soprattutto la trasmissione “Parla con me” di Serena Dandini gli offre uno spazio fisso di alcuni minuti ogni settimana, da anni. Ma lui non si ferma ai risultati già raggiunti. Ora è impegnato nelle riprese di un film tratto dal suo libro “La pecora nera”, storia incentrata sull’istituzione manicomiale. Nel 2007 aveva già pubblicato il CD “Parole sante”, che raccoglieva canzoni cantate qua e là per gli spettacoli, compresa La casa del ladro. Il rapporto con la musica di Ascanio è piuttosto stretto e lui stesso, invitato al Premio Tenco, ha detto di riconoscere un punto di riferimento stabile in Giovanna Marini, la grande compositrice che ha saputo fondere l’attenzione alla musica popolare con quella contemporanea, usando quest’originalissima formula per raccontare le vicende dell’attualità. Nel salutarmi Ascanio ribadisce:
Oggi il lavoro di Giovanna mi appare importantissimo, più ancora che quello dei ricercatori che hanno scoperto le canzoni popolari, che stavano già là, come l’America prima di Colombo. Il lavoro di Giovanna interpreta la realtà con una forza che le viene dalla cultura, dalla convinzione e crea così un linguaggio popolare totalmente nuovo… e questo dovrebbe essere il vero POP.
In tutto il lavoro dei Cantacronache, di Giovanna, ma persino in quello di certi altri cantautori più conosciuti, diciamo tra il ’68 e il ’78, si avverte una situazione ibrida, con un piede nell’idea che la rivoluzione sociale sia imminente e un’altro nell’immediatezza comunicativa.
Dal momento che non c’è stata nessuna rivoluzione e che per ora è difficile pensare che ce ne sia una imminente, almeno quanto è difficile che esista Dio, la ricerca popolare s’è inaridita in un atteggiamento museale e il Pop è diventato eterna riproposizione del tema dell’amore cantato nelle maniera più banale e ripetitiva.
A me va anche bene che esista Eros Ramazzotti, ma che il Pop abbia un’assoluta indifferenza agli argomenti in cui si dibatte l’ascoltatore mi pare incredibile. Possibile che l’unica cosa che interessa siano le canzonette d’amore? Non dico che gli artisti Pop debbano fare canzoni di lotta, ma qualcosa che riguardi il traffico piuttosto che l’acqua, la scuola… Perché non parlano degli immigrati, magari esprimendo un concetto stupido, con cui non sarei d’accordo… ma niente, non dicono proprio niente.
Ecco, questo credo che dovrebbe essere il nostro lavoro dei prossimi anni: tentare di diventare degli artisti Pop per parlare davvero della vita.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it