rivista anarchica
anno 40 n. 358
dicembre 2010-gennaio 2011


72 scritti...
che palle!

 

“A” e il teatro.
Un doppio compleanno?

di Cristina Valenti

Il racconto di un teatro che ha accompagnato fermenti, sogni, contraddizioni di generazioni.

Quarant’anni di teatro ripensando ai quarant’anni di “A”. Possiamo considerarlo un doppio compleanno? “A” compie quarant’anni di una vita che ha avuto la sua incubazione nel movimento politico, un’infanzia militante, per arrivare alla maturità attuale, che può essere letta all’insegna delle aperture.
Il teatro al quale penso, quello che ha trovato spazio su “A”, nel 1971 (ma in realtà nel torno di quegli anni) raccoglieva i contenuti di una rivolta non solo teatrale che era scoppiata negli anni ’60, e inaugurava una nuova infanzia del teatro, inserendosi con forza in quella ”tradizione della rinascita” che, scorrendo a volo d’uccello la storia del teatro, è leggibile fra salti e cesure come una vicenda di ricorrenti reinvenzioni a partire da nuovi fondamenti di senso e di necessità. Agli albori degli anni Settanta la morte del teatro dell’inautenticità e della rappresentazione era già stata decretata, e il nesso arte-vita imponeva che la dimensione esistenziale (e quindi politica, etica, relazionale) interagisse in modo sostanziale con la dimensione estetica.

Julian Beck e Judith Malina in Antigone
(1980). Fotografia di © Marco Caselli Nirmal
(dal libro di Cristina Valenti, Storia del
Living Theatre. Conversazioni con
Judith Malina, Corazzano, Titivillus, 2008)

Il Living Theatre aveva già indicato la strada della fuoriuscita dal sistema teatrale e dalle sue convenzioni. Facendosi comunità anarchica, traeva dalla politica i principi cui ispirare processi creativi, modalità di lavoro e strategie organizzative che permisero a un gruppo nomade di una ventina di persone di vivere senza sovvenzioni. Dopo Paradise Now, punto di non ritorno di un teatro che aveva infranto la forma spettacolo per farsi happening, ai confini fra assemblea politica e rituale di liberazione collettiva, il Living Theatre abbandonava gli edifici teatrali e, dal 1970, dava vita a un ciclo di creazioni collettive per spettacoli di strada che partiva dalle favelas brasiliane per entrare nelle fabbriche in sciopero, nei manicomi, nelle università occupate, negli spazi urbani.
E intanto un movimento teatrale sempre più ampio esprimeva la necessità di essere altrove: fuori dai circuiti ufficiali e dalle loro regole, superando i confini della rappresentazione per mescolarsi alla vita, invadere spazi non teatrali, valorizzare linguaggi espressivi non verbali. Peter Brook abbandona la Royal Shakespeare Company e va in Africa, dove inaugura la sua esperienza di teatro interetnico, come mescolanza e integrazione di lingue e linguaggi, Augusto Boal fonda in Brasile il teatro dell’Oppresso, col quale realizza le incursioni del “teatro giornale” e del “teatro invisibile” in spazi aperti, davanti a spettatori impreparati, l’Odin Teatret abbandona la dimensione chiusa del laboratorio danese per viaggiare nell’Italia del Sud e in Sudamerica realizzando “baratti”, ossia incontri con le popolazioni locali attraverso il teatro. E in Italia la straordinaria esperienza dell’animazione teatrale esce dalle scuole per dilatarsi nel sociale, col “teatro nello spazio degli scontri” di Giuliano Scabia.
Per molti giovani attivi nel movimento politico l’esperienza teatrale nel sociale, premessa dei “gruppi di base” e quindi del “teatro di gruppo” degli anni Settanta/Ottanta, rappresenta un importante momento di passaggio dalla pratica militante alla liberazione dell’espressione artistica e dell’azione culturale alternativa. Al teatro accedono giovani privi di preparazione specifica eppure in grado di riprogettare la scena sulla base di un’esperienza essenzialmente politica, che al teatro frutterà la conquista di spazi alternativi, dove svolgere un lavoro a largo raggio, rivolto a un referente anagraficamente e culturalmente affine.
Di quelle esperienze (l’adolescenza di una storia creativa e ribelle) restano i frutti maturi di insediamenti che hanno infranto il monolitismo del sistema teatrale e che, dopo essersi chiamati “centri”, si chiamano oggi “teatri stabili di innovazione”; resta la proliferazione di linguaggi che dopo essere stati di rottura rappresentano oggi (in un clima però di minaccioso ritorno all’ordine) le infinite possibilità di risorse espressive cui attingere liberamente, al di fuori di connessioni di carattere gerarchico; resta il diritto acquisito dell’accesso al teatro per i non-attori, che dopo essere stati protagonisti dell’animazione teatrale sono oggi i nuovi soggetti di un teatro che unisce all’opportunità di inclusione sociale l’elaborazione di nuovi linguaggi e possibilità della scena a partire dalle diverse abilità.
Scorro gli articoli che ho scritto per “A” dall’inizio della mia collaborazione. Ho raccontato il Living Theatre dalla morte di Julian Beck in poi, l’America alternativa del Bread and Puppet e il musical anti-apartheid di Soweto, il Sud America del teatro politico e l’Italia delle giovani generazioni e degli spazi occupati, il teatro gay e il teatro al femminile, il teatro dei gruppi e il teatro nei luoghi reclusi e del disagio...
E mentre rimane il rammarico di non avere raccontato tante importanti esperienze, mi rappacifico un po’ con me stessa perché scopro che la vita del teatro ha dialogato con quella di “A”; e quando, fra altri quarant’anni, gli storici sfoglieranno le annate di una rivista che sarà considerata imprescindibile per la lettura della politica e della società fra Novecento e nuovo millennio, troveranno il racconto di un teatro che ha accompagnato fermenti, sogni, contraddizioni di generazioni alle quali a volte ha fornito uno specchio per rivelarsi, altre volte ha suggerito vie di fuga ed esperienze di trasformazione possibili.

 


Educazione libertaria
per strada

di David Guazzoni

Un lavoro di formazione e di preparazione alla realizzazione dei progetti di strada.

Dal 2000 la Cooperativa Sociale Alekoslab ha scelto la strada come luogo principale del proprio agire, come dimensione della propria azione educativa, come scenario principale per stare con le persone, per mischiarsi e misurarsi con la ‘realtà’.
Nel lavoro di formazione e di preparazione alla realizzazione dei progetti di strada abbiamo elaborato diversi strumenti che potessero aiutare gli operatori a comprendere la cornice entro cui si andava ad operare.
Qui vi proponiamo sei voci tratte dal 'Dizionario minimo dell'educativa di strada' che abbiamo scritto nel 2000 proprio per iniziare ad orientarci.

S: sorprendersi/stupirsi. La capacità di. È uno dei requisiti che ogni operatore sociale dovrebbe portare nel proprio bagaglio personale; è quell’ingrediente che rende affascinante il proprio lavoro anche dopo anni e che permette di ricaricare le batterie e far scoccare scintille anche quando meno ce lo si aspetta. Quando si lavora in strada è utile recuperare questa capacità dal proprio bagaglio.
T: tempo. Nel lavoro di strada ci si misura costantemente sia con quello atmosferico che incide molto ed è un compagno da non sottovalutare, sia con quello che passa determinando lo scorrere della vita. È assolutamente necessario non avere fretta, sapersi confrontare con tempi lunghi, dilatati, che portano a risultati quando meno li si aspetta. Per questo è necessario, quando possibile, inserire progetti di educativa di strada in percorsi di più anni, perché solo così si può avere pienamente il senso di una prospettiva, di una evoluzione, di un avvenuto cambiamento.
R: rete. Lavoro di. Il lavoro di strada e tutto il lavoro sociale più in generale deve sempre creare sponde, rimandi, legami, scambi tra le realtà che lavorano in uno stesso territorio, così da ampliare i punti di vista, alimentare il confronto e forzare l'isolamento.
A: attesa. Nel senso del saper attendere. La fretta è sempre cattiva consigliera e nel lavoro di strada non può esserci posto per il breve termine, per le soluzioni ‘veloci’.
D: disponibilità. È una dote di cui ogni operatore deve essere provvisto in qualsiasi ambito di intervento ed è un requisito imprescindibile nel lavoro di strada. Spesso si richiede agli operatori completa disponibilità mentale (nel senso di essere pronti a scompaginare le carte e ripartire) e a livello pratico (molto banalmente negli orari, soprattutto nelle prime fasi di lavoro in un nuovo territorio).
E: equipe. Centrale è la dimensione del gruppo di lavoro inteso come nucleo da cui prendere le mosse e cui tornare, per rielaborare le esperienze, confrontandole e dando loro la migliore contestualizzazione possibile.
Alekoslab Cooperativa Sociale ONLUS www.alekoslab.org.

 


Sentimento e metodo:
la lezione di Errico Malatesta

di Davide Turcato

Errico Malatesta
visto da
Fabio Santin
(particolare)

Malatesta postula continuità fra l’azione anarchica nella società presente e in quella futura.

Gli scritti di Errico Malatesta contengono forse il più ricco patrimonio di esperienze e di idee che il movimento anarchico possegga. Essi riempirebbero oltre cinquemila pagine, e tale è la mole delle opere complete dell’anarchico campano, un progetto editoriale attualmente in corso che, ci si augura, completerà il lavoro iniziato da Luigi Fabbri negli anni 1930.
Ma se fra questi scritti dovessi scegliere una sola frase-simbolo, questa sarebbe una definizione contenuta nell’opuscolo L’Anarchia, del 1891: “L’anarchia, al pari del socialismo, ha per base, per punto di partenza, per ambiente necessario l’eguaglianza di condizioni; ha per faro la solidarietà; e per metodo la libertà.” La frase simboleggia bene il connubio fra semplicità di esposizione e profondità di pensiero che caratterizza tutta l’opera di Malatesta. Pare una definizione ovvia, nel suo riferimento alla classica triade di valori della Rivoluzione Francese, eppure sintetizza un’intera concezione dell’anarchismo, meditata e originale. In questa concezione l’eguaglianza di condizioni, cioè la messa in comune dei mezzi di produzione, il socialismo, non è un punto di arrivo, ma il punto di partenza di un processo di evoluzione sociale animato dal sentimento di solidarietà fra gli uomini, ed esplicato attraverso la libertà d’iniziativa di ciascuno.
La definizione non propone una statico modello di società perfetta, ma descrive una società aperta socialista, sperimentalista e pluralista. Nel caratterizzare l’anarchia in termini di un sentimento, la solidarietà, e di un metodo, la libertà, che già oggi gli anarchici mettono in pratica, Malatesta postula continuità fra l’azione anarchica nella società presente e in quella futura. E poiché quel sentimento e quel metodo sono scelte volontarie di ciascun individuo, la sua è una visione gradualista dell’anarchia, che sarà tanto più realizzata quanti più individui faranno propri quel sentimento e quel metodo. Nessuna concezione potrebbe essere più lontana dallo stereotipo, duro a morire, dell’anarchismo come anelito ad una perfetta arcadia e come filosofia del “tutto o nulla”. C’è ancora molto da far capire su cosa sia l’anarchismo, e nessuno ha spiegato cosa esso sia meglio di Malatesta.
Nel riconsiderare la propria tradizione in vista delle lotte future, come fa questa bella iniziativa di “A,” gli anarchici attingano a questo inestimabile patrimonio, in buona parte ancora inesplorato o incompreso, delle “pagine di lotta quotidiana” di Malatesta.

 


Colonne sonore
di “cattiva musica”

di Diego Giachetti

Con le discoteche cambiarono i luoghi della socializzazione giovanile.

Quando all’incirca questa rivista nacque, il ’68 italiano stava facendo i conti con le canzonette della “cattiva coscienza” riscoprendo la canzone impegnata, politica e di protesta vecchia e nuova. La «musica ribelle», come sintetizzò efficacemente Eugenio Finardi nel 1976, quella che ti vibrava nelle ossa e ti entrava nella pelle e t’invitava a «mollare le menate e metterti a lottare». Nella seconda metà degli anni Settanta la musica, i concerti, furono l’occasione, nelle feste del proletariato giovanile, per incontrarsi, stare assieme, amoreggiare, fumare spinelli, mentre il senso e il significato delle parole “impegno politico” subirono un primo cambiamento. La connotazione rimaneva ancora positiva, ma il suo riferimento si estendeva, si dilatava. Alle soglie degli anni Ottanta, la generazione che era stata la protagonista dei movimenti degli anni Settanta, era in rotta di riflusso, travolta dalla crisi delle ideologie abbandonava l’impegno. Con sofferenza scopriva di essere una «generazione di sconvolti», senza «più santi né eroi» (Vasco Rossi, Siamo solo noi, 1981), senza un «centro di gravità permanente», come sentenziò Franco Battiato, «ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, perso dietro i fatti suoi» (Vita spericolata, 1983).
Con le discoteche cambiarono i luoghi della socializzazione giovanile. Migliaia di giovani s’incontravano costituendo delle comunità fondate sul bisogno di evadere, di rompere la monotonia quotidiana. L’età giovanile si prolungò, sinonimo di precarietà della condizione sociale. La musica, di cui erano grandi consumatori, coniugava l’aspetto ludico con quello partecipativo. Le parole dei testi non avevano un immediato ed esplicito messaggio pedagogico-educativo, servivano ad aggregare, a sincronizzare i corpi degli individui sullo stesso ritmo. Quando venne il movimento dei movimenti la sua colonna sonora fu una musica globale che aboliva il concetto di “straniero”. Una koinè musicale nuova che inglobava le tradizioni dei vari popoli del mondo non come una curiosità da scoprire, ma come parte del proprio patrimonio culturale. Nelle manifestazioni del movimento a Genova, a Firenze, a Roma non mancarono le bandiere rosse, i canti della tradizione del movimento operaio. Tanto il rosso ma, se la citazione di Tiziano Ferro non appare blasfema, si trattava di un «rosso relativo» (2001), che veniva dal passato e rispetto al quale il giudizio era sospeso, poiché essere giovani significava anche sentirsi creature nude di fronte alle vetrine delle ideologie.
Quindi, ecco perché va accolto l’invito di Marcel Proust a non disprezzare la cattiva musica, quella che si suona e si canta di più e con più passione di quella buona, quella che si è riempita «del sogno e delle lacrime degli uomini», perché, se il suo posto è «nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale della società» (I piaceri e i giorni).

 


Abbattere dominio.
Costruire libertà

di Domenico Liguori

È questa la sfida che ci lancia il municipalismo libertario.

Per dirla con Errico Malatesta, gli anarchici ritengono che “la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale”, e proprio perché convinti di ciò, propongono quale alternativa alla società del dominio la costruzione di una società basata sulla libertà. Due sono, dunque, le forze propulsive dell’anarchismo, quella distruttrice e quella costruttrice. La prima non si riconosce nel presente, anzi lo delegittima, lo combatte e mira gradualmente a distruggerlo; la seconda invece è tutta intenta a prospettare di già il futuro: una società della libertà e dell’uguaglianza.
Insomma, gli anarchici, convinti che le iniquità sia dovute all’organizzazione gerarchica della società, propongono che ognuno riprenda nelle proprie mani il destino e che tutti insieme riprendiamo in mano il destino dell’umanità, per renderci artefici di una società in orizzontale, che parta dall’individuo per giungere poi alla libera associazione fra individui, alla comune ed infine ad una federazione dal basso, che unisca le libere comuni dal territorio al mondo intero.
Ecco, è così che a me piace pensare il municipalismo o il comunalismo libertario, come dir si voglia: come una proposta radicale, rivoluzionaria, ma nello stesso tempo gradualista; una proposta che si colloca nelle conflittualità dell’oggi per la difesa degli interessi immediati delle classi subalterne, ma si prefigge, nel contempo, di iniziare a costruire nel "qui ed ora" le basi alternative su cui edificare la società libera del domani.
Questo genere di argomentazioni ad A-rivista anarchica non è certamente nuovo, se solo pensiamo ai contributi che in tema di municipalismo libertario sono ad essa pervenuti, da un trentennio a questa parte, dalla collaborazione col pensatore Murray Bookchin. Insomma, di fronte al fragoroso cianciare su un federalismo istituzionalista, ad A-rivista anarchica bisogna riconoscere il merito di aver svolto un grande ruolo nel riproporre la tematica del federalismo nell’essenza; quell’essenza che per l’appunto si individua nella genesi libertaria dello stesso, una genesi che ci ricorda che laddove c’è gerarchia non ci può essere federalismo vero.
Io scrivo da Spezzano Albanese, cittadina abereshe della Calabria, nota in ambito anarchico e libertario, per la sua concreta esperienza comunalista libertaria che da alcuni decenni si esplica fuori e contro l’istituzione comunale di stato con iniziative di autogoverno dal basso nel mondo del lavoro e nel territorio, attraverso le campagne sociali promosse dalla FMB – Federazione Municipale di Base (per chi voglia saperne di più: www.anarchia.info).
Abbattere dominio costruire libertà: è questa, insomma, la sfida che oggi ci lancia, il municipalismo o comunalismo libertario, come dir si voglia. Sapremmo raccoglierla?

 


Un bellissimo sogno
da consegnare al futuro

di Dori Ghezzi

Mi è tuttora difficile potermi considerare una vera anarchica.

Fino a un certo punto della mia vita, per me il concetto di anarchia è stato una versione distorta rispetto a ciò che l’anarchia è nella sua vera essenza; e credo che questo possa capitare alla maggior parte delle persone condizionate da un’informazione che troppo spesso usa a sproposito la parola anarchia.
La presa di coscienza di che cosa significasse è maturata conoscendo da vicino chi si dichiarava anarchico con consapevolezza e onestà.
Ho capito che anarchici non si diventa perché qualcuno ti indottrina e ti affilia attraverso dei codici, ma scaturisce da una naturale tensione al saper convivere con gli altri.
È la libertà all’ennesima potenza che sancisce la possibilità per l’uomo di essere completamente autonomo e intendere il rispetto non come un dovere ma come una scelta.
Malgrado sia pienamente in sintonia con questo pensiero, mi è tuttora difficile – non so se per pudore o per un (irragionevole?) dubbio di chiarezza – potermi considerare una vera anarchica.
Non ho incontrato Stirner, Bakunin o Anna Kuliscioff, ma Fabrizio e alcuni amici del circolo anarchico di Carrara, e un allora giovanissimo Paolo Finzi con la compagna Aurora.
Furono proprio Paolo e Aurora a regalarmi alcuni volumi di Emma Goldman, e ancora li ringrazio poiché attraverso quelle letture ho conosciuto il modo giusto per riscattare la condizione dei più deboli e, ancor di più, la dignità della donna.
Alcuni anni dopo ho avuto la fortuna di conoscere Fernanda Pivano, un’altra anarchica convinta, con la quale ho condiviso i medesimi pensieri sulla (per noi) errata impostazione della battaglia femminista.
Se, nostro malgrado, persistono ingiustizie non solo fra etnie e culture diverse, ma anche quasi ovunque fra uomo e donna, purtroppo, almeno ancora per ora, l’anarchia sembra un bellissimo sogno da consegnare al futuro.

Fabrizio De André e Dori Ghezzi
(foto Reinhold Kohl)

 


Non una,
ma tante rivoluzioni

di Elena Violato

Da tempo un profondo senso di smarrimento alberga nelle persone e soprattutto nelle nuove generazioni.

Vorrei iniziare questo contributo con una constatazione molto banale ma spero proprio per questo largamente condivisibile: siamo in un periodo di crisi.
Tante parole son state spese al proposito ed è patrimonio comune il fatto che attraversiamo un periodo di crisi economica, causa e conseguenza di quella ambientale che secoli di sfruttamento da parte dell'essere umano han creato.
Ma ciò su cui in questa sede vorrei focalizzare l'attenzione è il risvolto esistenziale, culturale della faccenda: non sappiamo più come definire, come rapportarci con l'esistente e con la nostra stessa esistenza, l'immaginario con cui siamo nati e cresciuti ha confini vaghi e nebulosi.
Da una parte il processo di secolarizzazione ha messo in crisi la fede indiscussa in un unico dio, sia esso quello della chiesa, lo stato o un grande ideale per il quale vivere e combattere.
Dall'altra ciò che ci è stato offerto in cambio della fede è un oppio ancor più inebriante di cui abusare: continuamente sollecitati a consumare per vivere, a consumare la vita, mai sazi e insaziabili, in continua ricerca di qualcos'altro e/o di qualcun altro, il “benessere” sembra alla portata di tutti e pochi si accorgono che più ci riempiamo di cose, più ci svuotiamo di noi stessi stando male.
Essendo state messe in discussione tutte le grandi fedi, ciò ha permesso una parziale liberazione dalle umane gabbie mentali, le quali di certo nel tempo non hanno incentivato il voler migliorare le proprie condizioni di vita. Però è successo anche che si ponesse l'accento solo sulle condizioni oggettive dell'individuo e della società e ci si dimenticasse di tutto il resto, di tutto quello che contribuisce allo stesso modo all'essenza di una società e dell'individuo.
Solo negli ultimi decenni ci si è accorti che nella teorizzazione di un cambiamento mancava un pezzo e chi ha iniziato a trattarne nei suoi scritti vi ha fatto riferimento parlando d'”immaginario”.
Da tempo un profondo senso di smarrimento alberga nelle persone e soprattutto nelle nuove generazioni, le quali rifiutando più o meno consapevolmente i codici della vecchia “cultura”, annaspano nel non riuscire a creare, a dare vita ad un nuovo sistema condiviso di interscambio e comprensione.
“Vita liquida” l'ha definita Bauman.
Sembrerà assurdo ma è proprio qui che si annida il “germe” del cambiamento, una speranza di mutazione d'immaginario che potrebbe portare ad un'ulteriore liberazione dalle catene del Dominio.
Posto che dare un senso alla propria e all'altrui vita è una conditio sine qua non per poter vivere ed “essere” umani, e posto che la maggior parte dei miti fondanti il senso ultimo della vita è o sta crollando, si può per assurdo pensare di essere al principio di una trasformazione radicale.
Per ora si è messo l'accento solo sull'avanzata dei nazionalismi e dei fondamentalismi. Questo è un rischio reale e spaventosamente incombente.
Ma all'estremo opposto si può intravedere una luce di speranza, un profondo relativismo che sta permeando tutte le scienze umane e sociali e anche sempre più persone (sebbene non in maniera idilliaca e sempre tenendo conto delle difficoltà del caso), complice anche il sempre più frequente incontro-scontro con altre culture.
Questo relativismo, questo non voler fondare il proprio senso su un qualcosa di assoluto e trascendente e la tranquillità con la quale accettare che se una cosa è giusta ed è buona per il singolo, non dev'essere per forza scritto in calce da qualche parte, creano spazi reali e mentali di libertà, danno vita ad una “cultura di libertà”.
L'ascolto dell'altrui opinione, l'ascolto, quello vero può essere agito solo se si parte dal presupposto che l'altro pensa a suo modo di aver ragione ed è solo con questo presupposto che ciascuno di noi potrà confrontare la ragione degli altri con la propria, senza perdere tempo ed energie nel voler a tutti i costi affermare se stesso.
Il rispetto della diversità può muovere i suoi primi timidi passi solo partendo da qui, solo quando sarà patrimonio comune che niente è più assurdo di qualcos'altro, che nulla è più normale e oggettivo del resto.
E questo in fondo è quello a cui da sempre tende l’anarchia...
Ho posto l'accento su uno dei tanti aspetti dell'abbattimento del dominio. Sicuramente non è l'unico ed è ovvio che tutto questo discorso è inutile per le persone che continuano e continueranno a volere imporre il proprio dominio con la forza e la violenza, con l'inganno e la repressione. Ma su fascisti, stato e istituzioni penso che molto sia già stato detto.
Per liberarsi ed essere liberi non bisognerebbe tralasciare nessun aspetto: dal macro al micro, dal pensiero all'azione, dalla creazione distruttiva alla distruzione creativa.
Non una ma tante “rivoluzioni”; non domani aspettando il sol dell'avvenire ma qui, ora.

continua...