rivista anarchica
anno 40 n. 358
dicembre 2010-gennaio 2011


72 scritti...
che palle!

 

Fabio Santin per i quarant'anni di Arivista

 


Una libreria
chiamata Utopia

di Fausta Bizzozzero

Il progetto era un po’ folle e la nostra ingenuità pure.

Correva l'anno 1976 quando decisi, insieme a Luciano Lanza, a quel tempo mio compagno di vita e militanza, di aprire una libreria (lui dopo alcuni anni decise di cambiare lavoro ma altri compagni/e mi hanno affiancato nel tempo, in particolare Mauro Decortes arrivato giovanissimo e che tuttora lavora in libreria). Nessuna esperienza nel settore, nessuna conoscenza dei meccanismi distributivi e commerciali, nessun “mestiere”.
Solo una grande amore per la lettura e la profonda convinzione che fosse necessario uscire dai nostri circoli, dalle nostre sedi, dal nostro “milieu” e far conoscere i nostri libri, le nostre riviste, le nostre idee nel più vasto e variegato mondo che transita sui marciapiedi della città.
Il nostro piccolo gruppo (Bandiera Nera) infatti si era trovato ad occuparsi di carta stampata: dal 1971 pubblicava “A Rivista Anarchica” (nata come necessità di controinformazione dopo la strage di Piazza Fontana) e aveva ricevuto in “eredità” da meravigliosi vecchi compagni la casa Editrice Antistato (poi diventata Elèuthera), la rivista “Volontà” (ora “Libertaria”) e la rivista quadrimestrale in quattro lingue “Interrogations”.
Il progetto era un po' folle e la nostra ingenuità pure, ma nel febbraio 1977 abbiamo aperto i battenti della Libreria Utopia in Largo La Foppa. Ci sono voluti anni per farci accettare nel quartiere e ci sono voluti anni per imparare il “mestiere” di libraio, per me il più bello del mondo ma anche difficile, faticoso (sempre in piedi e solo il ferro pesa più dei libri) e con margini di guadagno irrisori. Ma la libreria doveva essere ed è stata anche altro: luogo di incontro (di studenti, di insegnanti, di collettivi di lavoratori, di associazioni, di gruppi di studio), centro culturale libertario con l'organizzazione di cicli di conferenze e mostre tematiche (storia/filosofia/ecologia/pedagogia/scienza/arte/musica ecc.) con un taglio libertario; luogo di confronto e di scambio, di circolazione delle idee, punto di riferimento culturale.
Nel corso degli anni (tre decenni) la politica editoriale, che già puntava alla quantità invece che alla qualità, alla creazione di best-seller e alla omologazione verso il basso, ha subito un processo di accelerazione parossistico alimentando un'economia fittizia fondata sulla moltiplicazione dei libri pubblicati col risultato di rendere sempre più breve la vita di ogni singolo libro (cioè la sua presenza e visibilità in libreria) e di rendere sempre più difficile il mostro lavoro quotidiano. Ma questa “evoluzione”, questa accelerazione, come ben sappiamo, faceva parte di un processo ben più ampio dell'economia e della società di cui purtroppo dobbiamo vedere i disastri quotidianamente.
Nel corso degli anni anche il quartiere è cambiato radicalmente: spariti i vecchi artigiani e gli storici abitanti delle case di ringhiera ristrutturate e vendute a caro prezzo sono arrivati i nuovi ricchi, sono proliferati i locali alla moda. In questo scempio generale comunque la libreria Utopia resiste ancora, ultimo baluardo contro il dilagante popolo dei nuovi barbari. Io, per problemi fisici e personali, ho ceduto il testimone, ma l'avventura della libreria continua.
Se dovessi fare un bilancio della mia esperienza direi che mi considero fortunata: fare attività anarchica mi ha aiutato a crescere, a imparare, ad acquisire competenze, ho avuto un piccolo sogno (il grande sogno di una società diversa è sempre nel mio cuore ma ahimè mi sembra sempre più lontano!) che ho potuto realizzare così come lo volevo pur pagandone tutti i prezzi, e infine ho anche avuto la soddisfazione di vedere riconosciuto il mio/nostro lavoro sia dagli addetti ai lavori sia dal pubblico dei lettori e fruitori dell'attività culturale.

 


Anarchia e religione

di Federico Battistutta

Ma gli anarchici non erano dei senza dio? Mica tutti. E si comincia a parlarne.

Nella storia dell’anarchismo si può osservare una visione sostanzialmente negativa nei confronti della questione religiosa, in cui predominano l’ateismo e l’anticlericalismo, diversamente coniugati. Esemplare a questo proposito è stata la posizione di Bakunin, espressa in Dio e lo Stato: “Poiché Dio è tutto, il mondo reale e l’uomo sono nulla. Poiché Dio è la verità, la giustizia, il bene, il bello, la potenza e la vita, l’uomo è la menzogna, l’iniquità, il male, la bruttezza, l’impotenza e la morte”.
Detto ciò, nel pensiero e nella pratica dell’anarchismo sono esistiti, seppur in forma minoritaria, tendenze differentemente orientate nei confronti della religiosità, pur mantenendo forte la denuncia della componente autoritaria e coercitiva delle religioni organizzate e l’opposizione nei confronti alle gerarchie ecclesiastiche.
Possiamo menzionare anarchici di ispirazione cristiana (Lev Tolstoj, Simone Weil, Dorothy Day, Ammon Ennacy e Jacques Ellul), ebraica (Gustav Landauer, Martin Buber, Gershom Scholem), finanche islamica (Henri-Gustave Jossot, Leda Rafanelli, Hakim Bey). È bene aggiungere che ciascuna delle persone citate ha variamente declinato il rapporto tra anarchia e religione. Tolstoj, per fare un esempio, non dichiarò mai di essere anarchico: “Mi considerano anarchico, ma io non sono anarchico, sono cristiano. Il mio anarchismo è solo l’applicazione del cristianesimo ai rapporti fra gli uomini”, scriverà nei suoi diari. Nel caso di Landauer, invece, l’ebraismo, che pur costituisce lo sfondo su cui si staglia tutta la sua riflessione, non assume i tratti dell’adesione a una religione positiva, pur nel riconoscimento che anche il momento più strettamente politico del suo pensiero ha risentito di un approccio mistico-religioso.
Ma l’esistenza di una dialettica creativa fra religione e anarchismo è riscontrabile anche allargando lo sguardo verso altri filoni religiosi, così come al di fuori di qualsivoglia confessione. Sono stati riscontrati punti di contatto – espliciti o impliciti – in diversi autori hindu, buddhisti e taoisti. Per limitarci ad un personaggio oltremodo conosciuto come M. K. Gandhi, egli fu notevolmente influenzato oltreché dalla millenaria tradizione spirituale induista, anche dal pensiero libertario di autori come Tolstoj e Thoreau. Ottenere l’indipendenza (swaraj), non significava per lui creare uno stato a imitazione di quelli occidentali; il potere doveva appartenere alle popolazioni sparse nei villaggi: un potere diviso e diffuso. Inoltre, per quando riguarda la questione della proprietà privata, egli non aveva difficoltà a definirsi socialista: un socialista con “forti tendenze verso l’anarchia”, lo ha definito qualcuno.
Il riconoscimento di un possibile rapporto fra il pensiero anarchico e alcuni autori ad esso contemporanei, ha permesso di allargare lo sguardo, compiendo indagini e ricognizioni verso periodi storici antecedenti la nascita dello stesso movimento anarchico. Per limitarci all’ambito cristiano, sono stati riscontrati numerosi punti di contatto studiando la vasta area costituita dal fenomeno delle eresie, sia all’interno del cristianesimo primitivo (contro cui tuonava l’apostolo Paolo: “non c’è autorità se non da Dio”), che nel Medioevo (come il multiforme movimento dei fratelli del libero spirito) o nelle epoche successive, più vicine alla nostra.
La discussione attualmente in corso concernente la rivisitazione dei paradigmi storici della tradizione libertaria (cfr. il post-anarchismo), i quali affondano gran parte delle loro radici nella cultura dell’Ottocento, può favorire nuove aperture e nuove possibilità per costruire relazioni dinamiche ed inedite fra anarchia e religione. In ogni caso, è questo un campo ancora tutto da esplorare.
(su questi temi cfr. www.liberospirito.org).

 


L’inganno delle parole

di Felice Accame

“A”. L’unica rivista che (per ora) non ha deciso di poter fare a meno dei miei scritti.

Il fatto che nessuna rivista – o quasi – accetti miei scritti fa sì che io scriva su riviste cui, perlopiù, ho contribuito a fondare o, comunque, collabori fin dal primo numero. Non è il caso di “A” e, pertanto, mi sento come uno salito su un carro già in corsa. Il fatto che – come tutte quelle su cui ho scritto io – “A” non sia morta o, più semplicemente, abbia da tempo deciso di fare a meno dei miei articoli, mi stupisce.
Non mi stupisce, invece, il fatto che, nella mia comunque lunga collaborazione, non sia riuscito a incidere di una virgola sull’andamento della rivista. Mi sento quantomeno ininfluente. Qui vorrei spiegare il perché.
Sia che mi occupi di cinema – che mi si ghettizzi nella rubrica apposita -, sia che mi possa occupare di checchessia – fossi stato titolare della rubrica gastronomica sarebbe stato lo stesso -, il mio tipo di problema è sempre quello: guardo all’aspetto metodologico delle cose, mi dico che qualcosa non va per il verso in cui dovrebbe andare, cerco di risalire all’origine del guasto che, immancabilmente, riconduco alle teorie della conoscenza – a tutte le teorie della conoscenza, nessuna esclusa – prodotte dalla filosofia nel corso della sua storia.
Cos’hanno che non va le teorie della conoscenza? Che non stanno in piedi, che sono frutto di un fraintendimento ben occultato dalle parole e che, nonostante tutte le denunce di questo fraintendimento le cose hanno continuato ad andare come sono sempre andate: filosofo è un appellativo di stima – anche tra gli anarchici, ahimé -, la filosofia si insegna consapevolmente nelle scuole superiori soprattutto sotto forma di “storia della filosofia” e la si insegna inconsapevolmente a dosi massicce ed ineludibili negli asili e nelle scuole elementari.
Qui sarà bene che faccia qualche esempio. Come può stare in piedi una teoria che prevede che il conoscere consista nel farsi al proprio “interno” una copia esatta di qualcosa che starebbe al proprio “esterno” ? Quando e come mai potrà essere garantito di questa esattezza ? È ovvio che qualsiasi cosa percepita – percepita foss’anche da strumenti che, in quanto tali, si può presumere forniscano risultati uguali per chiunque li usi – sarà sempre percepita da qualcuno – come qualsiasi strumento, peraltro, fatto da qualcuno lo sarà pur sempre. È ovvio che qualsiasi cosa detta – ieri, oggi, domani – sarà pur sempre stata detta da qualcuno. È ovvio che se il fondamento della conoscenza è l’esito di un tale processo non è fondamento di alcunché.
Meno ovvio è individuare l’inganno nelle parole usate. “Esterno” e “interno”, per esempio, a che si riferiscono ? Al corpo, al cranio, al cervello, ai neuroni, alle sinapsi, ai neurotrasmettitori ? Alla “coscienza” ? Si trovassero due – dico due – d’accordo nel dirci in che consista questa benedetta coscienza. E “conoscenza” ? Già, la stessa parola “conoscenza” che significa ? Nei primi anni Sessanta, ho imparato da Silvio Ceccato che con questa parola vengono designati due processi ben diversi: il primo è quello in cui confronto due risultati della mia percezione nel tempo – del tipo: ieri mi è stato presentato Carlo, oggi lo incontro per la strada e gli dico “Ciao, Carlo”, lo ri-conosco. Il secondo è quello in cui confronto – o dico di confrontare – due risultati di una mia percezione nello spazio e nello spazio diviso in modo particolarissimo in quel “dentro” e quel “fuori” che, come abbiamo constatato, risultato metaforici. Va da sé che il confronto sia impossibile ad eseguirsi – per mancanza dei termini da confrontare – e va da sé, allora, che anche questo “conoscere” sia metaforico. Ed è il conoscere della filosofia.
Un conoscere somministrato a piene mani fin nella più tenera età – nei principi grammaticali, nelle basi dell’aritmetica e della geometria, negli apparati metodologici della scienza e nella religione – un conoscere misterioso, trascendente, sempre necessitante di mediazione da parte del potente di turno – mago, prete, scienziato, artista o filosofo che si voglia chiamare. Ogni giustificazione del potere si avvale di questa consolidata retorica. Ed il sottoscritto, costernato quanto basta, guarda l’uso di questa consolidata retorica – non parlo di mero “linguaggio”, ma anche del pensiero che c’è sotto – non solo, come è ovvio, da parte di chi di quel potere vuole partecipare e dice di voler partecipare, ma anche – ahinoi – da parte di chi gli si contrappone o, almeno, si dice convinto di contrapporglisi, contribuendo, invece, all’ennesima boccata di ossigeno.

 


Della libera comunità
nell’amicizia

di Filippo Trasatti

Una comunità di uguali, liberi di essere diversi, non può accettare nessuna forma e nessun ordine prestabilito.

Certo, si sa, non è per niente facile e neppure così comune. Eppure una comunità di amici e amiche è possibile. La si sceglie, ma non del tutto; non basta la volontà per crearla, perché il caso vi gioca un ruolo importante. E poi le affinità, il riconoscimento reciproco, l’esplorazione curiosa dei territori sconosciuti dell’altro, l’intersezione di interessi, passioni, conoscenze, pratiche.
Non sarà per sempre (ma cosa lo è?); ha piuttosto l’aspetto di una zona temporaneamente autonoma, sfrangiata ai bordi, con zone di tessitura più o meno dense al suo interno e ci vuole una sorta di atto di creazione continua per mantenerla in vita.
Questa zona autonoma può ampliarsi nel tempo, ma non resta mai uguale a se stessa e ciascuno dall’esterno (ma anche dall’interno), a seconda della prospettiva da cui la guarda, come in una nuvola, vede qualcosa di completamente diverso. D’altra parte una comunità di liberi, perché uguali, senza gerarchie prefissate, senza che i ruoli diventino asfittici, non può che essere mutevole.
E una comunità di uguali, liberi di essere diversi, non può accettare nessuna forma e nessun ordine prestabilito.
Non ha mura, ma è certamente un luogo protetto dall’asprezza dell’esistenza e dalla crudezza del mondo impazzito. Un luogo in cui si possono sperimentare la debolezza, senza temere in risposta la forza e la gioia, senza temere invidia e malevolenza. Uno spazio fraterno, basato sul mutuo appoggio, che può apparire elitario, come accade quando delle singolarità intrecciano fittamente i propri percorsi.
Una preziosa anomalia pacifica, una comunità differente, ma non indifferente, un micromondo dentro un mondo in cui gli uomini normali, le comunità identitarie, gli stati hanno sterminato in pochi decenni (e continuano a sterminare) milioni di esseri umani e dove continua l’orrore dello sterminio pianificato di miliardi di viventi e senzienti inermi.
Pacifica non significa priva di conflitti, di dinamiche di trasformazione, di tensioni, ma volte per decisione comune e in piena libertà, alla costruzione di uno spazio comune più appropriato. Non indifferente significa che usa il calore e la forza prodotta all’interna per rivolgerla verso l’esterno, in progetti comuni, un creazioni condivise, in lotte contro le innumerevoli forme di ingiustizia e sfruttamento.
Per me tutto questo ha il delicato e fragrante profumo dell’anarchia.

 


Divertenti, saggi, militanti, istruttivi, moderni mangiapreti

di Francesca Palazzi Arduini

Un prezioso calendario di cronache, critica e dibattito anticlericale.

“A” rivista anarchica è un prezioso calendario di cronache, critica e dibattito anticlericale.
Sin dal 1974, con Paolo Finzi: Il 12 maggio, infatti, tutti i cittadini-elettori (suore di clausura comprese) andranno a votare per decidere se mantenere o abrogare la famosa “legge Fortuna-Baslini”, con cui il divorzio, seppure in dimensioni ben ridotte (“piccolo divorzio”), ha fatto la sua prima timida comparsa in Italia, terra dei preti, di santi e di democristiani.
Impossibile dar conto di tutti. Solo alcuni esempi: il corteo torinese dei “sindonbusters” nel maggio 1998 è magistralmente raccontato da Maria Matteo: Nella Torino del 1998 diventa sovversivo persino lo statuto albertino ... La polizia ulivista di una città ulivista, di un paese ulivista riesce a dare un carisma “progressista” persino a Camillo Benso di Cavour con il suo arcinoto “libera chiesa in libero stato.
Zelinda Carloni, sulla manifestazione del 19 febbraio 2000 a Roma in piazza Campo de’ Fiori per i 400 anni dal rogo di Giordano Bruno racconta della concessione della piazza da parte delle autorità di polizia con l’obbligo di ...fargli una polizza assicurativa.
Il 13 ottobre 2001 a Treviso si tiene il congresso per fondare la Lega italiana anti concordato, Mario Coglitore ne fa un resoconto critico e classista mettendo in dubbio l’aderenza della figura del “cattolico progressista”.
Luigi Veronelli, nell’ottobre 2003, critica l’anticlericalismo esponendo l’operato “virtuoso” e l’umanità di sacerdoti come don Ciotti (quello della “Libera” siciliana).
Da parte mia invece, ho contribuito con articoli di critica femminista (con un debole per la psicanalisi) alle politiche vaticane, invitando a tralasciare punti di vista anti-religiosi e iper-razionalisti per mettere a fuoco strategie anticlericali nuove di resistenza culturale all’invasività vaticana.
Attraverso gli scritti di Carlo Oliva ripercorriamo tutte le tappe fondamentali dell’ eterna deriva clericale italiana. Queste vengono riassunte in titolazioni magistrali, da “L’inquisitore remissivo” (1996) su alcuni cenni di riabilitazione di Charles Darwin e dell’evoluzionismo presso la Pontifica accademia, a “Un modesto scontro di portata epocale” (2008) sull’anniversario della Breccia di Porta Pia. Oliva spazia da considerazioni su piccoli avvenimenti simbolici (“La stilografica del vecchio pastore”, sulla penna ufficiale del Giubileo) a questioni basilari, come con “Le radici dell’esclusione” e “Torniamo a Melchisedech” (2006) sulle radici “cristiane” d’Europa e sulla funzionalità al potere politico delle tre religioni monoteiste.

 


L’educazione libertaria oggi

di Francesco Codello

Questa aria nuova, da semplice e isolata testimonianza, va sempre più diffondendosi pur tra le maglie soffocanti della realtà dominante.

Tra la fine del secolo XIX e la prima metà del XX numerose esperienze e significative riflessioni hanno caratterizzato la storia del movimento anarchico e libertario in questo senso, dando vita a vere e proprie alternative all’insegnamento tradizionale e all’educazione autoritaria. Il valore di tutto questo è testimoniato dalla capacità di penetrazione, nel corso degli anni, nella cultura pedagogica più progressista, di tutte queste teorie e di queste pratiche e la sua indiscutibile attualità.
Ma è soprattutto a partire dalla scuola di Summerhill, fondata da Alexander Neill nel 1921 in Inghilterra, che questo filone di educazione ha trovato nuove energie e nuovi impulsi diffondendosi in maniera significativa in tante parti del mondo. Esistono oggi centinaia di scuole, di accademie, di centri di studio e ricerca, di reti, di associazioni, in tutti i continenti, che sperimentano momenti e luoghi ispirati all’educazione libertaria. Queste scuole, con gradualità diverse e nutrendosi delle influenze culturali del loro contesto, sono però accomunate da alcune caratteristiche organizzative qui riassunte: decisioni assunte paritariamente da tutti i membri della comunità educante (dal membro più piccolo al più grande), frequenza facoltativa alle lezioni, superamento della scuola come contesto ristretto di apprendimento e costante immersione nell’ambiente circostante, contributo effettivo e qualificato dei ragazzi alla scelta degli insegnanti, organizzazione centrata sui tempi e modi dell’apprendimento piuttosto che in quelli dell’insegnamento, flessibilità e individualizzazione nella definizione degli obiettivi di istruzione, centralità effettiva del bambino e superamento della cultura adulto-centrica.
Alla crisi ormai irreversibile del sistema scolastico internazionale, gruppi sempre più diffusi di genitori, educatori, insegnanti, cercano di opporre (anche in Italia) non tanto una sterile protesta, quanto piuttosto vere e proprie realtà sperimentali nelle quali poter finalmente superare i disastri che la cultura educativa autoritaria e permissiva (due facce della stessa medaglia) hanno prodotto, particolarmente, in questi ultimi decenni (Cfr.: www.educazionelibertaria.org).
Questa aria nuova (che idealmente si ricollega a una tradizione storica importante e anticipatrice di queste idee) da semplice e isolata testimonianza, va sempre più diffondendosi pur tra le maglie soffocanti della realtà dominante. Il sistema scolastico è imploso e non riesce più a garantire, nonostante la resistenza e la tenacia di molti insegnanti, quegli spazi di creatività e di autonomia indispensabili per poter compiere un’azione educativa antiautoritaria.
Questi “semi sotto la neve” si diffondono e aspettano di germogliare trasformandosi in vere e proprie esperienze concrete, a disposizione di quanti ritengono che l’infanzia e l’adolescenza meritino di essere lasciate libere di mettere in luce quell’infinità di espressioni e quelle ricchezze di cui sono portatrici.
Il primo dovere infatti di una scuola è quello di alimentare una passione per l’apprendimento (non sacrificarla o mutilarla come invece avviene) e non addestrare i bambini e i ragazzi con lo scopo di superare i test e gli esami finali. Si tratta in sostanza di dare spazio a quell’educazione incidentale di cui Paul Goodman ha così ben sintetizzato: “Ai bambini non bisogna insegnare, bensì permettere di scoprire”, più che ascoltarli sulle giuste risposte che ci attendiamo da loro, stimolarli a porre nuove domande. Invece di alimentare sistematicamente la competizione tra di loro, stimoliamoli a competere con loro stessi che è il modo migliore per imparare.
Questa educazione ad essere non significa ovviamente dare per acquisito un dato punto di partenza (genetico) e pensare solo al suo sviluppo, quanto, piuttosto, presupporre in ogni fase dello sviluppo evolutivo individuale, l’emergere libero della sua autentica natura. Quindi è educare ad essere in un processo continuo che produce la propria diversità come specificità.
Il ruolo dell’insegnante non è quello dell’esperto che conosce le risposte, ma quello della guida e mentore che conosce delle domande da porre. L’enfasi non va dunque posta tanto nelle conoscenze da trasmettere, assorbire e rigurgitare, quanto sull’esperienza da condividere e sui significati che potrebbe generare. L’insegnante apprende dal bambino e si trasforma con lui attraverso la relazione dialogica e con la mediazione dell’ambiente, non trasmette un insieme di dati acquisiti ma un rapporto con la vita come divenire e con la natura nella quale esistiamo.
Al posto della pedagogia del risultato l’enfasi è posta sull’educazione libertaria.

 


Memoria e storia:
alcune riflessioni

di Franco Bertolucci

Il potere ci ha abituato alla manipolazione della memoria e a imponenti processi di annullamento della stessa.

Oblio e memoria sono due termini inscindibili, il cui costante intreccio è parte integrante degli individui e della società. Sia l’oblio, che la memoria, sono fenomeni naturali ma possono essere anche indotti artificialmente. Il potere, nelle sue diverse sfaccettature, ci ha abituato non solo alla manipolazione della memoria ma anche a imponenti processi di annullamento della stessa. Pertanto, coltivare il ricordo è un esercizio necessario per non farci omologare e soprattutto per non perdere parte della propria coscienza di sé. Per gli anarchici, ma potremmo allargare il campo a tutte le persone di buona volontà e di principi rispettosi delle libertà individuali e collettive, ci sono date ed eventi che non si possono dimenticare, sia per un dovere sociale nei confronti delle comunità dei «sofferenti», sia per un riconoscimento di chi ha sacrificato la propria vita alla causa della libertà e della giustizia sociale.
La storia dei movimenti politici e sociali fin dal loro sorgere è stata scandita dal ricordo di date e anniversari che hanno formato intere generazioni di rivoluzionari. Gli internazionalisti di tutto il mondo per decenni conservarono gelosamente la memoria del 18 marzo, anniversario della Comune di Parigi e il 1° maggio venne consacrato dai lavoratori alla memoria dei Martiri di Chicago e alla rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro. Per gli anarchici altre date segnarono il loro lungo cammino nella storia: dal 13 ottobre 1909, data della fucilazione di Francisco Ferrer y Guardia, all’8 gennaio 1911 giorno della scomparsa di Pietro Gori, fino al fatidico 19 luglio 1936, quando in Spagna un gruppo di generali volendo soffocare la libertà e la repubblica scatenò una delle più feroci guerre civili dell’epoca contemporanea, causando migliaia di vittime e distruggendo un intero Paese. Una data questa che per gli anarchici ha significato, invece, uno spartiacque nella loro storia, un evento, quello della guerra civile, dove si infranse contro il muro dei totalitarismi il sogno di una rivoluzione libertaria che si credeva ineludibile.
Nel Secondo dopoguerra il controllo della memoria e della storia ha assunto per il potere politico ed economico, con tutte le sue forme di dominio, un valore strategico di primaria importanza supportato in questo dallo sviluppo tecnologico e dalla diffusione dei mass media.
L’uso pubblico della storia e del suo calendario è diventato oramai un affare di Stato. Per legge vengono decretate le date storiche su cui fondare l’identità della nazione, in Italia come in molti paesi del pianeta. Ad esempio nel nostro Paese, con la legge n. 56 del 4 maggio 2007 si è istituito il «Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo» e la scelta è caduta sul 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani. Questa scelta da un punto di vista storico è piena di contraddizioni e anche di amnesie. Sicuramente ha giocato un ruolo nella scelta la banalizzazione e la semplificazione che è stata fatta negli ultimi due decenni di quella stagione, spesso definita impropriamente, con un’efficace sintesi, come la stagione degli «anni di piombo». L’uso politico e pubblico di questa data «istituzionalizzata» da parte delle attuali classi dirigenti ha evidentemente una funzione di «indottrinamento» nei confronti delle nuove generazioni. Ben altri significati avrebbe avuto la scelta del «12 dicembre 1969», data della strage di Piazza Fontana a Milano e dell’inizio della strategia della tensione, ma così non è stato.
Se la storia e la memoria delle comunità umane «non è altro che il presente che prende coscienza del suo passato» (Sartre) allora dobbiamo convenire sul fatto che da parte delle istituzioni ci sia una naturale propensione a «strumentalizzare» e «stravolgere» la storia al fine di giustificare per «ragion di Stato» le proprie scelte politiche: come non interpretare in tal senso la lunga stagione delle «leggi d’emergenza» per fatti relativi al terrorismo, alla violenza e al dissenso politico degli anni Sessanta e Settanta? Oggi, dunque, la lotta per la memoria contro l’oblio indotto e i calendari istituzionalizzati è importante e apre nuovi scenari.
In questo contesto alcune storie biografiche e alcune date rimangono fondamentali per gli anarchici di oggi, come il 15 dicembre 1969 (morte di Giuseppe Pinelli) e il 7 maggio 1972 (morte di Franco Serantini). Grazie a molti «anonimi cittadini» la memoria di Pinelli come quella di Serantini non si è persa, resiste e risorge, come un fiume carsico, sui muri delle città, nelle canzoni, nei teatri, nei libri e nelle pagine web e dei giornali indipendenti, come quelle di «A»; vive nei cuori delle donne e degli uomini che continuano a credere e a battersi per gli ideali di giustizia sociale e libertà, per un mondo rispettoso dell’ambiente e degli altri esseri viventi.
Ecco perché l’anniversario di «A» – rivista che dedica molte pagine alla storia e alla memoria degli anarchici –, è parte integrante e importante della storia dell’anarchismo degli ultimi decenni del Novecento e oggi ha un significato particolare che si può riassumere con le parole di Luigi Fabbri scritte a Max Nettlau il 9 maggio 1933: «Le memorie di un passato, che ebbe tanta luce, sono pure un rifugio pel nostro spirito turbato dalle visioni del presente; e giovano a rianimare la speranza nell’avvenire».

continua...