rivista anarchica
anno 40 n. 358
dicembre 2010-gennaio 2011


72 scritti...
che palle!

 

Perché l’Italia mi fa schifo

di Giorgio Barberis

Non tutto è perduto, comunque vale la pena di lottare.

Partiamo dall’inizio, ossia dal titolo di questa breve riflessione. Eccessivo? Provocatorio? Forse. Ma io mi ci ritrovo molto. E non credo di essere il solo.
Difficile prefigurare uno scenario più cupo. Difficile anche scegliere su quale meschinità focalizzare l’attenzione, essendo il catalogo praticamente infinito. Vogliamo parlare di Cossiga, celebrato apologeta del massacro di piazza, defunto con il suo piccone e i suoi misteri, o ci soffermiamo invece sugli intricati passaggi dell’eterna crisi di governo? Sulle case di Montecarlo dei cosiddetti moralizzatori oppure sui puerili giochi estivi di quei monellacci che costituiscono lo stato maggiore della Lega Nord? Un Paese davvero strano, il nostro.
Per giorni e giorni fiumi di inchiostro stigmatizzano il lancio di un fumogeno verso un leader sindacale, in quella che una volta si concepiva come la festa dei lavoratori. Ma in pochi si interrogano sulle ragioni profonde di questo gesto. E ancora di meno sono coloro che si stupiscono nel vedere quella stessa festa presidiata da centinaia di questurini. Intanto fa proseliti la dottrina Marchionne, il nuovo profeta della devastazione sociale, che distrugge in un lampo diritti guadagnati con decenni di lotte, e per giunta ha la sfacciataggine di invocare “la fine del conflitto tra padroni e operai”. Facile dirlo per chi guadagna almeno cinquecento volte di più di chi sta in basso, e magari si sente pure in dovere di ringraziare per le poche briciole che gli arrivano. Un quaquaraquà che per ventura siede in parlamento, fedele pasdaran del berlusconismo, arriva a dire che è del tutto lecito prostituirsi per la carriera politica. Mentre il sultano satireggia indisturbato, con buona pace di una destra che sa essere ora bigotta, quando si tratta di difendere i sacri valori della famiglia tradizionale, ora libertina, quando invece sono in questione i privilegi di un Potere, più che mai al di sopra di tutto. E noi libertari sotto scacco con che diritto osiamo protestare, visto che la libertà dell’individuo è principio indiscutibile? Siamo forse diventati dei moralisti? E dunque eccoci servita la peggiore delle mignottocrazie, con l’avvallo di un conformismo trasgressivo di massa, e la graduale riduzione all’afasia di chi ancora è capace di una qualche forma di pensiero critico. Del resto, i pochi che cercano di fare qualcosa nella direzione giusta vengono rapidamente tolti di mezzo, come è accaduto al sindaco di Pollica, e come temo accadrà in futuro a molte persone di buona volontà.
Con spazi sempre più ridotti per una politica diversa, presa a schiaffi da turbobipolarismi mediatici, dalla ricerca di salvifici uomini del destino, dal gossip e dalle bassezze di una stampa incline a solleticare i pruriti piccolo-borghesi di un pubblico annoiato. Mentre si riapre la caccia al Rom, le camicie verdi non si curano nemmeno più di velare il loro stomachevole razzismo, e quasi nessuno ha la forza o lo spazio per dire che gli eccessi securitari sono sempre controproducenti, che le abissali ineguaglianze che ci tolgono dignità e respiro non sono affatto un dato naturale, e che, come spesso amo ricordare citando Balzac, la rassegnazione è un suicidio quotidiano.
Si scorge, qua e là, solo qualche piccolo pertugio. Qualche brandello di libero pensiero e di azione autenticamente solidale, segno che non tutto è perduto. Che comunque vale la pena lottare. Teniamoci ben stretto l’urlo, lo sdegno, la ricerca di una condivisione piena, il bisogno di trovare un senso, insieme agli altri; insieme a tutte/i coloro che hanno dentro la stessa inesauribile sete di giustizia e verità. L’espatrio non è mica l’unica via che ci è rimasta!

 


Fabrizio i leskero ovi rom

ot Giorgio Bezzecchi

Prengjargjum Fabrizio po jek dive silalo i suslo, sar vajk andu Milano, angle ot Camera del Lavoro, po stighe kaj pe gjal andre.
Hine urado kun roba ot sena, jek roba kali i retikani, i civlepe sukar vasu keri slike, vasu “Anime salve”. hari ala i hari tempo,phenu ke lako keru,po romane “khorakhane”. Gjav nasat po ufficio kun gagjo so keri manza buti, Maurizio Pagani, kaj alo manza i pheni manghe ke hilo sukar kaj ov vakeri vasu roma.
Andu ufficio citinu lil so pisini po romane, i vale sunu giso, suno buth ricja, tinanupe. Posle savo dive jku pal Fabrizio andu leskero studjo, sukar vakeri manza, lacjo gagjo, vakeri sukar vasu roma, prengjari romen, vakeri vasu roma sar jek cjacjo rom, sar na sungjum vakeri vasu roma nindar ot kada keru buti sar Esperto di Etnie Nomadi. Gjav avri i sunupe sar ti vakergjum kun jek baro rom, ke na sungjum nindar, ma so phurane manghe da tiknoro vekerne.
Fabrizio hine prjatli ot roma i ot kon hine pase lende ot dugo.kame mislini kaj po svecer po presentazjone ot “Anime salve”, Fabrizio kangja mande i Maurizio Pagani po hal svecer kaj hine buth importanti gene. Meni i Maurizio, sakon po rici so murinle keri vasu “Khorakhane” , besame po jek rik i misliname samo vasu hal i pii, gage po mende jkene buth, Fabrizio i Dori prastene vajk gi mende, ame hame i na jkame po gage. Fabrizio hine gjoke, skivo, mislinave meni, saj su dova leske injeme milo,na pe kerame phare. Hine jek rici ke kerame samo me i Fabrizio, persu Maurizio, kada pe alacjame vasu keri po romane “Khorakhane”, pjame lace.
I onda na ascjovave leske palan........

Fabrizio e il suo essere rom

Ho conosciuto Fabrizio in una giornata fredda e umida, come è frequente a Milano,di fronte alla Camera del lavoro,sulla gradinata d’ingresso.
Era vestito con abiti di scena, un vestito scuro e formale, intento ad assumere posture adatte per la produzione di fotografie, probabilmente, per “Anime Salve”. Poco tempo e poche parole, confermo la mia disponibilità per l’incarico proposto, tradurrò in romani chib la sua canzone,”Khorakhane”. Rientro in ufficio con il mio collega, Maurizio Pagani, che mi ha accompagnato e ha partecipato all’incontro con Fabrizio, che mi evidenzia l’importanza dell’attenzione dimostrata per il popolo stigmatizzato, i rom, da parte di Fabrizio.
In ufficio leggo il testo da tradurre e subito “sento” uscire dal testo una forza e una rabbia particolare, un’attenzione nelle parole unica, sofferenza e apartheid aleggiano nell’aria, sensazioni e pulsioni mi fanno rabbrividire. Dopo pochi giorni rivedo Fabrizio nel suo studio, ha nei miei confronti un'attenzione particolare, mi “vizia” e parla dei rom con cognizione di causa, conosce in modo approfondito i rom, mi accorgo di avere di fronte un pozzo di cultura e mi sento trascinare in una discussione sui rom ad un livello da me mai percepito nella mia lunga attività professionale di Esperto di etnie nomadi. Esco dall’incontro con la sensazione di aver discusso con un baro rom, un saggio, che non ho mai avuto il piacere di incontrare, di cui gli anziani rom mi parlavano da bambino.
Fabrizio era un amico dei Rom, ma anche di chi stava da molto tempo vicino a loro. Voglio ricordare che la sera della presentazione a Milano di “Anime salve”, Fabrizio invitò me e Maurizio Pagani ad una cena a cui erano presenti molte personalità del mondo della cultura e della musica. Io e Maurizio, che avevamo seguito ognuno per la propria parte l’incarico che Fabrizio mi diede per la traduzione di “Khorakhanè”, sedevamo in disparte dedicandoci in verità più al cibo e alle bevande depositate sulla tavola che agli sguardi furtivi che scivolavano da un tavolo all’altro. Fabrizio e così anche Dori, più di una volta si sedettero a conversare con noi al nostro tavolo e così, ben presto, ci trovammo, nostro malgrado, al centro dell’attenzione generale, senza per questo tralasciare l’impegno verso gli squisiti piatti che seguitavano ad essere depositati davanti a noi.
Fabrizio era così, schivo per natura o almeno così appariva a me e forse per questo si era in un qualche modo avvicinato a noi due che non cercavamo d’imporre la nostra presenza’, come allora, capitava a tutti i rom. C’era una cosa che tuttavia accomunava solo me e Fabrizio e non Maurizio, nei lunghi incontri e nelle chiacchierate che precedevano o seguivano le richieste di traduzione di Khorakhanè o di conoscenza del ”mio” mondo ovvero, le dolci bevute.
E a quel tempo nemmeno io rimanevo indietro…

(traduzione dal romanès di Giorgio Bezzecchi)

 

 


«Mussolini è un bucaiolo
che manda la gente
a letto senza cena...»*

di Giorgio Sacchetti

Si pensi all’essenza profonda dell’antifascismo anarchico definita da Errico Malatesta.

Dall’antifascismo popolare esistenziale a quello di azione, dall’antagonismo sociale alla rete cospirativa, alle culture ed alle sociabilità libertarie, oltre il carcere, l’esilio, il confino e le persecuzioni: gli anarchici italiani hanno combattuto la trentennale guerra civile europea da postazioni di prima fila. “Insuscettibili di ravvedimento” per dirla con il bel titolo della biografia di Alfonso Failla; protagonisti di imprese disperate e condivise con Gino Lucetti, Michele Schirru e Angelo Sbardellotto; fra i primi ad accorrere in armi nella Spagna del ’36, per partecipare all’ultima Rivoluzione. Arditi del Popolo nel 1921-’22 e partigiani nel 1943-’45: sono due esperienze di lotta armata dagli opposti esiti in parte assimilabili per matrice ideale; un filone comune di ispirazione risorgimentale / insurrezionale / combattentistico funge ogni volta da contenitore per una pluralità di componenti sociali e politiche; di queste gli anarchici sono parte, una fra tante, autonoma originale e, nel primo caso, determinante.
E c’è anche un prezioso contributo teorico da preservare, un originale punto di vista interpretativo sui fascismi delineato in tempo reale. Ben oltre l’incredibile duratura fortuna storiografica della concetto di “Controrivoluzione preventiva” coniato da Luigi Fabbri. Si pensi all’essenza profonda dell’antifascismo anarchico definita da Errico Malatesta («Umanità Nova», 8 settembre 1921, Guerra civile):

“…Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per assicurare la vittoria della causa nostra, che è la causa del bene di tutti…”
Si pensi all’apporto di quel filone storiografico libertario che solo di recente si è potuto valorizzare. Ad esempio il “Mussolini in camicia” di Armando Borghi (“Mussolini Red and Black”) era stato uno dei pochi libri attraverso i quali l’altra Italia, quella di minoranza, aveva potuto farsi conoscere negli Stati Uniti. Era stato un modo per aprire gli occhi ad una comunità che ormai aveva rimosso significati e memoria della vicenda Sacco e Vanzetti; un libro sugli stati d’animo del “popolo deportato”, ossia degli italiani che si avviavano a diventare post-fascisti. Anche le analisi di Camillo Berneri e, più tardi, di Pier Carlo Masini, studiosi militanti e testimoni eccellenti della loro epoca, sono ascrivibili al medesimo canone interpretativo. Le loro elaborazioni si accomunano per l’originale approccio multidisciplinare, per un tentativo di comprendere la personalità del dittatore fuori dagli schemi angusti ed esclusivi delle categorie ideologiche (l’intuizione psicologica berneriana ne è una riprova evidente).

* Prefettura di Firenze, gennaio 1942, causale provvedimento ammonizione a carico di Cesare Parenti, bracciante anarchico, nato nel 1887 a Brozzi (Toscana), ivi residente. Fonte ACS, CPC, busta 3731.

 

 


Radio libere
e logiche di mercato

di Giucas Falchetto – Patchinko (Radio Bandita)

La breve stagione delle radio libere terminò con il loro progressivo adeguarsi alle logiche di mercato.

Pochi fenomeni testimoniano la voglia di emancipazione di un’intera generazione come l’esplosione delle radio libere degli anni 70. Attrezzature minime, la propria voce e qualche disco bastavano allora per trasmettere, su una base territoriale limitata spesso al proprio quartiere o condominio, in assoluta libertà. Poter comunicare senza mediazioni, scegliere autonomamente le proprie fonti d’informazione, dopo decenni di monopolio statale, fu una rivoluzione copernicana che nel giro di pochissimo tempo cambiò il volto dei mezzi di comunicazione. I tentativi da parte del Governo di limitare i danni, cercando invano di sequestrare le prime emittenti, si scontrarono con una legislazione imprecisa e carente, nella quale non era difficile trovare scappatoie. Fu all’accusa di istigazione al terrorismo che si dovette ricorrere, nel 1977 per chiudere, manu militari, la bolognese Radio Alice, forse la più libera (e quindi pericolosa) delle radio libere: nessuna redazione, nessuna limitazione a ciò che si poteva dire o fare in onda.
La breve stagione delle radio libere tuttavia terminò con il loro progressivo adeguarsi alle logiche di mercato. Investitori privati intuirono il potenziale del nuovo soggetto e le radio libere divennero “radio private”. Nel giro di pochi anni un solo gruppo industriale (la Fininvest di Berlusconi, ça va sans dire) divenne padrone incontrastato di un vero e proprio oligopolio radiotelevisivo. La legge Mammì del 1990 sancì questa situazione, imponendo regole pensate su misura delle ormai grandi radio private, che si lanciarono all’accaparramento delle frequenze. Oggi non è più possibile dare vita ad un’emittente radiofonica via etere senza disporre di grandi capitali, a meno di non occupare illegalmente una frequenza. Alcune di quelle storiche esperienze hanno resistito e continuano a trasmettere, per esempio Radio Popolare a Milano, Radio Onda d’Urto a Brescia , Radio Onda Rossa a Roma ecc.
Fu la comunità hacker e dei mediattivisti a rendersi conto che l’esperienza delle radio libere poteva proseguire attraverso internet. Per dar vita a una Web Radio bastano un PC e una cuffia con microfono, una normale connessione internet e qualche conoscenza tecnica. Il vantaggio rispetto al passato è la possibilità di essere ascoltati anche dall’altra parte del mondo, anche se il numero di contatti è limitato alla banda disponibile e l’uso del PC non è diffuso come quello della radio tradizionale. In Italia la prima è Radio Cybernet da Catania, nel 1997, seguita da lì a poco da molte altre esperienze spontanee e dalle prime radio commerciali.
Ma è dopo le contestazioni di Seattle e poi di Genova (radio GAP) che il fenomeno si allarga; che si trattasse di collettivi libertari, come nel caso di Radio Bandita, di agitatori culturali (S8 Radio, Radio Owatta) o ancora di esperienze estemporanee, personali e naif erano le radio libere del nuovo millennio.

 


Ho un sogno

di Lalli

Questi ultimi anni mi sembrano un unico giorno ombra.

28 agosto 1963
Pezzi di carta che volano,
scatolette vuote,
un foglio,
con annotato qualche verso di una canzone,
sollevato, insieme alla polvere,
dal vento tiepido dell’imbrunire,
una cannuccia, un pane,
un fazzoletto ricamato,
nient’altro,
di quel mare di persone,
che si è fermato lì,
per ascoltare l’uomo che li aveva chiamati
per raccontare un sogno,
“… Sedersi alla stessa tavola,
e mangiare, tutti insieme
…”,
proprio come su quel mare d’erba, quel giorno
Dove sono andati tutti i fiori,
gli occhiali, i cappelli,
le camicie sudate,
le gonne stazzonate,
le scarpe scolorite,
le suole consumate,
le divise stracciate,
le voci, le canzoni.
Io, bambina,
corro a comprare il libro,
i calzini corti,
il caldo che mi scoppia sulla faccia.
Avevo undici anni e mi sedevo lì in cima, in un punto preciso sulla “riva”, a guardare le luci di Asti che la brezza del tempo di vendemmia e l’avvicinarsi della notte facevano brillare, brillare, e poi più niente, e poi di nuovo. Luci in pena, come me, che mi sembravano un filo di perle al collo dell’orizzonte.
A Torino, tempo diverso, tempo di pressanza industriale.
Un pomeriggio si catapulta nella I A un ragazzo, capelli biondastri e mani da pianista, bello come il sole. Dice di uscire, ché la scuola è occupata, è stato deciso dall’assemblea del mattino, collettivi permanenti.
Finalmente! La città si colora e comincia a scorrere col fiume. Viali e corsi immensi da conoscere, nel freddo e nel sole, dove camminare con tutti i fratelli e le sorelle del mondo. Ecco, una mancanza in meno, una città più rotonda, come una collina, e verderossiccia, come i colori che a casa mi piacciono di più, quelli dell’autunno.
Una marea lenta e forte, un silenzio a salire verso i giorni, una marea sorridente e potente che ti prende il cuore e la commozione degli occhi, con i passi lì in mezzo alla strada e la testa e il corpo già tutti nel futuro vicino. “Ci troviamo ora di fronte al fatto che domani è già oggi...”
Ho impiegato anni ad imparare a camminare di nuovo sui marciapiedi.
Poi, la musica. Cantare, di me e di un paese divenuto invisibile, muto e sperduto. Ecco, un’altra mancanza in meno, suoni, parole e poetiche a soffiare fra i denti, a danzare nelle piazze, strade, bar, teatri, centri sociali, circoli arci, bocciofile, università, per la Palestina e la ex Jugoslavia, contro il razzismo, le torture, la pena di morte, per acquistare carrozzelle, adottare un bambino a distanza, e via e via. Ma è il posto del cantare, quel solo posto dentro, dove mi sento davvero libera e a casa, il paese al quale tornare senza solchi da attraversare.
Questi ultimi anni mi sembrano un unico giorno ombra e, ciò nonostante, un lungo giorno aquila, che ci accompagna ancora a cercare casa, lavoro, amore.
I presidenti, i politici, pensano che la terra, gli animali e le persone siano di loro proprietà, ma le nostre anime sono vigili e aperte, anche se ferite.
Poi, un altro tempo ancora, e la memoria di un giorno aquila potrebbe avere ragione delle violenze, le prepotenze, le ingiustizie, le prigioni, le guerre.

E, come d’incanto,
eccoli di nuovo lì, tutti i fiori,
gli occhiali, i cappellini,
le camicie sudate,
le gonne stazzonate,
le scarpe scolorite,
le suole consumate,
le divise stracciate,
le voci, le canzoni.

 


Il guanto di ferro del potere

di Lorenzo Guadagnucci

Oggi sappiamo tutto di quelle violenze di polizia.

Tutto era cominciato qualche mese prima, nel gennaio 2001 a Porto Alegre, col primo Forum sociale mondiale. O forse due anni prima, nel novembre 1999, con la contestazione a Seattle dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’origine più autentica potrebbe risalire però al primo gennaio 1994, giorno dell’insurrezione zapatista in Chiapas. Qualcuno va ancora più indietro, al 1992, con le contro manifestazioni per il cinquecentenario della “conquista che non scoprì l’America” (secondo la definizione di Eduardo Galeano).
Comunque sia, nel luglio 2001 a Genova si diedero appuntamento movimenti sociali e singole persone venute da tutto il mondo e mosse da una visione radicalmente alternativa a quella dominante da decenni. Chiedevano la cancellazione del debito imposto ai paesi del Sud, denunciavano un’economia imperniata sulla finanza e l’insostenibile predazione delle risorse naturali, volevano proclamare l’acqua come bene comune, indicavano il diritto delle persone a muoversi da un paese all’altro. Negavano ogni legittimità, sia formale sia morale, al vertice detto G8.
Ma su Genova calò il guanto di ferro del potere. Da decenni non si vedeva in Europa un’azione di polizia così brutale e plateale. Si trattava di criminalizzare un movimento in grande espansione. Era necessario mettere fuori gioco le sue stesse idee, squalificandole come espressione di sterile e teppistico estremismo. Quest’operazione è riuscita. Il movimento è stato denigrato e criminalizzato proprio nella delicata fase del radicamento popolare.
Oggi sappiamo tutto di quelle violenze di polizia. È stato negato un processo per l’omicidio di Carlo Giuliani, ma nel tribunale di Genova è accaduto un fatto storico: la condanna di oltre 70 agenti per le violenze nella scuola Diaz e nella caserma-carcere di Bolzaneto. Fra i condannati figurano altissimi dirigenti di polizia, addirittura il capo dell’Anticrimine e il coordinatore dei servizi segreti. Mai la magistratura era arrivata tanto in alto.
Ma niente è cambiato. Il potere politico del momento – maggioranza e opposizione parlamentare unite – ha confermato piena fiducia ai dirigenti condannati, rinnegando gli stessi canoni etici delle democrazie liberali. Alla fine, sul piatto della bilancia restano le incredibili “condanne esemplari” a un pugno di manifestanti accusati nientemeno che di “devastazione e saccheggio”, un reato che prevede otto anni di pena minima. È il “prezzo” pagato, dicono cinicamente in tribunale, per fare i processi ai poliziotti. È il punto più basso toccato dalla democrazia italiana in questi anni.

Genova, luglio 2001

 


Una strage
lunga quarant’anni

di Luciano Lanza

Le figure di Pinelli e Valpreda: se non “A”, chi deve ricordarle?

febbraio 1971
Milano un anno dopo
(servizio fotografico sugli scontri a Milano fra polizia e manifestanti il 12 dicembre 1970)

La zia Rachele
Intervista con la principale testimone dell’alibi di Valpreda

marzo
Sei anarchico dunque terrorista
Il 22 marzo inizierà il processo contro i compagni Braschi, Della Savia, Faccioli, Pulsinelli

La Croce Nera Anarchica
Lo stato contro Valpreda

Intervista con l’avvocato Calvi

aprile
Valpreda è innocente
L’istruttoria contro Valpreda non è solo sostanzialmente assurda, politicamente pazzesca e giuridicamente inconsistente, ma anche formalmente contraddittoria e illogica

maggio
Gli imputati accusano
Mentre il giornale va in macchina, il processo agli anarchici sta diventando, com’è giusto, il processo degli anarchici e il castello d’accuse costruito dal giudice Amati sta crollando: i poliziotti «non ricordano», il metronotte non riconosce Pulsinelli, la «superteste» della polizia viene smascherata come calunniatrice e mitomane recidiva…

giugno
Dopo due anni di carcere preventivo
Fuori tutti i compagni
Alle Assise di Milano una sentenza ambigua che sottintende l’innocenza degli imputati, ne condanna tre, ne assolve tre e li scarcera tutti

Preparati dai fascisti di Treviso gli attentati del 1969?
Arrestati i neo-nazisti Ventura, Freda e Trinco «per attività sovversiva, in realtà perché implicati negli attentati fascisti del 1969 attribuiti ai soliti anarchici

luglio-agosto
«Non l’abbiamo ucciso noi»
La ricusazione del giudice Biotti e la denuncia per omicidio sporta dalla vedova Pinelli hanno riportato sulle prime pagine dei quotidiani il caso del ferroviere anarchico

Aiutare Valpreda

settembre-ottobre
Valpreda è innocente liberiamo Valpreda

Azzeccagarbugli
L’archiviazione «democratica» del caso Pinelli (gestione Bianchi d’Espinosa) viene stupidamente intralciata dalle iniziative inconsulte dell’avvocato Lener (detto dai colleghi «’o picciotto» cioè il mafioso), difensore del commissario Calabresi

novembre
La strage continua
«Suicidato» anche l’avvocato Ambrosini

Avviso di reato per gli assassini di Pinelli

La sinistra parlamentare, dopo aver contrattato per due anni con i padroni la sua acquiescenza, si appresta ora ad utilizzare anche il processo Valpreda per i suoi giochi di potere

dicembre 1971-gennaio 1972
Processiamo lo stato
Nell’ambito della campagna preparatoria del processo per la strage di stato, gli anarchici milanesi hanno realizzato due importanti manifestazioni: un’assemblea al teatro Lirico il quattro dicembre e una presenza articolata in piazza e nei quartieri il dodici dicembre. Una testimonianza di lotta davanti alla questura il 15 dicembre

Valpreda è innocente liberiamo Valpreda
parla l’ultimo latitante

Intervista con Enrico Di Cola: «I carabinieri mi minacciarono di morte: volevano che accusassi Valpreda»

Questi sono i titoli del primo anno di A rivista anarchica sulle bombe che hanno segnato il 1969: 25 aprile, 9 agosto, 12 dicembre. Bombe che hanno cambiato il corso della storia italiana e, nel piccolo, la vita dei giovani (allora) che hanno dato vita a quella rivista. In ogni numero di A c’è almeno un articolo. E A si occupa della strage di stato e dei due attentati precedenti con un taglio fino allora inusuale nel movimento anarchico. Il primo numero parte con un’intervista alla zia di Pietro Valpreda, testimone importante per l’alibi di Valpreda e che i giudici cercheranno in ogni modo di intimorire, confondere… senza riuscirci. Segue, qualche numero dopo, l’intervista all’avvocato difensore di Valpreda, Guido Calvi. Le interviste non sono, ovviamente, una novità giornalistica, ma lo sono per la pubblicistica anarchica di quegli anni.
E se i primi tre anni di A sono «necessariamente» segnati da una presenza continua per la liberazione di Pietro Valpreda e gli altri compagni del circolo 22 marzo di Roma anche dopo la liberazione, il 30 dicembre 1972, di Valpreda, Roberto Gargamelli ed Emilio Borghese l’attenzione non diminuisce. La rivista insiste sull’assassinio di Giuseppe Pinelli, contesta le varie versioni ufficiali, mette in evidenza le contraddizioni della sentenza del giudice Gerardo D’Ambrosio che sforna la famosa e ridicolmente macabra tesi «del malore attivo» di Giuseppe Pinelli. Insomma, nel 1975 un giudice considerato di sinistra (e si devono sempre ricordare i maneggi e i ricatti del Pci sulla vicenda piazza Fontana) salva, da un punto di vista unicamente giudiziario, capra e cavoli: Pinelli non si è suicidato e i poliziotti, Luigi Calabresi in testa, non sono colpevoli.
E scorrendo tutte le annate di A si capisce quanta attenzione viene dedicata alla «strage di stato» soprattutto quando il trascorrere del tempo appanna le figure di Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Un’attenzione necessaria perché quegli attentati voluti da politici, servizi segreti, apparati importanti dello stato hanno messo a nudo «la criminalità del potere». E questo se non lo mette in chiaro una rivista anarchica chi lo deve fare?

 

 


Piccoli archivi crescono

di Luigi Balsamini

È cresciuta nel movimento anarchico la sensibilità per la conservazione della propria memoria.

A partire dagli anni settanta è cresciuta nel movimento anarchico la sensibilità verso la conservazione della propria memoria. Ciò non tanto per spirito di antiquariato o di collezionismo, ma per la consapevolezza che la memoria, nell’aiutare a ripercorrere la storia delle lotte antiautoritarie e dei tentativi di liberazione dallo sfruttamento, aiuti anche a riconoscere e costruire la propria identità politica.
Da allora si è assistito alla nascita di istituti che si dedicano alla tutela e valorizzazione delle carte del movimento. Questi centri si sono presto trovati ad affrontare le difficoltà connesse alle alterne vicende dei gruppi promotori: alcuni sono scomparsi nel riflusso degli anni ottanta, altri sono sopravvissuti fino a tempi recenti, altri ancora sono oggi attivi e in crescita. Una distinzione, invero non nettissima, si può tracciare tra istituti protagonisti attivi delle stesse vicende di cui raccolgono testimonianza, che si presentano principalmente come laboratori di attività politica a dimensione militante, e altri che hanno invece maturato negli anni una vocazione scientifica e, lungi dal privilegiare una fruizione interna al gruppo, vanno offrendo un servizio pubblico, liberamente fruibile a tutti, aperto al confronto e gestito con criteri professionalmente validi.
L’attuale panorama italiano presenta caratteristiche di notevole vivacità, grazie ad archivi, biblioteche e centri di documentazione diffusi su gran parte del territorio, anche se purtroppo non ancora interconnessi da solide strategie cooperative (per una descrizione dei principali istituti si veda il dossier su «A», n. 351). Tutti si muovono in una duplice direzione, combinando due aspetti strettamente connessi: sviluppare una coscienza critica del proprio passato e agire da stimolo per il presente. La salvaguardia della memoria storica è infatti solo il primo momento dell’elaborazione culturale, poiché se è vero che la raccolta delle testimonianze aiuta a trascendere la fragilità della memoria umana, i documenti rimarrebbero muti se non fossero rielaborati, attualizzati e inseriti in un orizzonte di senso contemporaneo. Con l’accortezza che questo lavoro non si traduca nell’astrarre l’oggetto dal contesto, cioè nell’isolare l’anarchismo, e le sue tracce documentarie, dalla complessità storica e sociale in cui è immerso.
Recentemente, ma in alcuni casi ormai da diversi anni, questi centri hanno impostato l’offerta di un vero e proprio servizio bibliotecario e archivistico, rendendo disponibile alla loro utenza un complesso integrato di risorse e competenze. Hanno allargato gli orari di apertura al pubblico, stipulato convenzioni con gli enti locali, avviato l’inventariazione dei fondi e la catalogazione del posseduto bibliografico secondo standard internazionali, condividendo i dati all’interno del Servizio bibliotecario nazionale o in altri cataloghi collettivi. La presenza continuativa di queste strutture, il radicamento nel tessuto sociale e l’interesse suscitato dalle loro proposte culturali, testimoniano con ogni probabilità l’esistenza di un diffuso livello di attenzione per le riflessioni di segno libertario, proveniente da un ambito ben più vasto dell’angusta cerchia di “militanti”.

 


Erano anni di vinile
e di nastro magnetico

di Marco Pandin

A raccontarle oggi sembrano storie d’altri tempi: il posto fisso, l’erba piantata nell’orto dietro casa, le autoriduzioni ai concerti, …

È stato grazie ad Elis che ho letto la A/Rivista. Stava in bella mostra nella vetrina di Utopia 2, piccola libreria anarchica veneziana dove non serviva la scusa degli acquazzoni improvvisi per trovare rifugio sulla strada tra piazzale Roma e l’università.
Era il novembre 1976, diciannove anni compiuti da un mese, già annidato in testa un sentimento di insofferenza inspiegabile a parole per le cose cosiddette normali, quelle ritenute più adatte ai ragazzi della mia età, fossero la musica o le letture o la rassegnazione per la caserma. Suonavo in un gruppo che faceva della roba proprio strana e indefinibile, e bazzicavo da tempo in una radio libera. A me piacevano Area e Stormy Six, gli Henry Cow e John Fahey, che a buona parte dei miei amici facevano schifo. Ero andato proprio fuori di testa per i poeti beat e l’Antologia di Spoon River, quando le letture più diffuse erano Tex e Zagor e Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori. Alla visita di leva, unico tra tutti i miei amici e compagni di scuola, avevo presentato una dichiarazione di obiezione di coscienza che mi avrebbe causato parecchi fastidi.
Avevo diciannove anni, dicevo. Mestre e Venezia e Marghera mi stavano strette addosso, e avrei voluto per me una vita perennemente in viaggio, non importa dove: il Salento, Londra, Capo Nord, la California, o le porte del cosmo che stanno su in Germania. E invece ho mollato l’università dopo un anno e cinque soli esami perché non avevo un soldo e non avevo il coraggio di chiederne ai miei, così sono andato a lavorare. Ho fatto un po’ di tutto, dal manovale in fabbrica al fattorino in giro senza orario, al cassiere in un supermercato. Un giorno mi offrono di partecipare a un corso: quattro mesi tra Milano e Roma, se passi le selezioni ti prendono in prova e poi se gli vai bene ti danno il posto fisso. A raccontarle oggi sembrano storie d’altri tempi: il posto fisso, l’erba piantata nell’orto dietro casa, le autoriduzioni ai concerti, le manifestazioni con le bandiere dove tutt’attorno a te c’erano altri ragazzi, a migliaia. Insieme a urlare, a ridere, a fare casino. Erano anni lenti, senza telefonini, senza internet, senza soldi. La televisione non la guardavamo praticamente mai: la vita era in strada, in piazza. Erano anni di vinile e nastro magnetico. Anni di ciclostile e scritte veloci sui muri con lo spray, di teatro precario e concerti raccogliticci.
C’è stato poi il punk, e col punk l’accorgersi che certe idee sballate in testa ti potevano venire anche se abitavi tra i palazzoni grigi e l’erba malata alla periferia dell’impero, anche se eri costretto a nascondere per buona parte della giornata la tua creatività dietro una tuta da lavoro. Ho smesso di suonare e ho messo in piedi una fanzine, poi una piccola etichetta discografica indipendente.
La mia benzina è stata la curiosità, la mia difficoltà il mantenermi in equilibrio tra una voglia inesauribile di far parte di qualcosa e il bisogno continuo di rivendicare la mia indipendenza e la mia libertà. Avrei voluto fare così tante cose. Mi sono innamorato, ho messo su famiglia. Ho viaggiato poco, a meno che non ci si metta a contare i chilometri fatti ogni giorno da pendolare. Ho ascoltato tanta musica, purtroppo molto meno di quanto avrei desiderato, e dal 1984 ho l’opportunità di condividerla e discuterne con i lettori di A.
Avrei voluto riempire questa pagina di nomi, raccontare di tutte le strette di mano e di tutti gli abbracci di questi anni, degli incontri che ci sono stati con il pretesto di questo giornale. Ma è un po’ come avere disegnata sul palmo della mano una linea del destino che all’improvviso cambia strada. Succede sempre, anche adesso. Avrei voluto parlarvi dei Franti e dei Crass, degli anarchici cinesi e dei compagni friulani, del Backdoor di Torino e del CSC di Schio, delle serate in cattiva compagnia di Fabio Santin, Roberto Bartoli e Alessio Lega. Avrei voluto raccontarvi una bella storia. E invece riesco a malapena a trattenere una montagna di assenze che mi sta franando addosso.
Ieri sera mi ha telefonato un vecchio compagno inglese, andrò a trovarlo presto con mia figlia. Sto pensando di ricominciare a suonare.

continua...