rivista anarchica
anno 41 n. 360
marzo 2011


Russia

Parole di sangue
di Sara Bicchierini

Fare il giornalista nella Federazione Russa è uno dei mestieri più rischiosi. Campagne di criminalizzazione, attentati, omicidi sono all’ordine del giorno. Il potere non ammette critiche.

 

Nella Federazione Russa da tempo ha iniziato a diffondersi un grande fermento in vista delle prossime elezioni politiche che si svolgeranno alla fine del 2011 e delle presidenziali del 2012. Al centro di dibattiti, critiche, supposizioni e aspettative emerge la controversa figura di Vladimir Putin, due volte Primo Ministro (1999 e 2008) e due volte Presidente (2000 e 2004), promotore della lotta al terrorismo ceceno e ormai simbolo di una Russia post-sovietica lanciata nel dorato mondo del business ma ancora scossa da forti disuguaglianze sociali e dalle violazioni dei diritti umani.
I dati relativi alle limitazioni alla libertà di stampa in Russia sono tristemente noti, così come alcuni nomi dei tanti, troppi giornalisti uccisi o brutalmente aggrediti per il loro lavoro, primo tra tutti quello di Anna Politkovksaja. Secondo il “Press Freedom Index 2010” di Reporters Sans Frontières, che ha analizzato la situazione di 178 Stati, il Paese si troverebbe al 140° posto per le minacce alla libertà di stampa.
A dar conto della pericolosità del sistema mediatico russo non contribuisce solo il numero di perdite in termine di vite umane, ma anche la percentuale di casi irrisolti legati all’omicidio dei giornalisti, sintomo di un totale disinteresse sull’argomento da parte delle autorità o, spesso, di un coinvolgimento delle stesse autorità politiche nel mettere a tacere chi realizza inchieste scomode: alla fine del 2009, il 94% dei casi di omicidio avvenuti dal 1992 ai danni di operatori dei media era ancora completamente irrisolto. Nel 3% dei casi si poteva parlare di “giustizia sommaria” – intendendo con quest’espressione l’arresto di alcuni dei responsabili, solitamente non i mandanti ma gli esecutori materiali – e solo nel restante 3% l’indagine aveva portato all’individuazione di tutti i colpevoli.

Pulizia etnica

La doppia faccia della politica russa, che afferma di avere a cuore il rispetto dei diritti umani e della libertà di parola di fronte alle telecamere e negli incontri ufficiali all’estero, appare chiaramente nelle immagini rubate durante le manifestazioni (siano quelle a difesa del bosco di Chimki o il Gay Pride) che si discostano dalle linee guida del Governo, quando gli agenti seguono alla lettera gli ordini del Cremlino colpendo indistintamente i presenti. Si vede anche nelle manifestazioni nazionaliste e xenofobe in cui la polizia, con malcelata indifferenza, lascia massacrare dalla folla cittadini caucasici, incolpevoli capri espiatori di un risentimento alimentato con cura da politici e media. I movimenti che organizzano queste proteste sono molto vicini agli ideali patriottici del partito di maggioranza Russia Unita (Edinaja Rossija) e trovano una giustificazione anche nei rastrellamenti delle campagne antiterrorismo – che sanno tanto di pulizia etnica – portate avanti dal Governo.
Oggi l’indipendenza nell’esposizione dei fatti, seppur difesa a parole dalle autorità, viene in realtà tacciata di antipatriottismo, e perciò punita come avveniva in epoca sovietica con la dissidenza. Nel 2011, i dissidenti russi sono i sostenitori dei partiti di opposizione, i difensori dei diritti umani, e infine i giornalisti e gli altri intellettuali non allineati con la volontà del Governo. Nella Russia del terzo millennio è possibile citare Adolf Hitler e fare apologia del nazismo, ma non parlare dell’esistenza del Partito Nazional-bolscevico guidato dallo scrittore Eduard Limonov.
Controllare l’informazione è diventato molto più facile da quando gli oligarchi “ribelli” sgraditi a Putin sono stati costretti al silenzio e i loro imperi mediatici sono tornati nelle mani dello Stato. I mandati di cattura nei confronti dei magnati Berezovskij e Gusinskij, fuggiti all’estero, così come l’arresto esemplare del giovane e potente Chodorkovskij, tuttora in prigione, hanno portato alla confisca delle loro enormi holding nel campo dell’informazione. I mass media indipendenti del panorama nazionale russo oggi sono pochissimi, hanno una scarsa copertura geografica e sono schiacciati dal monopolio statale. Il pluralismo dell’informazione è inesistente, e chi ancora dà prova di indipendenza – come il quotidiano «Novaja Gazeta», Radio Echo Moskvy o Radio Svoboda – sa di scherzare con il fuoco.
Nel tentativo di difendere il suo operato da ogni critica, Putin ha messo in atto una strategia per assicurarsi il controllo dell’informazione, e quindi l’appoggio dell’opinione pubblica, che è andata dalla censura sulle fallimentari operazioni di riscatto al Teatro Dubrovka (2002) al divieto di pubblicare immagini del massacro della Scuola n.1 di Beslan (2004). Non potendo descrivere in questo articolo tutte le strategie di lotta alla libertà di stampa messe in atto dal 1999, la scelta è caduta sul primo caso in cui si è manifestata la nuova politica di controllo dell’informazione voluta da Putin, la Seconda Guerra Cecena.

La guerra dell’informazione

La Seconda Guerra Cecena (1999-2009) può essere considerata una delle più “ermetiche” della storia contemporanea sia per la mancanza di dati certi che per la ben orchestrata censura realizzata dal Governo di Vladimir Putin. La strategia di news management messa in atto dal Cremlino come azione di contropropaganda contro il flusso di notizie proveniente dall’Occidente ha portato infatti alla formazione di un vuoto informativo sul conflitto, privando i cittadini del loro diritto ad informarsi ed essere informati. Il rivoluzionamento delle norme sul sistema mediatico (2000) e l’applicazione della “verticale del potere” di Putin al mondo dell’informazione, ha fatto sì che i mass media siano passati quasi totalmente sotto il controllo del Governo russo: da un lato, i maggiori organi d’informazione si sono collocati all’interno della sfera d’azione statale; dall’altro, attraverso una massiccia riorganizzazione istituzionale, hanno fatto la comparsa nei vari organi politici regolatori agguerriti siloviki (funzionari dei servizi segreti, della polizia e dell’esercito), portavoce del volere di Putin e spietati esecutori di ogni suo ordine. È stato creato un gruppo intergovernativo per il coordinamento dell’informazione, formato, tra l’altro, da rappresentanti dei Ministeri della Difesa, dell’Interno, degli Esteri, della Giustizia e delle Situazioni d’Emergenza, mentre il Centro per le Pubbliche Relazioni del FSB – l’erede del KGB – si è convertito nella principale fonte di informazione a cui i media hanno potuto attingere.
L’atteggiamento delle autorità verso la stampa è cambiato drasticamente rispetto a quello della Prima Guerra Cecena: non è stato più possibile intervistare i soldati russi feriti, che denunciavano le inefficienze e la corruzione, né i leader della resistenza cecena, né seguire la fuga dei guerriglieri; non si è più potuto mostrare le debolezze del sistema politico-militare né le perdite subite; l’accesso alle zone sotto il controllo degli indipendentisti è stato vietato sia ai giornalisti russi che a quelli stranieri, mentre le informazioni venivano sapientemente scelte, filtrate e “confezionate” per i media da appositi addetti stampa del Cremlino. Era possibile muoversi solo in convogli speciali, diretti verso mete decise dalle autorità e con accompagnatori ufficiali. Costretti a immaginare gli scontri da lontano e sospesi nella realtà fittizia di un viaggio organizzato, i giornalisti non hanno più potuto mostrare “l’altro lato” della guerra, quello dei guerriglieri che lottano per l’indipendenza e delle violenze compiute ai danni della popolazione civile. Le restrizioni nelle norme di accreditamento e nell’accesso alle zone di combattimento per i giornalisti hanno contribuito a creare una sorta di censura alla fonte, mentre l’ingolfamento mediatico prodotto dalle dichiarazioni ufficiali – numerosissime e non verificabili – dell’esercito russo hanno impedito alla più larga fetta dell’opinione pubblica di comprendere cosa stesse succedendo realmente nel sud del Caucaso.
Il modo in cui la Seconda Guerra Cecena è stata presentata attraverso i mezzi d’informazione non si distacca da quello adottato per trattare i principali conflitti combattuti negli ultimi anni a livello internazionale, a partire dalla Guerra del Golfo del ‘91. Si tratta di guerre dell’informazione, informacionnye vojny, che attraverso campagne di “marketing” della guerra riescono a raggiungere e raccogliere il favore dell’opinione pubblica.
In una narrazione sempre più funzionale alle strategie politiche nazionali e distaccata dalla realtà di chi uccide e chi viene ucciso, la guerra asimmetrica tra il potente esercito della Federazione Russa e il disorganizzato apparato delle cellule indipendentiste cecene ha subito una specie di “spettacolarizzazione”, diventando sulla TV russa una rappresentazione semplificata della lotta tra il Bene Assoluto e il Male Assoluto, personificata nella contrapposizione tra un eroe che lottava per difendere la Patria (Vladimir Putin) e degli antieroi che inspiegabilmente la volevano distruggere (Basaev, Khattab e gli altri capi indipendentisti). Con l’intensificarsi e il prolungarsi degli scontri, il piccolo schermo ha cominciato a demonizzare l’intero popolo ceceno: una martellante propaganda contro i “culi neri” (cernožopy) ceceni, “banditi” e “terroristi”, ha convinto a schierarsi a favore dell’intervento armato anche quelle voci che tanto si erano opposte alla Prima Guerra Cecena, giornalisti inclusi. La lotta dei ribelli non era più quella di “Davide contro Golia” come nel conflitto precedente. Grazie al completo silenzio sui metodi di “pacificazione” dei servizi federali russi in Cecenia (stupri, omicidi, processi sommari, sequestri, torture), si è delineata all’interno del Paese l’idea di una guerra “giusta”.
Ma la “guerra invisibile” cecena, celebrata sul piccolo schermo senza mostrare spargimento di sangue né vittime, romanzata e dichiarata ufficialmente finita già nel 2001, si trascina ancora oggi nel confuso calderone del Caucaso. Si trascina anche per le strade del resto della Russia, dove la campagna di demonizzazione del popolo ceceno ha portato allo sviluppo di una pericolosa Caucasofobia tra i cittadini. Lo aveva capito Stanislav Markelov, l’avvocato che difendeva le vittime cecene degli abusi dei soldati federali, freddato nel 2009 insieme alla giornalista Anastasija Baburova. Quello che ha scritto nel suo ultimo articolo, la sera prima di essere assassinato, è un’impietosa fotografia dei nostri tempi. Grazie al delirio patriottico tutto può essere cambiato, si può modificare la storia, abbellire la realtà, dire che il bianco è nero e viceversa.
Dietro il bel film del nazionalismo si nasconde semplicemente la nostra paura di guardare la verità negli occhi e di esigere una risposta da quelli... che hanno gettato il proprio popolo nella miseria e nell’ingiustizia. Il patriottismo è la maschera dell’ingiustizia che subiamo. È l’apparenza sotto la quale nascondiamo la nostra mancanza di coraggio.

Sara Bicchierini