rivista anarchica
anno 41 n. 360
marzo 2011


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

La chanson alla corte
di sua maestà il Jazz: Claude Nougaro

All’incrocio fra il classicismo della triade Brassens/Brel/Ferré e la post-modernità di Gainsbourg, con la pura forza delle braccia, come un minatore, s’è scavato il suo posto Claude Nougaro.

Claude Nougaro è nato a Tolosa nel 1929 ed è morto a Parigi nel 2004. Attivo sulle scene dai primi anni ’60 ha scritto centinaia di canzoni, registrato una trentina di dischi e dato innumerevoli concerti. Ha unito assai bene la cura per il testo poetico, tipica della canzone francofona classica, al jazz e ad una generale attenzione per le ritmiche afroamericane. Percussionista della parola, sperimentatore di arditi giochi verbali, però amante del genere popolare (il suo primo obiettivo, giunto nella capitale, fu quello di lavorare per Edith Piaf) ha scelto la non facile strada della continua sperimentazione di suoni e arrangiamenti, pur restando fedele a uno stile di scrittura preciso e riconoscibile. Le sue tematiche fondamentali sono esistenziali e sentimentali, ma il suo interesse per le musiche del mondo ha reso il suo sguardo sensibile a quelle situazioni di estrema povertà e dolore dal quale quelle musiche provengono.

Questa borgata è una villa, che si chiama bidone
bidone, bidone, bidonville viverci dentro è una sola
le ragazze con la pelle dolce la vendono per mangiare
nelle camere ci sono animali, che per dormire tocca spostare
i bambini giocano ma il pallone è una latta di sardine, Bi-don.
Dammi la mano, compagno
tu che vieni dal paese dove essere umani è bello
dammi la mano compagno
ho cinque dita anch’io, sembreremmo uguali.

(Bidonville, 1965)

La sua vita non è stata rose e fiori, l’infanzia fu solitaria, accudito dai nonni nel quartiere popolare di Tolosa. La solitudine lo condusse alla poesia e la poesia lo spinse dapprima a dire i suoi testi, più che cantarli. La sua carriera – partita in sordina, con una lunga gavetta – fu più volte sul punto di spezzarsi. Al principio (1963) per un pauroso incidente automobilistico che lo immobilizzò per quasi un anno

Il mio destino ha un volto nuovo
dal giorno in cui ho svoltato male
ho chiuso gli occhi su un muro di pietra
per riaprirli su di un’infermiera.

(Pauvre Nougaro, 1963)

Un’altra volta per il rifiuto della sua stessa etichetta discografica: dopo decenni di successi, a fronte di un calo di vendite all’inizio degli anni ’80, rescisse il contratto. Nougaro, battagliero e vitale come sempre, vendette casa a Parigi e si recò a New York, dove produsse il disco che nel 1987 lo rilanciò in testa alle classifiche e verso la definitiva consacrazione.
Celebrato e seguito da un pubblico numerosissimo, Nougaro è morto scrivendo e registrando fino all’ultimo respiro, lasciando dietro di sé un disco incompiuto e l’impressione di un artista ancora pieno di cose da dire. Uno dei mostri sacri della straordinaria generazione di autori e interpreti che ha fatto la storia della canzone, forse quello che, più di ogni altro, ha tentato di far parlare la canzone al tempo presente.
Georges Brassens fu uno straordinario menestrello, le sue filastrocche libertarie sono favole medievali, il suo raffinato linguaggio è oltre ogni cronologia, le melodie sono così orecchiabili che paiono essere sempre esistite. Jacques Brel, altro gigante, è tutto impegnato a incollare il corpo al verbo, a far sudare ogni parola, a trovare un gesto teatrale per ogni melodia. Ferré è un artista titanico che dialoga con Rimbaud e con Beethoven e, da vertiginose altezze, getta strali sui piccoli e grandi dittatori del suo tempo. Gainsbourg è invece scivolato già troppo avanti, non nutre più interesse per il contenuto, la sua carica di dinamite, la sua critica in musica e parole, la piazza dentro il linguaggio stesso della canzone (che in fondo detesta, come genere minore). La sua provocazione non ha fiducia… nessuna palingenesi è attesa: solo l’estetica delle rovine. Nessun amore lo consola: solo sensualità esausta.
In quest’Olimpo della canzone francofona, all’incrocio fra il classicismo della triade Brassens/Brel/Ferré e la post-modernità di Gainsbourg, con la pura forza delle braccia, come un minatore, s’è scavato il suo posto Claude Nougaro.
Nougaro è il cantore moderno, Nougaro si preoccupa di rinnovare lingua e linguaggio, di accordare le clessidre Brassensiane e la pendola a cucù di Brel alla pulsazione degli orologi da polso al quarzo.
Per fare questo ha rinnovato la forma, giocando tale rinnovamento – oltre che sul piano del vocabolario – sulla ritmica, riuscendo nella difficile impresa di far aderire la lingua di Voltaire, con tutte le sue sfumature, ricchezze, giochi di parole, metafore visionarie, consistenza letteraria, al jazz… anzi per dirla con l’autore, a Sua Maesta il Jazz!
Il jazz è per Nougaro la prima ribellione e il primo turbamento adolescenziale che arriva con la liberazione a metà degli anni ’40. È il suono con il quale si oppone al gusto dei genitori, entrambi musicisti di professione: il padre baritono di fama, la madre pianista e insegnante di musica abborrivano quella che definivano la “danza dell’orso”.
L’infanzia di Claude fu un po’ sballottata fra una tourné al seguito dei genitori e lunghe noiose attese a casa dei nonni, nel popolarissimo quartiere Minimes della sua città natale, evocato anni dopo in una splendida canzone

Quant’è lontano il mio paese…
talvolta in fondo a me si rianima
l’acqua verde del canale del Midi
e i mattoni rossi dei Minimes
O mio paese, o Tolosa… o Tolosa.
Riprendo la strada per la scuola
la mia cartella è gonfia di pugni in faccia (…)
Un torrente di ciottoli rotola nel tuo accento
la tua violenza ribolle anche nelle tue violette
ci si tratta da stronzi, appena ci si tratta. (…)

Rivedo il tuo pavé, mia città guascona
il tuo marciapiede sventrato dai tubi del gas
sarà la Spagna che ti spinge nel fianco le corna
o ti tieni nelle viscere una bolla di jazz?
Ecco il tuo Campidoglio… e qui mi fermo
i tenori raffreddati tremavano sotto le ventose
sento ancora l’eco della voce di papà
era a quei tempi il mio solo cantante di blues (…)

(Toulouse, 1967)

Brassens, Brel e Ferré, consci delle specificità della canzone, la elevano a forma letteraria, poesia orale. La loro arte ignora uno dei linguaggi cardine del ‘900, il cinema: i tre mostri sacri si sarebbero espressi allo stesso modo se il cinema non fosse esistito. Per Nougaro invece è essenziale.
Nougaro compie il suo rinnovamento utilizzando per la canzone un linguaggio eminentemente cinematografico. Le sue parole evocano un caleidoscopio di immagini, messe costantemente in movimento dalla musica che le accompagna. Un gioco di continui campi e controcampi movimenta i suoi testi.

L’insegna al neon all’entrata del bugigattolo
rischiara la camera scura
di un bagliore rosso
mentre scende la sera
e in questa camera rossa
c’è un grosso tipo nero
con una ragazza rossa
in un vestito di seta nera.

(Le rouge et le noir, 1962)

L’immaginario di queste canzoni pesca continuamente dalla mitologia hollywoodiana gangster, boxeur, Alcatraz e Sing Sing, ma questi riferimenti sono solo il lato più evidente di uno stile tutto fatto di piano-sequenza e soggettive, di montaggi e dissolvenze.

Qual è il film, la scena,
che devi ripetere di nuovo
e in quale niente ora s’illumina
il neon del tuo nome, Marilyn?

Quanta fatica nel cuore
se hai preferito l’al di là
all’acqua azzurra della piscina, Marilyn?

Il talento a peso d’oro
e la bellezza in technicolor
e il sole californiano
niente serve a niente
se si guarda dietro alla scenografia.

Gira male, girano storti
sogni, felicità e amore
la speranza come un rotocalco vecchio
è scivolata fra le tue dita, Marilyn?

La nostra vita non è che un provino…
per chi, perché? Dio solo lo sa
tu che conosci la fine del film,
dimmi Marylin, è con un bacio?

(Chanson pour Marilyn, 1963)

Ma alla fine tutte le preoccupazioni di Nougaro – benché espresse con un linguaggio e dei riferimenti propri del suo e del nostro tempo – si centrano sui temi eterni: la vita e la morte, la trascendenza, la solitudine, la speranza, la disperazione. Questo è l’elemento di continuità che lo tiene legato a una tradizione poetica. Feroce difensore della propria assoluta indipendenza di giudizio, Nougaro rifugge da ogni idea di impegno politico con un qualsivoglia gruppo organizzato, ma riesce ad esprimere benissimo le istanze di rivoluzione interiore in una canzone dedicata alle rivolte del maggio ’68.
Su uno scatenato intreccio ritmico di percussioni Nougaro declama questo testo, che quarant’anni dopo piacerà tanto alla generazione dei rapper neri da essere ripreso nel 2008 da Abd Al Malik… e questo credo ci dica bene che il ponte gettato da Nougaro fra la poesia è la modernità è ancora in piedi.

Il casco del pavé non si muove di un ciglio
la Senna nuovamente ruscella acqua benedetta
il vento ha disperso le ceneri di Bendit
e ognuno è rincasato nella sua automobile.
Ho ritrovato il passo sul glabro asfalto
il passo di uccello in gabbia con le piume incatramate
scavando l’evasione di un usignolo titano
per assicurarmi la Sagra della primavera.
Di questi tempi però ho la gola un po acre
la Sagra della primavera suona come un massacro
ma ogni giorno a venire farà più bello il grido
perché forse covo un Igor Stravinski
Maggio, maggio, maggio, Parigi maggio.

E ti prendo Parigi, con le braccia piene di zelo
sul mio petto stringo le tue pietrate
depongo l’aurora sulle Tuileries
come una rosa sul letto di una damigella.
Sorvolo a mezzogiorno i tuoi sei milioni di tipi
la tua vita fino all’orlo mi riempie le trippe
ingoio i tuoi quartieri colore di piccione
intelligenza bianca e grigia religione.
Intravedo, passando, Hugo nella Sorbona
l’odore d’acqua vite dei vecchi confetti
ai bordi della sera, fra il santo ed il barbone
mi tuffo verso un ponte su cui sta uno studente
Maggio, maggio, maggio, Parigi maggio.

Il ragazzo spossato si strappava i capelli
il ragazzo indignato si stracciava le vesti
“compagni, la mia pelle è pure una divisa?
e dentro, il mio stesso cuore, è un vecchio arnese?
quando con la mia bella amica danziamo assieme
siamo noi che danziamo o è il mondo che trema?
non faccio per sputare nel piatto in cui mangio
ma solo per sapere se l’uomo ha ragione o meno
se devo ancora indossare questa divisa stretta
con la sua manica destra, con la sua manica sinistra
le pallide preghiere, gli inni sanguinari
la passione del futuro, la cronica amnesia”
Maggio, maggio, maggio, Parigi maggio.

È così che parlò senza una parola il ragazzo
fra il fiume antico ed il fiume nuovo
in cui gli uomini annegati navigano nelle auto
è così senza una parola parlò il ragazzo.
E io, uccello in gabbia, sgranocchiatore di amare croste
verso il mio cielo interiore ho rituffato la strada
il lungo tunnel grondava sulla schiena dei muri
aspirato in fondo da una boccata d’azzurro
laggiù brilla la pace, all’incrocio dei poli
e la spada della primavera che consacra le spalle
cinguettate ai piccioni di sollevare il giorno
e noi altri stridiamo, ponti levatoi dell’amore.

(Paris mai, 1969).

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it