rivista anarchica
anno 41 n. 360
marzo 2011


Francesco Saverio Merlino

Il socialismo liberal-libertario
di Gianpietro Berti

L'originale contributo di uno dei pensatori ancora oggi più stimolanti tra anarchismo, socialismo e liberalismo.

 

La figura di Francesco Saverio Merlino costituisce ancora oggi un impressionante ed emblematico enigma storiografico. Pur essendo stato uno dei maggiori pensatori della storia del socialismo e, senz’altro, il maggior pensatore che possa annoverare il socialismo italiano (escludendo, naturalmente, coloro che appartengono alla tradizione comunista come Labriola, Gramsci e altri), egli è tutt’ora in buona parte incompreso e misconosciuto. È vero che questa stessa sorte è toccata ad altri filosofi, storici, sociologi, economisti, ma il caso di Merlino è particolarmente significativo, qualora si consideri che la sua riflessione è stata ampiamente confermata dal precipuo fallimento del più grande esperimento sociale del ventesimo secolo, vale a dire la realizzazione comunista e dalla sua catastrofe. Poiché si è trattato di una débâcle inequivocabile e irreversibile e poiché il problema delle sue cause costituisce il tema ricorrente che da trent’anni a questa parte assilla gli studiosi del fenomeno, come è possibile che ancora oggi permanga questo sostanziale silenzio attorno all’opera merliniana? Un’opera, ricordiamolo, che forse più di tutte aveva preconizzato l’esatto fallimento del “socialismo reale”, delineandone, con un secolo di anticipo, i motivi che lo hanno portato alla dissoluzione. Si possono dare, ovviamente, molte spiegazioni, ma quella più convincente è senz’altro da ravvisarsi nel fatto che accettare fino in fondo le tesi di Merlino significa riconoscere l’intrinseca “laicità” della loro critica, il che è quanto dire che chi sta ideologicamente a sinistra stenta con fatica a porsi completamente in una simile posizione perché essa comporta la rinuncia a qualsiasi rimedio radicale come risposta al radicale errore del marxismo: il socialismo di Merlino, in altri termini, non è un totalmente altro che si oppone al totalmente altro proposto dall’universo comunista (con tutte le sue varianti), ma una forma di etica laica e sociale implicante una visione della trasformazione sociale molto complessa e difficilmente accettabile per le numerose implicazioni relativistiche e liberali che la sostanziano.
Cercheremo qui, molto brevemente, di fissare tre punti fondamentali del pensiero merliniano: la critica del marxismo, la delineazione propositiva di un socialismo liberal-libertario, l’approdo relativista rifiutante l’unidirezionalità della storia con il conseguente mito del progresso.

Francesco Saverio Merlino

La critica del marxismo

Dopo Stirner, Proudhon e Bakunin, Merlino è il pensatore anarchico che, più di tutti, pone al vaglio di una disamina implacabile il lascito teorico di Marx. La peculiarità di Merlino consiste nel fatto che egli critica il comunista tedesco a partire dalla lettura del Capitale, e dunque da un approccio economico. Stirner aveva attaccato Marx sul piano filosofico, Proudhon sotto il profilo economico-politico-filosofico, Bakunin considerando l’aspetto ideologico-politico-strategico. Nessuno di questi tre autori aveva letto però il Capitale (Bakunin conosceva solo il I Libro, ma molto superficialmente). Merlino invece riprende le grandi direttive del pensiero anarchico a partire dall’analisi dell’opera maggiore del pensatore di Treviri. L’eccezionale contribuito merliniano consiste nel dimostrare che le indicazioni positive per la costruzione del socialismo delineate nell’opus magno marxiano (cioè l’implicita idea della pianificazione economica) sono l’esatto pendant della proposta politica della dittatura del proletariato: la pianificazione richiede la dittatura, a sua volta la dittatura non può reggersi senza pianificazione.
Questo rapporto organico-necessitante deriva, a giudizio di Merlino, dall’essenzialismo metodologico di Marx basato sull’astrazione determinata, cioè sulla creazione di un modello euristico volto a spiegare in modo esaustivo i fatti specifici della diversificazione del reale. Questo modello, che definisce il concreto come unità del molteplice, mentre risulta paradossale per la logica formale – perché la riduzione della molteplicità dei dati sensibili all’unità è il compito della conoscenza non già concreta, bensì astratta delle cose – è del tutto razionale per la logica dialettica. Il concetto dell’unità nel molteplice è possibile per il comunista tedesco qualora si riesca a cogliere la riproduzione del concreto nel pensiero, al fine di arrivare ad una coincidenza dell’astratto e del concreto attraverso la loro unità dialettica. Si tratta, in altri termini, di esporre i rapporti di produzione non nella loro nuda empiria, ma in quanto corrispondono alla loro più intima e presunta essenza. Con questo metodo il processo storico viene assunto come il presupposto di cui il capitale è il risultato, e però il capitale stesso viene indicato come punto di partenza per la corretta individuazione dei suoi presupposti storici. Così il concetto di astrazione determinata risulta fondamentale nell’analisi marxiana perché concilia il procedimento analitico con la necessità di ricostruire la totalità concreta della realtà storica. Grazie a questo procedimento fortemente hegeliano, che tende a far coincidere le categorie logiche con le determinazioni reali, a cogliere il tutto attraverso la mediazione delle parti, Marx è convinto di aver afferrato la legge economica del movimento della società moderna.
Di qui, a giudizio di Merlino, il conseguente essenzialismo marxiano teso all’eliminazione di tutte le “eccezioni” della vita economica, quali il possesso, la rendita, il monopolio, l’interesse. Per Marx tutto si riduce, in sostanza, alla legge del valore di scambio fondata sulla quantificazione del tempo di lavoro incorporato nelle merci e sancito dal contratto di lavoro tra capitalista e operaio, cioè tra capitale e forza lavoro. Così grazie a questo procedimento non sono affrontati i problemi sociologici, politici, storici, etnografici, etici, antropologici e tutta la questione del socialismo viene ridotta alla lotta tra capitalisti e operai. L’essenzialismo metodologico porta Marx a creare un modello teorico sciolto da ogni specificità storica, geografica, etnografica, culturale, cioè l’insieme delle differenze reali che determinano i diversi contesti storici. Il che è quanto dire che per Merlino l’essenzialismo economicista sottovaluta il problema della complessità, irriducibilità e irripetibilità del reale.
Lo stesso essenzialismo è intrinseco alla fallace teoria deterministica della caduta tendenziale del saggio di profitto, per la quale la crescente sproporzione fra l’aumento del capitale costante e la diminuzione del capitale variabile dovrebbe portare ad una progressiva accumulazione e centralizzazione dei mezzi di produzione e dei capitali nelle mani di pochi proprietari. Per Marx il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso perché la sua valorizzazione (il profitto) impone l’accrescimento illimitato della produzione, come fine a se stessa, mediante lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, ma questo sviluppo viene in conflitto con il fine ristretto che è la valorizzazione del capitale esistente. La reale contraddizione del sistema, in altri termini, è fra la potenza sociale, alla quale si eleva il capitale, e il potere privato del capitalista sulle condizioni sociali della produzione. Tale contraddizione è destinata a diventare sempre più stridente fino a portare alla dissoluzione del rapporto capitalistico. Di qui un’inarrestabile proletarizzazione generale con le creazione di un “esercito di riserva”, che determinerà una maggior offerta di forza-lavoro necessaria per comprimere i salari al minimo vitale, generando un antagonismo radicale fra proletariato e capitale. Come è noto, Marx afferma che, data la crescente sproporzione fra l’aumento del capitale costante e la diminuzione del capitale variabile, si giungerà inevitabilmente ad una progressiva accumulazione e centralizzazione dei mezzi di produzione e dei capitali nelle mani di pochi proprietari.
La critica di Merlino al determinismo marxiano è dunque decisiva. La rivoluzione socialista delineata dal comunista tedesco si delinea, infatti, come il semplice risultato delle contraddizioni del capitalismo. Avendo scoperto che una parte del tempo di lavoro dell’operaio è rubata dal capitalista, Marx strappa all’economia politica le sue armi e costruisce attorno a questo presupposto tutto il suo socialismo. Ne deriva una sorta di schizofrenia teoretica perché la critica marxiana, dopo aver sposato il socialismo all’economia politica classica, li costringe a far divorzio. Merlino pertanto intuisce la natura autentica del marxismo: l’essere cioè, al tempo stesso una pseudoteoria rivoluzionaria e una pseudoscienza, perché è una scienza quando non è una teoria rivoluzionaria, ed è una teoria rivoluzionaria quando non è una scienza. In conclusione, il carattere scientistico del Capitale sta in una sorta di essenzialismo metodologico, carico di fascino teologico ma incapace di reggere alla verifica specifica dei fatti concreti (come la storia si incaricherà puntualmente di dimostrare).
Secondo Merlino vi è un nesso inscindibile tra il determinismo storico e la dittatura del proletariato. L’idea della dittatura deriva dalla sottovalutazione del ruolo fondamentale del potere politico e delle connessioni tra questo e il potere economico. La concezione dittatoriale registra un fatto storico considerato inevitabile (la rivoluzione proletaria e l’avvento del comunismo), per cui viene eluso il problema di una scienza della politica socialista. Ne deriva una concezione mistificante, secondo cui la classe operaia, giunta al potere, si autosopprimerà come classe e con essa si estinguerà anche il suo potere dittatoriale. Il paradosso del semplicismo marxista contempla un’assurda concezione del suicidio della classe lavoratrice, qualcosa che non ha alcun riscontro nell’esperienza storica. Vi sarà invece l’avvento di una società gerarchica e totalitaria. I marxisti, infatti, concepiscono la realizzazione del socialismo come una grande compagnia industriale, con i suoi amministratori, divisi tra funzionari e semplici lavoratori. Questi ultimi saranno rimunerati non in denaro, ma in buoni di lavoro. La critica fondamentale di Merlino è rivolta alla dottrina marxiana della “fase di transizione”: da una parte Marx critica l’economia borghese ed attacca il regime capitalista; dall’altra adotta il bilancio del capitalista, dell’imprenditore. Ciò avviene perché, secondo Marx, non è possibile realizzare immediatamente il comunismo, vale a dire l’assetto societario compendiato nella formula “ognuno dà secondo le proprie forze e riceve secondo i propri bisogni”; bisogna invece accontentarsi del collettivismo. Non quindi ripartizione secondo i bisogni, ma secondo il quantum di lavoro prestato dall’individuo e misurato in rapporto al quantum di lavoro sociale. In definitiva, avverte Merlino, il comunismo o collettivismo marxista sarà lo status quo toltone il capitalista e aggiuntavi la burocrazia.

La delineazione propositiva di un socialismo liberal-libertario

Il socialismo merliniano si fonda innanzitutto sulla distinzione fra essenza e sistemi socialisti, affermata come decisiva per fare chiarezza epistemologica intorno al rapporto fra etica e scienza. Il proposito di Merlino è di arrivare ad un concetto del socialismo in sé, di un socialismo che sia indipendente dai sistemi socialisti per attuarlo. Si tratta di cogliere l’essenza del socialismo sottostante alla multiformità dei sistemi socialisti. La distinzione fra essenza e sistemi presenta delle analogie con la classica divisione humeano-weberiana tra giudizi di fatto e giudizi di valore, nel senso che l’essenza può essere intesa come un giudizio di valore, mentre i sistemi possono essere considerati una sorta di giudizi di fatto, in quanto mezzi sempre verificabili e rivedibili. Lo scopo è quello di svincolare l’essenza dai sistemi per dimostrare che il passaggio dall’essere al dover essere, dal livello conoscitivo-descrittivo al livello etico-normativo, può avvenire solo nella consapevolezza della non diretta inferibilità tra i due piani. Questa non inferibilità dei sistemi (giudizi di fatto) dall’essenza (giudizio di valore) porta Merlino fuori dal campo positivista.
Il socialismo deve essere il risultato di tentativi e di correzioni continue. Nella concezione merliniana questa completa laicizzazione dell’idea socialista deve coincidere con la sua essenza, la quale, però, non può essere racchiusa in una forma prestabilita perché il suo contenuto è un’etica. Il presupposto epistemologico di questa coniugazione fra socialismo ed etica deriva dalla definitiva consapevolezza dell’impossibilità, da parte del socialismo, di pervenire a formulare una concezione economica che sia allo stesso tempo una teoria della conoscenza scientifica e una teoria della trasformazione sociale. In altri termini, è un riconoscere che non esistono un’economia borghese o un’economia socialista, bensì un’unica scienza economica e che soltanto chiedendo lumi a questo sapere neutro è possibile, rispettando i limiti che esso inevitabilmente pone, immettere empiricamente nella società i princìpi della libertà e dell’uguaglianza.
Secondo Merlino il socialismo è una tendenza del genere umano e per conseguenza della storia; anzi esso, in quanto teoria, è la consapevolezza di questa tensione. Proprio perché il socialismo è solo una tendenza è necessario superare tutte le forme fino allora proposte (i sistemi) per arrivare ad un’idea universale, che a sua volta altro non è che una sintesi di tutta la storia della civiltà umana. Il socialismo, dunque, non è un’altra civiltà, un “totalmente altro” rispetto all’esistente: siamo, cioè, all’abbandono di ogni idea di rivoluzione e alla definitiva accettazione del riformismo. Il socialismo, infatti, deve contemplare il mantenimento della concorrenza, il possesso individuale, la molteplicità dei cambi, la mediazione della moneta e la differente rimunerazione dei lavori; non può delinearsi pertanto come abolizione delle classi.
Tuttavia Merlino non si appiattisce sull’esistente. Proprio la distinzione fra essenza e sistemi gli dà la possibilità di configurare la stessa essenza come una sorta di tensione utopica, mentre i sistemi hanno il compito di mediare con il reale. La prima costituisce l’ideale, la meta mai completamente raggiungibile della libertà e dell’uguaglianza, i secondi formano la traduzione teorico-pratica dei valori del socialismo nel divenire della storia e come tali fungono da tramite dinamico fra la deduzione mutevole e relativa del presente e gli obiettivi universali del futuro. Con questa distinzione Merlino tenta di sottrarre il socialismo, cioè il giudizio di valore, alla caducità storica per proiettare i suoi scopi oltre la contingenza del momento. Nessun sistema, infatti, può inverare completamente il socialismo, in quanto ciò significherebbe rendere prigioniero del giudizio di fatto il giudizio di valore. Si giunge così, grazie a questa interpretazione, all’acutissima conclusione che esistono dei sistemi che possono uccidere il socialismo. Merlino, infatti, delinea e anticipa quello che sarà l’esito catastrofico delle sue realizzazioni: Russia, Cina, Vietnam, Cambogia Corea, Cuba, ecc.
Non il progetto socio-economico può portare a compimento la coincidenza coerente e completa delle istanze della libertà e dell’uguaglianza, ma solo un senso etico della giustizia in grado di elevare i due termini in una sintesi superiore. È però una sintesi antinomica tra le ragioni dell’individuo e quelle della collettività, tra le istanze liberali e le istanze socialiste. Siamo qui, è doveroso sottolinearlo, alle vere origini del socialismo liberale che, dopo Proudhon, trova proprio in Merlino la sua prima formulazione concettuale. Senza alcun dubbio egli deve essere considerato il precursore di questa dottrina.
Nel socialismo liberale la giustizia è insieme retributiva e distributiva perché rappresenta l’individuo e la società. Queste due polarità costituiscono, al tempo stesso, una realtà antinomica e necessaria: da un lato non devono subire limitazioni di sorta, dall’altro non possono vivere di per se stessi. A livello ideologico essi esprimono, in campo economico, il soggettivismo edonistico dell’utilità marginale e, in campo etico, la responsabilità personale nella vita collettiva. In questa differenza dove l’individuo si fa carico dei doveri verso la società e la società riconosce all’individuo i suoi diritti inalienabili, sta il nocciolo speculativamente forte dell’incontro tra socialismo e libertà, tra diritti e doveri del singolo e diritti e doveri della collettività. Nel socialismo liberale di Merlino la preminenza della soggettività nell’etica e nell’economia, non significa però l’accettazione dell’individualismo metodologico perché egli rimane fermo ad una concezione durkheimiana della scienza sociale. A suo giudizio l’individualismo politico è incapace di far fronte alle istanze etiche della giustizia distributiva. Merlino accentua il concetto etico di giustizia perché ciò che deve unire l’individuo alla collettività deve scaturire da una consapevolezza morale, dato che la storia produce le condizioni della giustizia, ma non ne realizza il fine. Di conseguenza Merlino arriva alla formulazione del suo socialismo in chiave di socialismo giuridico perché l’idea di libertà e di uguaglianza non sono totalmente realizzabili. Egli ha la consapevolezza che non si può realizzare un’uguaglianza effettiva perché gli uomini sono irrimediabilmente diseguali e ancor più lo diventeranno a causa dello sviluppo economico. Si può solo dar seguito all’uguaglianza delle condizioni di partenza, il che equivale a dire che il socialismo di Merlino non supera i dettami del liberalismo democratico. Siccome non si può giungere ad un’uguaglianza materiale, si deve puntare sul sentimento di solidarietà. Il socialismo merliniano si situa così a metà strada tra una concezione liberale (preminenza dei diritti individuali) e una concezione libertaria (tentativo di convergenza armonica tra individuo e società). In definitiva, però, Merlino non esce dalla concezione della democrazia liberale, dato che rinuncia all’abolizione dello Stato, sostenendo la necessità di strutture istituzionali permanenti. Ugualmente riconosce l’impossibilità di abolire la logica fondamentale del capitalismo: il mercato.

Relativismo e socialismo

Il criterio epistemologico dell’ultima fase del pensiero di Merlino è dato dal radicale concetto di relatività, cioè dall’irreversibile constatazione che i valori sono soggetti alle forme funzionali della mutabilità storica, per cui anche la libertà e l’eguaglianza vanno intese in senso relativo. Portata alla sua estrema conseguenza, questa concezione indica l’abbandono definitivo del principio metafisico della libertà che costituisce il presupposto inverificabile, ma ideologicamente necessario, della visione libertaria del mondo. Per Merlino la libertà non è un attributo inerente alla persona umana, ma la somma di certe facoltà che una società, ad un certo momento, consente all’individuo. In altri termini, essa è solo espressione delle condizioni storiche, le quali possono essere in sé regressive o progressive; di conseguenza un concetto di libertà assoluta, incondizionata, è un’astrazione che non ha alcun valore pratico. Di qui la riduzione definitiva del rapporto tra coscienza e progetto, il profondo ridimensionamento degli ideali intesi quali leve del cambiamento. È così intaccata ogni idea di progresso lineare, in sintonia con il mutato clima culturale e scientifico aperto dalla teoria einsteiniana della relatività. Il socialismo finisce per essere semplicemente un sogno e tutto viene ricondotto nei termini di una manipolazione pratica del presente: la laicizzazione dell’ideologia giunge al suo approdo definitivo.
Date queste premesse, ne discende l’impossibilità di definire – e dunque di realizzare – una società liberata totalmente dal dominio, per il semplice fatto che le valenze stesse dell’idea di dominio, di libertà e di uguaglianza evaporano nel magma di un processo storico indefinito, entro il quale i contorni di una qualsiasi progettualità finiscono per perdere la loro pregnanza scientifica e ideale. Nella negazione radicale del finalismo storico, ogni idea rivoluzionaria diventa priva di senso proprio perché non ha senso l’idea stessa di un progetto da immettere volontariamente contro il corso agnostico della storia. Anche se si riconosce la necessità contingente della rivoluzione, non va mai dimenticato che la stessa forma violenta della trasformazione sociale è di ostacolo al progresso, e che l’umanità progredisce non in grazia delle rivoluzioni, ma a malgrado esse.
Ciò che spinge Merlino a questo drastico giudizio è il realismo storico, che qui diventa radicale relativismo sociologico, nel senso che i fatti vanno considerati nella loro storicità e nella loro irripetibilità. La concezione relativistica dà conforto al riformismo perché contempla una risposta pluralistica al problema sociale. Con quale logica si dovrebbe infatti accettare la via rivoluzionaria, quando questa, per definizione, esclude a priori tutte le altre? In conclusione, il riformismo si traduce nell’affermazione del valore irrinunciabile della società liberale quale base storica necessaria per ogni ulteriore avanzamento. Poiché tutto è relativo, non si può fondare la società con il ricorso ad alcun principio aprioristico, ma soltanto con gli adattamenti al retaggio particolaristico, il cui substrato peculiare rende impossibile uno sviluppo unitario, uniforme e lineare – e dunque tendenzialmente egualitario – della società. Ne discende che la giustizia assoluta non si potrà mai raggiungere perché non è possibile dare a tutti la stessa uguaglianza e lo stesso benessere. Ciò non significa, naturalmente, accettare l’orizzonte di un pessimismo qualunquista. Bisogna invece mantenere ferma la fede nel valore morale dell’idea di giustizia. Il relativismo, insomma, non deve implicare in alcun modo il giustificazionismo storicistico.
Il ridimensionamento del concetto di trasformazione radicale è reso evidente quando si affrontano i cardini fondamentali della società perché, ridotto alla sua essenza ultima, il problema centrale dell’economia è quello del valore, il problema centrale della politica è quello della rappresentanza, della delegazione delle funzioni. Ciò significa che vi è una sola soluzione: come per l’economia è necessario il mercato, così per la politica è necessaria la democrazia. La rinuncia ad abolire il valore, in economia, e ad abolire il potere in politica, apre il problema della gestione di queste due dimensioni in rapporto alle finalità socialiste.
In campo economico significa coniugare il socialismo con la razionalità impersonale del valore, che implica, a sua volta, il mantenimento della proprietà privata all’interno di una cooperazione generale dei mezzi di produzione e di scambio. Potranno sussistere le realtà economiche esistenti, quali la piccola proprietà contadina, e quelle attinenti all’artigianato e alla piccola industria, nel quadro di una razionalizzazione antimonopolistica del commercio.
In campo politico il problema della delega rimanda al mantenimento della democrazia. La dimensione politica della società nasce dalla necessità della coazione e del coadattamento, nonché dalla constatazione che la gerarchia sociale è inevitabile (perché gli individui sono diseguali). Per Merlino i vincoli sociali, cioè i costumi, le tradizioni, le esigenze della vita economica, tutto quello che porta alla formazione della famiglia e dell’associazione, è della stessa natura di ciò che porta alla libertà. Da questo punto di vista non ha più senso la distinzione anarchica fra Stato e non Stato, lo ha, invece, la distinzione fra Stato liberale e Stato non liberale, per cui la questione non è se lo Stato debba essere mantenuto, ma come deve essere costituito.
La convivenza della democrazia e del mercato implica la non riduzione formalistica del socialismo, cioè la sua non definitiva codificazione ideologica, la quale rimanda al problema della sua laicità, che, a sua volta, implica la continua invenzione di un pluralismo e di un multiformismo socioeconomico e sociopolitico. Il socialismo può anche essere una trasformazione radicale, ma solo nel senso di un cambiamento di prospettiva culturale, non nel senso di un totale cambiamento materiale della realtà. E ciò perché la realtà è una cosa, la società è un’altra: il sociale è soltanto in grado di riflettere il reale. Detto in altri termini, questo significa che il socialismo può mutare la società solo nella misura in cui gli è consentito di mutare la realtà. La visione realistica è quella che ritiene, appunto, che la realtà più di tanto non possa essere cambiata. Dunque il socialismo non può avere un fondamento ontologico proprio, appunto perché la società realizza solo quello che è possibile realizzare, dal momento che la realtà impone dei limiti oggettivi all’operare umano. Il fondamento ontologico del socialismo è dunque un fondamento indiretto-spontaneo, come cosa cioè che evidenzia le ragioni della collettività in quanto tale. Esso, comunque, non ha un’autonoma ragione politica; da ciò consegue la sua necessità di coniugarsi con la democrazia liberale, la cui caratteristica risiede, appunto, nel meditato compromesso con il reale. Da questa unione può nascere quella forma di anarchia possibile che altro non è che la realizzazione autentica della democrazia.

Gianpietro Berti

Relazione presentata al Convegno di Studi su Francesco Saverio Merlino, tenutosi a Imola (Bo) il 1° luglio 2000, promosso e organizzato dall’Associzione “Arti e Pensieri”. Gli atti della Giornata di studi sono stati pubblicati nel 2010 dalle Edizioni del Centro Studi Libertari “Camillo Di Sciullo” di Chieti con il titolo La fine del socialismo? Francesco Saverio Merlino e l’anarchia possibile, pagg. 314, € 15,00. Per informazioni e richieste: fab.pal@libero.it.