rivista anarchica
anno 41 n. 365
ottobre 2011


Sardegna / 2

In lotta contro la base militare
di Laura Gargiulo

Intervista ai compagni e alle compagne dell’Atobiu dei gruppi autogestiti per lo smantellamento del Poligono Interforze Salto di Quirra.

 

Come nasce l’Atobiu dei gruppi autogestiti per lo smantellamento del PISQ?
Atobiu è una parola sarda che significa – grossomodo – “incontro” ed è il nome che si è dato il coordinamento delle varie realtà e individui che si oppongono alla presenza del Poligono Militare. L’esigenza di coordinarsi nasce dalla volontà di costruire una azione comune tra persone fisicamente anche molto lontane tra loro e dal PISQ, ma accomunate dalle modalità di azione (esposte nella Piattaforma Organizzativa) e dall’obiettivo di arrivare allo smantellamento della Base di Quirra. È una esperienza che si inserisce in una storia ormai decennale di iniziative volte a dar vita ad una opposizione di base nel territorio interessato dal Poligono, una storia che ha conosciuto fasi di successo e di frustrazione, di aggregazione e di divisione….

Quale è il lavoro fatto da Atobiu sul territorio?
Lo scopo di Atobiu è promuovere il nascere nel territorio di gruppi di lotta autonomi e coordinati. Per raggiungere questo scopo si è cercato di attivare tutti i contatti che avevamo nelle diverse comunità dell’intorno del Poligono, organizzando localmente degli incontri volti ad entrare in contatto con persone sensibili al problema della presenza militare, ed esporre la Piattaforma di Atobiu. Atobiu supporta i gruppi locali rendendo disponibile un blog, materiale di propaganda (volantini, manifesti, cartoline), una mostra, e organizzando incontri e conferenze, oltre alle iniziative specifiche di lotta (presidi, assemblee pubbliche, volantinaggi, ecc.).

Quale è l’atteggiamento più diffuso tra le popolazioni locali verso la base? È cambiato col tempo?
La Base è una realtà ormai strutturata nel territorio: il suo sorgere ha espulso attività preesistenti ed ha creato una nuova economia parassitaria. Sono moltissime le persone che hanno un parente, una amico, un vicino di casa impiegato direttamente o indirettamente nella Base. Questo ha prodotto due tipi di effetto: il primo è che, anche chi ha una opinione avversa alla presenza del Poligono, ha delle remore a manifestarla per il timore di creare una situazione di conflitto nella propria comunità; il secondo è che non si riesce ad immaginare che quel territorio possa dare alternative economiche alla economia militare. Il che è incredibile, se si pensa che stiamo parlando di 13000 ettari! Quasi sempre ci viene rivolta la richiesta “dovete dirci cosa volete fare dopo”, come se noi avessimo le risorse per proporre credibili piani di riconversione, ove qualsiasi sindaco con qualche fondo europeo in tasca avrebbe quanto meno più argomentazioni. Ma questo è nulla in confronto all’affermazione di una madre che disse “meglio un figlio morto che disoccupato”.
In generale i posti di lavoro da tutelare – in una terra di drammatico spopolamento e disoccupazione – sono la principale motivazione per sostenere la permanenza della base, senza alcuna sensibilità verso il fatto che quel lavoro sia orientato alla costruzione di ordigni che serviranno ad uccidere ed imporre la legge del più forte e dello sfruttamento. In un certo senso il Poligono porta la guerra all’estero, ma anche intorno a sé : è una struttura in guerra con il territorio che la subisce, e che, inevitabilmente, ne viene devastato.
Il fatto che le malattie, le morti e le malformazioni che si verificano tra la popolazione siano attribuibili alle attività belliche, resta un discorso ufficialmente rimosso. Nei discorsi privati è opinione comune che i problemi sanitari siano causati dai militari; nei discorsi pubblici si tende sempre ad usare formule condizionali, ad augurarsi che “si faccia luce”, a dichiarare che “se si dovesse dimostrare che, allora…”. In definitiva la popolazione meno coinvolta tende a dimenticare l’esistenza stessa del Poligono, mentre quella più direttamente coinvolta ha un atteggiamento passivo e rassegnato in una consapevolezza, profondamente interiorizzata, di essere troppo piccoli e dispersi per poter affrontare un problema simile, e di essere destinati comunque a subire decisioni prese altrove.

Quali sono gli ostacoli principali che vi trovate ad affrontare?
Prima di tutto direi la scarsissima abitudine alla mobilitazione in paesi molto piccoli e molto distanti gli uni dagli altri. Anche quando troviamo persone sensibili è difficilissimo che autonomamente si attivino nelle più elementari forme di propaganda come il volantinaggio, la diffusione di flyer nei bar e nelle attività commerciali, l’esposizione di striscioni. Creare un coordinamento che dia l’impressione di non essere isolati, ma di far parte di un gruppo più vasto, è il secondo problema, e bisognerebbe rilevare come la concezione dell’azione politica all’interno di partiti e sindacati abbia creato una abitudine alla delega, una abitudine ben difficile da superare! Infine direi che il terzo aspetto che costituisce oggettivamente un ostacolo è la concezione della sponda istituzionale come un possibile referente, per cui si continua a pensare che sia possibile un dialogo con Magistratura, organismi di tutela della salute, Pubbliche Amministrazioni, e che costoro possano avere un ruolo in una lotta per lo Smantellamento del PISQ.

Nei vostri documenti siete sempre molto chiari su chi siano i responsabili della situazione vissuta attorno al PISQ…
Va da sé che in una lotta si debba individuare con lucidità chi è la controparte. Mantenere una “zona grigia” di ambiguità non è positivo, sia perché ci si rende attaccabili, sia perché si offre il fianco a compromessi. Inoltre quel che vogliamo evidenziare è la necessità di una lotta popolare di base, proprio per il fatto che le istituzioni pubbliche, a tutti i livelli, si sono rese responsabili dell’attuale devastazione e hanno tutelato sempre gli interessi militari sopra quelli civili.

Come si inserisce, secondo voi, la questione dell’occupazione militare in Sardegna in un generale contesto di cristallizzazione dell’economia locale?
Il problema delle servitù militari si è sempre posto nei termini di un danno economico alle popolazioni che la subiscono, tant’è vero che si parla, anche giuridicamente, di territorio asservito. La Regione Sardegna ha più volte (giunta Melis, giunta Soru, ecc.) posto il problema economico e politico delle servitù militari, senza mai in realtà ottenere significativi risultati (la questione della base di Santo Stefano, alla Maddalena, meriterebbe un approfondimento a parte…). Porre la presenza militare nei termini di un fattore di sviluppo per il territorio è un qualcosa che insulta l’intelligenza. È evidente che la vocazione del territorio, a suo tempo, sarebbe stata un’altra: la viticoltura, la serricoltura, l’apicoltura, l’allevamento, la pesca, l’orticoltura e gli agrumeti. Tutti i Comuni costieri della Sardegna in questi anni hanno incrementato la propria popolazione, mentre per quanto riguarda i paesi nell’intorno del Poligono i dati Istat sono impietosi: emigrazione, reddito medio pari alla metà di quello italiano sono i dati che fotografano una situazione di stagnazione. In realtà il Poligono è una struttura che produce enormi ricchezze, il mercato delle armi muove grandi interessi economici e ogni guerra è occasione di grossi profitti, ma il flusso di soldi movimentato dalle attività militari-industriali si muove molto lontano dalla Sardegna, dove si limita a lasciare alcune buste paga; qualsiasi altra attività lascerebbe localmente introiti superiori.

Mentre facciamo quest’intervista (giugno), è in corso l’indagine della procura di Lanusei nella veste del procuratore Fiordalisi (lo stesso dell’operazione Sud Ribelle) che ha posto sotto sequestro la base, con la conseguente impossibilità per gli allevatori della zona di lavorare. Quali sono state le reazioni? Pensate che questo abbia “rinsaldato” il rapporto tra il PISQ e gli abitanti della zona?
La procura di Lanusei ha decretato il sequestro dell’area terrestre del Poligono, ma ha concesso una deroga alle attività militari per via della guerra in Libia. L’effetto immediato del sequestro è stato lo sgombero dei “non militari”, ovvero delle 66 aziende zootecniche che si trovano ad utilizzare parte del territorio del Poligono a seguito di concessioni rilasciate dall’autorità militare. Il Poligono non è infatti tutto chiuso: alcune parti sono normalmente aperte, e vengono inibite solo durante il periodo di prove a fuoco. In breve è saltato agli occhi di tutti un fatto che avrebbe dovuto essere evidente: non è possibile che convivano attività civili ed attività militari, per il semplice fatto che queste ultime avvelenano le prime. Questa incompatibilità, sancita da una relazione dell’ENEA, ha semplicemente ufficializzato uno stato di fatto: da mesi gli allevatori non riuscivano infatti più a vendere i loro prodotti. Ma le difficoltà si sono estese a tutta l’economia della zona: gli stessi problemi li hanno gli agricoltori e gli imprenditori turistici. Visto che la situazione di inquinamento creata dal Poligono è ormai una cosa nota a livello nazionale è ben difficile che questo stato di cose sia reversibile.
Le Amministrazioni Locali hanno indetto dei Consigli Comunali aperti per affrontare il Problema, e la Regione ha istituito un Tavolo di Crisi. In realtà in questi ambiti si è assistito ad un tentativo di costruire un fronte di “danneggiati dalla magistratura” che unisse allevatori e militari contro Procura e Giornalisti. Di fatto però gli amministratori sono anche molto preoccupati di trovarsi penalmente coinvolti per la loro mancata tutela della popolazione, e comunque non hanno a disposizione risorse economiche tali da potersi comprare il consenso a suon di risarcimenti, come altre volte è successo in passato. Le associazioni di categoria si aspettavano probabilmente una offerta economica, e si sono presentate agli incontri nella posizione del questuante. In questi ultimi giorni, a fronte dell’immobilità della parte pubblica, stanno assumendo toni più battaglieri, ma la loro credibilità e rappresentatività è davvero minima.
Il tempo sta passando rapidamente e la scorsa settimana gli allevatori hanno ricevuto il calendario secondo il quale è previsto il loro sgombero del territorio, che dovrà essere completato entro il 20 luglio. La situazione è molto drammatica perché si tratta di spostare 9000 capi di bestiame, non è chiaro se e quando potranno rientrare nelle loro proprietà, ovviamente molte aziende sono indebitate e/o ipotecate. Queste persone stanno perdendo tutto: lavoro, proprietà, salute, dignità. Tra loro c’è molta rabbia, sia perché tutti hanno avuto parenti malati o morti per leucemie, sia perché vedono che loro debbono essere allontanati mentre i militari, causa dell’inquinamento, possono continuare le loro attività.

A ottobre dell’anno scorso avete organizzato un Campeggio internazionale antimilitarista libertario durante il quale è stata importante la presenza di numerosi compagni/e venuti da fuori. Quale è il vostro bilancio e come si lega la lotta al PISQ con le altre lotte antimilitariste?
La Sardegna ha di sé una percezione molto autoreferenziale. L’iniziativa del Campeggio è certamente stata utile nel vedere che quel che stiamo facendo qui contro il PISQ si inserisce in un complesso di lotte contro il militarismo e la guerra, oltre che per conoscere le esperienze altrui e far conoscere la realtà locale oltre i confini dell’isola. Dal Campeggio è emersa inoltre la disponibilità di tanti compagni ad intervenire direttamente qualora la situazione dovesse richiedere una presenza di massa. È stato infine un momento in cui l’opposizione alla Base ha avuto modo di manifestarsi palesemente, anche nei confronti della popolazione locale.

Avete proposto una Piattaforma organizzativa per lo smantellamento del Pisq. Ce ne puoi parlare?
La Piattaforma è stata concepita per delineare i termini entro i quali gruppi – in tutto e per tutto autonomi – possono collaborare. I punti fermi sono piuttosto semplici e configurano quali siano i principi di base che un gruppo deve fare propri per poter far parte di Atobiu. I più importanti sono che Atobiu nasce per occuparsi esclusivamente dello smantellamento del PISQ, non si pone cioè come un organismo che esprime una visione politica generale, ed è perciò aperto a persone che hanno sensibilità molto diverse. Tuttavia si chiede che l’adesione sia individuale, in modo che sia chiaro che l’adesione dei singoli ad un partito o sindacato non implica l’adesione della propria organizzazione al coordinamento; deve anzi essere preservata l’autonomia da istituzioni, partiti, chiese, sindacati, ecc.. Naturalmente – nella loro autonomia – i gruppi possono valutare l’opportunità di partecipare o promuovere iniziative in accordo con altri organismi, si chiede però di far proprio il principio del rifiuto di compromessi, ovvero di soluzioni parziali, intermedie, temporanee ed in ogni caso alternative allo smantellamento del PISQ. Infine si chiede di organizzarsi secondo il principio per cui non ci siano divisioni tra chi comanda e chi esegue, tra chi elabora la teoria e chi la pratica, ma che l’azione di tutti sia diretta e non delegata.

Laura Gargiulo

Per informarsi:
www.blogspot.com/smantellamentopisq
Birdi ke Porru (mensile autoprodotto di critica sociale) offre ampio spazio alle vicende relative al PISQ: tutti i numeri scaricabili su “romperelerighe.noblogs.org”.

Le lotte

Non sempre l’occupazione militare ha avuto vita facile in Sardegna. Alcune di quelle lotte:

  • Tertenia: anni ’50, l’attuale Pisq doveva estendersi per un territorio ancora più vasto fino ad occupare le terre del comune di Tertenia. L’opposizione degli abitanti che rifiutarono di cedere i terreni respingendo qualsiasi proposta di indennizzo fece desistere i militari dall’intento.
  • Pratobello: 1969, contro la realizzazione di un poligono di tiro temporaneo (che si pensava sarebbe stato definitivo), gli abitanti di Orgosolo si organizzarono in assemblee pubbliche e bloccarono le esercitazioni fino ad arrivare all’accordo con le istituzioni per un poligono temporaneo, di dimensioni ridotte con possibilità di passaggio delle greggi e indennizzi.
  • Sinis-Cabras: 1976, contro l’installazione di un radar, un’imponente manifestazione popolare sospende l’espropriazione di 200 ettari e pone fine al progetto.
  • Teulada: fine anni ’90-2005, lotte dei pescatori a cui venivano interdette zone di mare per le esercitazioni militari, minando la principale fonte di reddito degli abitanti della zona. Assemblee, proteste e blocco delle esercitazioni come quella del 2004 che costò ai militari 24 milioni di euro di perdita.