rivista anarchica
anno 41 n. 365
ottobre 2011


No-Tav

Riflessioni sulla repressione
di Domenico Argirò

Che cosa insegnano le lotte (e la repressione) degli ultimi mesi in Valsusa.

“Come farà comodo a sua signoria” rispose Selifan, consenziente a tutto, “se una frustata ha da essere, che sia una frustata; io non sono mica contrario. Perché non bastonare, se è per un buon motivo, secondo la volontà del padrone.
Le frustate bisogna darle, perché il contadino si vizia, bisogna mantenere l’ordine. Se è per un buon motivo, allora bastona pure; perché non bastonare?”

(Anime morte, Gogol’)

Le manifestazioni ed i conflitti sociali degli ultimi mesi permettono di fare qualche riflessione sulla repressione del dissenso nel nostro paese.
I principali responsabili dell’ordine pubblico italiano sentono forse la mancanza di un uomo come Francesco Cossiga, che ormai tace dall’Aldilà e siede felicemente alla destra del Padre. Il tempo scorre e tutto distrugge e, forse, in quel luogo empireo, l’ex presidente avrà maturato una diversa saggezza. Ma a noi piace ricordarlo tutto assorto nelle terrestri pratiche di controllo sociale ai danni di miseri e ribelli d’ogni risma.
Indegni, ci permettiamo di prendere il suo posto e di enunciare alcuni principi, che possano essere d’aiuto per coloro che si accingono a svolgere operazioni di repressione nei confronti di rivolte e di disordini vari.
Quando nulla accade a stravolgere la vita della comunità non bisogna rassicurarsi ed addormentarsi quieti. Bisogna sempre vigilare: non si può mai essere sicuri che una bufera non s’alzi improvvisa. Viceversa, una minima quantità di proteste e di disordini a bassa intensità potrebbe essere innocua o addirittura molto utile per la realizzazione di un controllo sociale effettivo. Infatti, in tal caso, gli organi di pubblica sicurezza sono meglio allertati; inoltre: si può dar sfogo allo scontento popolare senza arrecare grave danno alla stabilità sostanziale dei centri di potere effettivo; infine: si può individuare qualcuno dei ribelli, indicandolo al popolo come pericoloso nemico della pace sociale, incitando tutti ad emarginarlo.

In caso di disordini e violenze

Bisogna cercare di discernere tra i ribelli i più condizionabili, in modo da ottenere l’isolamento di coloro che non siano per nulla addomesticabili. Per esempio, nel caso di un qualche corteo turbolento, bisognerà distinguere tra manifestanti buoni e manifestanti cattivi. I primi bisogna blandirli, dar loro in parte ragione, scuoter la testa comprensivi di fronte allo splendore del loro ideale, qualificarli benevolmente come candidi utopisti. I secondi bisogna additarli a tutti come reprobi e terroristi in servizio permanente. Ciò in modo da rendere impossibile la convivenza, nello stesso movimento d’opposizione, tra persone e gruppi di varia origine e di varia prassi. Molte volte (per esempio durante il G8 genovese di dieci anni fa) si è adottata questa piccola strategia, che, nonostante sia nota a tutti, è sempre efficace ed adoperabile.
In caso di disordini e violenze è bene riferire riguardo al numero di feriti tra le forze di sicurezza, ma senza enfatizzare i danni subiti. Per esempio, dire che a Chiomonte, il 3 luglio scorso, ci sono stati quasi duecento feriti, tra carabinieri, poliziotti ed agenti della guardia di finanza, può essere vantaggioso in prima battuta; ma non è opportuno continuare a fare le vittime. Potrebbe sembrare che i rivoltosi siano invincibili o che siano in grado di procurare notevoli perdite alle truppe dello Stato. Fare troppo vittimismo non conviene: tale tipo di propaganda si ritorce, prima o poi, a svantaggio dello Stato.
Resta sempre necessaria l’infiltrazione dei gruppi d’opposizione considerati più pericolosi. Ma bisogna infiltrare con accortezza: il tipo mascherato, che si presenta in un tumulto di piazza a dirigere le ostilità nel modo più utile per le forze della repressione, è ormai cosa del passato. L’infiltrazione più efficace e fruttuosa è quella che si attua all’interno dei singoli gruppi d’opposizione nel corso della loro attività ordinaria. Si tratta di inserire nel gruppo oggetto d’attenzione qualcuno che sia fidato e che possa riferire quanto avviene in riunioni ed incontri informali; o addirittura qualcuno che possa condizionare l’azione del gruppo infiltrato. Si può ottenere il massimo risultato quando si ha la fortuna di trovarsi di fronte a qualche personalità doppia: un individuo pienamente convinto di essere un rivoluzionario, ma che dipenda pure dalle forze di sicurezza in nome di un altro ideale (quello dell’ordine e della sconfitta della violenza), pure presente nella sua mente disordinata e condizionabile. Se poi si adoperano membri di manipoli operativi in azioni poco legali e “quasi” terroristiche, allora si è giunti alla perfezione della pratica di infiltrazione.
È indispensabile riuscire a gestire in modo accorto i media. È opportuno avere al proprio soldo un qualche illustre ex rivoluzionario, che sia ormai convinto della necessità della conservazione del tessuto sociale e politico attualmente esistente. Questi “ex”, così brillantemente pessimisti sulle possibilità di riscatto degli esseri umani e così pensosamente sostenitori delle autorità legittime (che sole possono mantenere un po’ di coesione sociale e possono altresì garantire la permanenza di rapporti di forza che permetta, a loro stessi “ex”, di avere un reddito decisamente superiore a quello medio) sono molto più efficaci dei commentatori notoriamente e da sempre conservatori o moderati. “Lo dice anche lui, che prima stava con loro, ma ora sta con noi, le autorità”: questo il senso dell’intervento dell’ex dalle colonne dei grandi quotidiani o dagli schermi televisivi.

I tradizionali manganelli e lacrimogeni

In piazza bisogna menare, ma solo quando serve davvero. È inutile ricordare i suggerimenti di un grande esperto come il defunto presidente Cossiga. Le sue indicazioni restano valide. Ma qui ci permettiamo qualche utile integrazione. Per esempio: ci sono alcuni individui che raccontano di armi segretissime per la tortura elettronica a distanza. Lasciamo correre questa diceria. Se anche strumenti di tale fatta non esistessero, sarebbe comunque utile indurre i più turbolenti a credere che ci sia qualcosa di vero, in modo che possano attribuire ogni loro casuale malessere all’intervento terribile ed incontrastabile delle forze dello Stato. Restano comunque validi i tradizionali manganelli e lacrimogeni. Sarebbe però consigliabile un loro uso parsimonioso, così da allontanare dalla mente del buon popolo l’idea che chiunque possa essere colpito dalla violenza delle forze di sicurezza. “Se le ha prese di santa ragione, deve essersele davvero meritate”, “io, che non faccio niente di male, non le ho mai prese dalla polizia”: queste sono le affermazione che devono risuonare nelle teste dei più. In definitiva: la stragrande maggioranza del popolo buono ed umile deve essere convinta che le forze di pubblica sicurezza menano, feriscono, intossicano solo quelli che se lo meritano.
Bisogna lasciare al nemico uno spazio per la ritirata. Si intende la ritirata in senso materiale, nel corso di una qualche manifestazione di piazza che sia degenerata in atti violenti; ma si intende pure la possibilità di riconvertire il progetto iniziale senza umiliare i ribelli sconfitti. Ciò accade innumerevoli volte nel campo del conflitto sul lavoro. Per esempio, una lotta dura contro licenziamenti di massa può giungere a livelli tali di intensità che sembrerebbe non offrire via d’uscita. Lasciando invece la possibilità ai dirigenti della “rivolta” di accettare le condizioni imposte dai vincitori senza con ciò apparire sconfitti, si riesce a riassorbire la fase acuta del conflitto con notevole vantaggio per tutte le parti: per il potere costituito, che ha davvero vinto, e per gli sconfitti, che sembrano anch’essi vincitori. Troviamo un esempio recente di ciò anche in una lotta molto diversa da quelle riguardanti il lavoro: è il caso dei no Dal Molin vicentini, che hanno subito un rovescio totale, ma proclamano comunque la loro vittoria in forza della conquista di un territorio reale e simbolico, definito Parco della Pace.
Bisogna individuare i propagandisti della sovversione ed isolarli nel loro ambiente quotidiano, per esempio sul posto di lavoro. Una cosa banale, da fare immediatamente, è l’invio proprio sul posto di lavoro di un agente di polizia che vada solo a chiedere informazioni riguardo al cattivello. Non c’è bisogno di alcun atto formale. La notizia della visita si diffonde ed il tizio in questione non viene più visto come prima, ma inizia a subire un trattamento molto diverso. Anche senza un esplicito isolamento sociale, la sua azione sul posto di lavoro (che è comunque uno dei principali mondi vitali della nostra epoca) subisce un arresto e diventa meno efficace.
Bisogna approcciare gli oppositori radicali più stimabili e più tollerabili per origine sociale, reddito, educazione, legami extrapolitici, così da adoperarli come moderatori. Già il cardinale Mazzarino scriveva nel suo Breviario dei politici: “Prometti gran guiderdoni al paciero della discordia, e a chi ti suggerisce i mezzi di sopirla, a chi toglie di mezzo i fomentatori, o te gli scuopre. Se il popolo sia feroce, e implacabile; ti hai a sforzare per mezzo di persone da bene, e accreditate, di ridurlo colla bontà, e pietà alla pace”.

Inventarsi un’organizzazione terroristica può servire

È utile, per esempio, fare presa sul senso di responsabilità delle organizzazioni sindacali: nella disgregazione comunitaria della società contemporanea, i sindacati hanno mantenuto una discreta presa nei confronti dei loro associati. Vari legami vincolano gli iscritti ad un sindacato: in primis il bisogno di assistenza burocratica e l’illusione di sentirsi “protetti” dalle angherie dei capi e dalle turbolenze del mercato del lavoro. Perciò i capi sindacali sono moderatori efficienti. Si usa la persuasione morale oppure si fanno agire gli organi statutari che provvedono anche all’espulsione del sovversivo. E poi: le migliaia di persone che sfilano in piazza in occasione di un qualche sciopero generale sono ben irreggimentate e non turbano l’ordine pubblico. La funzione di organo di controllo e di repressione è svolta infatti dalla stessa organizzazione sindacale: un discreto risparmio di energie per lo Stato. Si tratta solo di un’ulteriore applicazione della pratica corporativa: come lo Stato affida alle organizzazioni sindacali funzioni di supplenza nella gestione del mercato del lavoro e del welfare, così riesce ad affidare alle medesime organizzazioni alcuni compiti di controllo sociale e poliziesco.
A volte è necessario inventarsi (se non esiste già) una qualche misteriosa organizzazione terroristica. Lo Stato, di fronte ad un nemico terribile e sfuggente, avrà il diritto di intervenire con durezza, sorvolando sulla fedele applicazione delle norme che impongono il rispetto dei principali diritti individuali. L’evocazione del pericolo imminente offre la scusa buona per andare al di là della legge quando questa potrebbe essere d’ostacolo per un’efficace azione repressiva.
Ma lo strumento principe da adoperare allo scopo di sedare le masse ribelli non è un qualsivoglia attrezzo in mano alla polizia: è piuttosto un insieme di strumenti controllati dalle burocrazie statali e dalle cosiddette parti sociali. Si tratta del welfare state, seppure inteso nella forma ridotta, riadattata, ristrutturata, in parte ormai devoluta ad organismi non appartenenti al settore pubblico. I rimasugli di Stato sociale, ridefiniti dalle tecnocrazie corporative europee, forniscono mezzi di sussistenza a gruppi di disperati, che altrimenti non avrebbero nulla da perdere se non le loro catene. Il welfare, anche se non del tutto efficiente (vedi l’espansione della spesa pubblica e la crisi fiscale in cui si dibattono gli Stati contemporanei), è un efficacissimo strumento di controllo sociale. Un individuo disperato, qualora venga assistito, continuerà ad essere disperato, ma, nella stragrande maggioranza dei casi, cesserà di essere ribelle (ammesso che lo sia mai stato). Nelle Scritture (Mt 8,20) si legge: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo.” Ecco: il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo e quindi destabilizza l’ordinamento sociale, politico e religioso della sua epoca. I disperati europei nostri contemporanei sono invece, quasi sempre, volpi o uccelli, che a sera, finita la manifestazione di piazza, finita la gestione teatrale di una ribellione simulata, tornano nelle loro tane e nei loro nidi, accendono la televisione e si abbrutiscono con i reality o magari continuano a sentirsi “impegnati” assistendo a trasmissioni come Annozero o Report.

Domenico Argirò