rivista anarchica
anno 41 n. 366
novembre 2011


pensiero anarchico

Un filosofo contro (e per)
di Colin Ward
a cura di Francesco Codello

Scomparso recentemente, il sociologo, architetto, urbanista e militante anarchico Colin Ward è stato una delle figure più interessanti e stimolanti del pensiero e della pratica libertaria. Ce ne siamo occupati spesso: questa volta ne pubblichiamo la biografia (inedita in italiano) del filosofo Martin Buber (1878-1965), massimo esponente di quell’originale filone di pensiero tra ebraismo e anarchismo.

 

Tutte le personalità che mi hanno influenzato avevano idee da esprimere a proposito della società umana. La ragione per cui ritengo che Martin Buber abbia illustrato meglio tutte le cose in cui credo riguardo all’organizzazione sociale sta nel fatto che egli ha saputo spiegarle nel modo più chiaro. Io l’ho conosciuto solo perché era citato spesso negli articoli che Herbert Read pubblicava sulla rivista anarchica Freedom. Read era un dirigente della casa editrice Routledge e nel 1949 aveva fatto uscire una traduzione del libro di Buber Sentieri in utopia, testo che era una riaffermazione della tradizione anarchica nel pensiero socialista, schernita per decenni sia prima che dopo la sua pubblicazione da due forme di idolatria dello Stato, quella dei Fabiani e quella marxista.
Da allora ho seguito l’evoluzione delle teorie sociologiche di Buber e sono stato conquistato dalla sua conferenza su “Società e Stato”, che condensava una serie di tesi le quali, paradossalmente, gli procurarono solo ostilità. Negli anni cinquanta un mio amico architetto, Gabriel Epstein, i cui genitori abitavano casualmente nella stessa strada di Gerusalemme di Buber, mi confermò che l’allora gruppo dirigente del partito laburista in Israele lo considerava un sabotatore e non un sostenitore. Tre anni dopo un veterano dei kibbutz mi disse che per come la vedeva lui Buber era solo un vecchio trombone e chiaramente alla sua morte, nel 1965 il Guardian riferì che “in Palestina la sua idea di un doppio nazionalismo gli procurò l’ostracismo degli ortodossi, che lo bollarono come ‘nemico del popolo’”.
Un filosofo che è stato capace di mettersi contro chiunque e che però era un modello di gentilezza e di benevolenza, deve avere qualche cosa d’importante da dire. Ci ho pensato e non credo che si sbagliasse. Era noto come teologo, anche se mi ricordo di quando, in un programma televisivo della BBC, dichiarò a un perplesso sacerdote: “Devo confessare che la religione non mi piace tanto.” E a uno che lasciava intendere che fosse un mistico replicò di essere in realtà un razionalista, e che il razionalismo era “l’unica delle mie visioni del mondo alle quali permetto di finire in ‘ismo’”.
L’unica volta in cui lo vidi di persona, fu nel 1956 al King’s College nello Strand, dove teneva una conferenza su “Ciò che è comune”, illustrando la filosofia del dialogo esposta nel suo libro Io e tu, insieme alle sue tesi sulla comunità e la società. Aveva preso spunto da un testo di Aldous Huxley che riferiva dei propri esperimenti con la mescalina, che era diventato, per usare la frase pronunciata da Buber in un inglese lento ed enfatico, una parabola di quella che egli considerava la società disgiunta dell’individualismo occidentale. Huxley, nella sua fuga dal “doloroso mondo terreno” sotto l’influenza della droga, aveva scoperto che le sue labbra, il palmo delle mani e i genitali (gli organi di comunicazione con gli altri, suggerì Buber) si erano raffreddati e che egli evitava lo sguardo dei presenti. Perché, spiegò Buber, guardare gli altri negli occhi sarebbe riconoscere ciò che abbiamo in comune. E dopo quella fuga dall’io e dall’ambiente normale, Huxley “incontrò gli altri con una profonda diffidenza”. Huxley considerò la propria intossicazione da mescalina un’esperienza mistica, ma quelli che chiamiamo mistici, dichiarò Buber, come quelli che chiamiamo artisti creativi, non cercano di fuggire dalla situazione umana. “Non vogliono lasciare il mondo autentico della parola, nel quale si esige una risposta. Restano attaccati al mondo comune finché non ne sono strappati.”
“Nel profondo del mio cuore” confessò “io amo il mondo più di quanto ami lo spirito,” e imbarazzò il presidente scendendo a balzi i ripidi scalini del palco, per chiedere chiarimenti a coloro che gli rivolgevano domande, per essere sicuro di capire quello che volevano sapere.
Per Buber, come spiega Herber Read, “la comunicazione di qualsiasi verità, di qualsiasi ‘lezione’, dipende dall’esistenza di una condizione di reciprocità tra insegnante e allievo – ogni comunicazione efficace è dialogo…” Buber ha un significato diverso a seconda di chi lo legge. Per me è un filosofo della società, un sociologo, in realtà, che molti decenni fa aveva già intuito la natura della crisi del capitalismo come del socialismo. “L’era del capitalismo avanzato” ha scritto “ha frantumato la struttura della società. La società che l’ha preceduta era fatta di diverse società: aveva una struttura complessa e pluralista, che le dava quella particolare vitalità e le permetteva di resistere alla tendenze totalitarie insite nello Stato centralista prerivoluzionario.” Ma anche il socialismo era finito in preda dell’idolatria dello Stato: “Se il socialismo vuole uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato, è necessario, fra l’altro, prendere il termine ‘Utopia’, sezionarlo ed esaminarne il contenuto reale.”
Buber non era un anarchico, ma un sostenitore di quello che chiamava socialismo pluralista. Ma i socialisti non hanno ancora fatto proprie le sue tesi, a ovest come a est.

Martin Buber

“Perché non odio i Tedeschi”

Buber era nato a Vienna, da una famiglia di ebrei illuminati ed emancipati, ma dopo il divorzio dei genitori era andato a vivere con il nonno a Leopoli, nella Galizia austriaca. Lì poté godere di “brevissimi e frementi anni di pietà religiosa” e mise fine “all’ubbidienza formale alla legge giudaica”, ma scoprì anche la setta pietista del chassidismo. Mentre studiava filosofia a Vienna, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, conobbe il poeta e propagandista anarchico Gustav Landauer ed entrò in contatto con il movimento sionista. Fu collaboratore di Landauer e dopo l’uccisione di quest’ultimo, nei massacri successivi alla “repubblica dei Consigli” di Monaco, ne divenne l’esecutore testamentario. I rapporti con il sionismo furono tempestosi. Per lui il movimento non aveva niente a che vedere con le speranze di uno Stato ebraico: “ Anche se per molti il sionismo è diventato una maschera d’orgoglio, lo strumento per nascondere la propria alienazione e la mancanza di radici in Europa, per Buber fu il mezzo per creare nuove radici, l’espediente estremo per ripristinare contatti non sporadici con la tradizione europea”, come con la tradizione degli insediamenti cooperativi promossi da pionieri socialisti e laici come Aaron David Gordon.
Nel pieno del cataclisma che colpì la Germania, Buber espatriò nel 1938 ed ebbe la cattedra di filosofia sociale all’Università Ebraica di Gerusalemme. Lì si trovò più isolato che in qualsiasi altro periodo della sua vita. “Nel corso del conflitto che precedette e accompagnò la nascita dello Stato d’Israele, Buber prese una posizione (naturale conseguenza del suo sionismo spirituale) che gli alienò la simpatia di ampi settori della comunità israeliana. Sosteneva con Judah Magnes, Ernst Simon e altri che l’unica soluzione al problema ebraico era uno Stato binazionale nel quale arabi ed ebrei dovevano convivere e che entrambe le nazioni dovevano condividere: questo gli provocò grandi antipatie e risentimento.”
Nel 1951 fu criticato per avere accettato il Premio Goethe dall’Università di Amburgo. Gli chiesero se non aveva avuto troppa fretta di perdonare. Come risposta accettò un altro premio tedesco e nel ritirarlo pronunciò queste parole:

Circa dieci anni fa un numero considerevole di tedeschi – dovevano essere diverse migliaia – sotto il comando indiretto del governo tedesco e quello diretto dei suoi rappresentanti, uccise milioni di persone del mio popolo, con una procedura preparata e attuata in modo sistematico, la cui crudeltà organizzata non trova paragoni in nessun precedente evento storico. Io, che sono uno dei sopravvissuti, ho solo formalmente un’umanità comune con coloro che parteciparono a questa azione. Si sono tolti così radicalmente dal consesso degli esseri umani, si sono spostati in una sfera di mostruosa disumanità talmente inaccessibile alla mia concezione, che in me non è nemmeno stato possibile far nascere l’odio. E chi sono io per poter presumere di concedere un perdono?
Quando penso al popolo tedesco dei tempi di Auschwitz e Treblinka, mi vengono in mente prima di tutto i moltissimi che sapevano quali mostruosi fatti stavano accadendo e non vi si opposero. Ma il mio cuore, che conosce bene le debolezze degli uomini, si rifiuta di condannare il mio prossimo che non ha saputo vincere su se stesso per diventare un martire. Poi mi appare davanti la massa di quelli che ignoravano ciò che era tenuto nascosto al pubblico tedesco e non cercarono di scoprire che cosa ci fosse di vero dietro alle voci che circolavano. Quando penso a questi uomini, penso al senso d’angoscia, che conosco bene anch’io, della creatura umana davanti a una verità che teme di non poter sopportare. E infine mi vengono in mente, grazie a resoconti affidabili, alcuni che mi sono familiari nello sguardo, nei fatti e nella voce, come fossero amici, che si sono rifiutati di eseguire gli ordini e che sono stati uccisi o si sono uccisi, o che hanno saputo che cosa stava succedendo, vi si sono opposti e sono stati messi a morte, o che sapendolo e non potendo fare nulla per impedirlo si sono suicidati. Io vedo queste persone molto vicine a me, in quella speciale intimità che ci lega talvolta ai defunti e a loro soli. L’ossequio e l’affetto per questi Tedeschi ora colma il mio cuore.

Il libro di Buber Sentieri in Utopia, terminato nel 1945, è una difesa e una riaffermazione di quella corrente del pensiero socialista criticato da Marx ed Engels in quanto “utopistico” e che per questo è stato ignorato nei libri di storia e nei corsi universitari sul pensiero politico. Il libro mette in particolare il luce la tradizione anarchica rappresentata da Proudhon, Kropotkin e Landauer. Sul tema dei fini e dei mezzi, si esprime così:

Kropotkin sintetizzò la visione di fondo dei fini in un’unica frase: il più completo sviluppo dell’individualità “si combinerà con il massimo sviluppo dell’associazione volontaria in ogni aspetto, a ogni possibile livello e per tutti i possibili scopi; un’associazione che è in continuo mutamento, che reca in sé gli elementi della propria durata, che assume le forme che meglio corrispondono in ogni dato momento alle molteplici battaglie da combattere in ogni campo”. Questo è esattamente ciò che voleva Proudhon nella sua più matura elaborazione di pensiero. Si può obiettare che l’obiettivo del marxismo non è sostanzialmente diverso nella sua costituzione, ma a questo punto davanti a noi si apre un’enorme frattura, ricomponibile solo da quella speciale corrente di utopisti marxiani, una frattura tra le trasformazioni da compiere in un momento futuro (non si quanto tempo dopo la vittoria della Rivoluzione) da una parte e, dall’altra, la strada verso la Rivoluzione e al di là d’essa, una strada che è caratterizzata da un onnipresente centralismo che non permette differenze e iniziative individuali. L’uniformità come mezzo deve trasformarsi miracolosamente in una molteplicità come fine; la costrizione in libertà. Dato che in contrasto a ciò gli utopisti e i socialisti non marxisti desiderano un mezzo commisurato al fine, egli si rifiuta di credere che nella nostra fede nel “salto” futuro dobbiamo avere adesso l’esatto contrario di ciò per cui ci battiamo; crede invece che dobbiamo creare qui e ora lo spazio immediatamente possibile per la cosa per la quale ci battiamo, perché possa arrivare a compimento; non crede nel balzo post-rivoluzionario, ma nella continuità della rivoluzione.

Colin Ward

Kropotkin, ma meglio ancora Landauer

Buber scriveva queste parole molto tempo prima dei “quarant’anni sprecati” dall’imposizione dei regimi marxisti sull’Europa orientale. Ma quando esaminiamo la società capitalista, prosegue Buber, “vediamo che si tratta di una società intrinsecamente povera nella struttura e che s’impoverisce ogni giorno di più” (per struttura della società si intende il suo contenuto sociale o comunitario: si può dire che una società è strutturalmente ricca in quanto è costituita da società genuine, ovvero da comunità locali, comunità di lavoro e loro associazione passo per passo). Buber fa un confronto tra le concezioni di Proudhon e quelle di Saint-Simon: “Saint-Simon prendeva le mosse dalla riforma dello Stato, Proudhon dalla trasformazione della società. Una ricostruzione autentica della società può cominciare solo da una radicale alterazione della relazione tra ordine sociale e ordine politico. Non può più trattarsi di sostituire un regime politico con un altro, ma di far emergere, al posto di un regime politico impiantato su una società, uno che sia espressione della società stessa.”
Per Buber, Kropotkin amplifica il pensiero di Proudhon, ponendo la semplice antitesi tra i principi della lotta per la sopravvivenza e il mutuo aiuto. La teoria iniziale dello Stato in Kropotkin è considerata da lui storicamente sotto-sostanziata e mentre gli sembrano più utili le tesi successive, espresse nell’edizione francese del 1913 di La scienza moderna e l’anarchia: “In tutta la storia della civiltà si sono fronteggiate due tradizioni opposte, due tendenze contrastanti: la tradizione romana e quella naturale, l’imperiale e la federale, l’autoritaria e la libertaria.”
Buber ritiene che il passo in avanti compiuto da Gustav Landauer rispetto a Kropotkin consista nella sua intuizione relativa alla questione dello Stato. Per Landauer “lo Stato è una condizione, una particolare relazione tra esseri umani, un modo di comportarsi degli uomini: lo distruggiamo contraendo altre relazioni, comportandoci in modo diverso”.
Buber esamina le idee di Marx, Engels, Lenin e Stalin, e mostra come nel loro atteggiamento verso le cooperative e i consigli operai, come nei confronti delle vecchie istituzioni comunitarie russe, i mir e gli artel, questi fossero visti solo come strumenti della lotta politica. “Dal punto di vista del leninismo” ha detto Stalin “le economie collettive e anche i soviet sono visti come una forma di organizzazione, un’arma e nient’altro che un’arma.” Nella natura delle cose, commenta Buber, “non ci si può aspettare che un alberello trasformato in bastone butti le foglie”.
Tutto, nel pensiero sociale di Buber, lo spinge verso il movimento cooperativo, che si tratti di cooperative di consumo, di produzione o di abitazione. Si muove da una constatazione scontata:
Per lo più, la gestione delle grandi istituzioni cooperative si discosta sempre meno da quella delle organizzazioni capitaliste e il principio burocratico ha completamente esautorato, in vasti ambiti, quello volontario, un tempo apprezzato come il bene più prezioso e indispensabile del movimento cooperativo. Ciò è evidente soprattutto nei paesi nei quali le associazioni dei consumatori hanno collaborato in misura crescente con lo Stato e gli enti locali; Charles Gide non aveva certamente torto quando esortava a non dimenticare la storia del lupo camuffato da agnello e manifestava il timore che invece di rendere “cooperativo” lo Stato, saremmo solo riusciti a rendere “statiche” le cooperative.
Quelli di noi che hanno passato una vita come soci di nomali cooperative di consumo in Inghilterra saranno senza dubbio d’accordo. Abbiamo visto la politica interna del movimento cooperativo utilizzata come base di partenza per arrivare a una carica da parte di politici di sinistra. Nello stesso tempo abbiamo dovuto osservare (e questo è un aspetto che Buber non era riuscito a notare) come i dirigenti delle sedi locali delle cooperative di consumo fossero adescati con stipendi doppi dalle catene dei supermercati capitaliste.
Buber, però, era arrivato a esaminare i ripetuti tentativi, nel secolo e mezzo precedente, in Europa e in America, di fondare insediamenti cooperativi, scoprendo di dover utilizzare la parola fallimento non solo per gli esperimenti che dopo una breve esistenza si erano completamente dissolti o avevano assunto quello che egli considerava una struttura capitalista, passando così al campo avversario, ma esercitò una critica analoga anche ai tentativi che puntavano a uno stile di vita più largamente cooperativo, ma isolandosi dal resto del mondo.
Infatti il compito autentico, veramente strutturale delle nuovi comuni di villaggio comincia con la loro federazione, ovvero con la loro unione sulla base dello stesso principio che opera nella loro struttura interna. Anche in luoghi come i Dukhobors in Canada, nei quali una sorta di federazione in sé continua ad essere isolata e non esercita nessuna forza di attrazione e nessuna influenza educativa verso la società nel suo insieme, il risultato è che non si comincia neanche a svolgere quel compito e quindi non c’è ragione di parlare di successo in senso socialista. È interessante che Kropotkin vede in questi due elementi – isolamento degli insediamenti tra loro e loro isolamento dal resto della società – le cause effettive del fallimento anche come lo si intende normalmente.
Se la “cooperativa completa”, nella quale si coniugano produzione e consumo e l’industria è integrata all’agricoltura, deve diventare la cellula di una società nuova, è necessario, secondo Buber, che “emerga una rete di insediamenti, su base territoriale e con struttura federale, senza rigidità dogmatica, che permettano la coesistenza una accanto all’altra delle più diverse forme di società, ma sempre puntando a un nuovo tutto organico”. Nel 1945 era convinto che ci fosse un tentativo “che ci autorizza a parlare di successo in senso socialista, e questo è la comune di villaggio ebraica nelle sue varie forme, fondata in Palestina”. Definiva il movimento dei kibbutz un segnale di non-fallimento (non poteva dire di successo) perché conosceva fin troppo bene gli inconvenienti e le delusioni dell’intrusione della politica e del “deplorevole fatto che l’importantissimo atteggiamento di relazioni di buon vicinato non sia stato adeguatamente sviluppato”, e di quanto ancora restava da fare.
Ci sono due poli del socialismo, concludeva Buber, tra i quali possiamo scegliere: “Uno dobbiamo designarlo – dato che la Russia non ha ancora subito un cambiamento sostanziale – con il formidabile nome di Mosca. L’altro sarei orgoglioso di chiamarlo Gerusalemme.”

Cooperazione e federalismo

Questa polarità non ha funzionato bene. Quasi mezzo secolo dopo ci possono essere cambiamenti essenziali a Mosca, anche se non nel senso auspicato da Buber. Quando a Gerusalemme, ben pochi la vedrebbero come un faro del socialismo. Già negli anni venti Buber ammoniva il movimento sionista che se gli ebrei in Palestina non avessero trovato il modo di convivere con gli arabi e accanto a loro, si sarebbero trovati a vivere con la loro ostilità.
Nel 1950, nel corso delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario dell’Università Ebraica di Gerusalemme, Buber tenne una conferenza su “Società e Stato”. Esordì citando l’opinione del sociologo Robert MacIver, per il quale “identificare il sociale con il politico significa essere colpevoli della più rozza delle confusioni, che impedisce del tutto la comprensione tanto della società quanto dello Stato”. Passò poi in rassegna le tesi di sapienti, da Platone a Bertrand Russell, che hanno trattato la relazione tra principio sociale e principio politico. Il primo viene visto nel potere, nell’autorità, nel dominio, il secondo si riferisce alle famiglie, ai gruppi, all’unione, agli organismi cooperativi e alle comunità. È la stessa distinzione fatta da Jayaprakash Narayan tra rajniti (politica dello Stato) e lokniti (politica del popolo). Per Buber il fatto che ogni popolo si senta minacciato dagli altri conferisce allo Stato il proprio definito potere unificante; esso dipende dall’istinto di conservazione della società stessa; la crisi esterna latente lo attiva quando è necessario un intervento superiore nelle crisi interne.
L’amministrazione della sfera del sociale, dice Buber, è l’equivalente del governo nella sfera politica. Ma tutte le forme di governo hanno questo in comune: ognuna possiede più potere di quanto sia richiesto dalla situazione data: in pratica questo eccesso di capacità di disporre è quello che il potere politico ci comunica. La misura di questo eccesso, che ovviamente non è calcolabile con precisione, rappresenta l’esatta differenza tra Amministrazione e Governo. Io la chiamo “surplus politico”. La sua giustificazione deriva dallo stato di crisi latente tra le nazioni e all’interno di ogni nazione… Il principio politico è sempre più forte in relazione al principio sociale, rispetto a quanto non lo richieda la situazione. Il risultato è una continua riduzione della spontaneità sociale.
Dopo aver letto queste parole ho trovato la terminologia di Buber assai più valida di un’illustrazione di fatti del mondo reale e assai più utile di una decina di conferenze di scienze politiche o sociali. Le sue parole riescono a ridimensionare la politica riportandola alla giusta misura. Applichiamole per esempio alla politica inglese degli anni ottanta. Il governo utilizzava il linguaggio populista: “rolling back the frontiers of the state” (far arretrare i confini dello stato) o “setting the people free” (rendere libera la gente), mentre nello stesso tempo praticava politiche di controllo centrale feroce e invasivo, con una guerra contro i minimi tentativi di politica indipendente degli enti locali. Anche le organizzazioni volontarie erano manipolate per trasformarsi in cinghie di trasmissione della politica del governo. La “crisi esterna latente” nella forma di Guerra Fredda o di campagna delle Falklands era sfruttata “quando era necessario un intervento dall’alto” e alla fine della Guerra Fredda, è utilmente seguita la guerra del Golfo.
Se le categorie di Buber sono osservabili in una società relativamente libera come quella britannica, si applicano con schiacciante evidenza ai regimi totalitari del ventesimo secolo, che invariabilmente puntavano a distruggere tutte quelle istituzioni sociali che non riuscivano a dominare direttamente. L’importanza della Chiesa cattolica in Polonia e di quella luterana nella Germania dell’Est non era una questione di dogma religioso, ma in realtà queste istituzioni erano tra i pochi focolai di potere alternativi rimasti. La continua riduzione di spontaneità sociale prospettata da Buber è una caratteristica del periodo nazista in Germania o del bolscevismo nell’Unione Sovietica, come anche del Cile di Pinochet e della Romania di Ceausescu, come ogni sopravvissuto ricorda.
Come Buber, io sono convinto che il conflitto tra sociale e politico sia un aspetto permanente della condizione umana. Egli ci ha fatto un servizio desumendo dagli scritti sempre ottimisti di Kropotkin l’osservazione che il conflitto tra tradizione autoritaria e tradizione libertaria sia presente nella storia passata come in quella futura, e dalle tesi di Landauer l’idea che questo confitto non è superabile con una rivoluzione.

Se vogliamo indebolire lo Stato dobbiamo rafforzare la società, perché il potere dell’uno è la misura della debolezza dell’altra.

L’esplorazione fatta da Buber dei sentieri di Utopia, ben lontana dall’accettare le cose come stanno, conferma, come le opere tanti altri autori che mi hanno influenzato, che la mancanza di una carta stradale di Utopia non vuol dire che non ci siano strade che portano a mete più accessibili.

Colin Ward

Colin Ward e Martin Buber

di Francesco Codello

Il saggio che viene qui tradotto per la prima volta in italiano, è stato inserito da Colin Ward in un libro pubblicato nel 1991, nel quale, sotto il titolo Influences. Voices of Creative Dissent, l’anarchico inglese raccoglieva in un unico volume la sua lettura di quegli autori che considerava come i suoi principali méntori. Oltre a William Godwin e Mary Wollstonecraft per l’educazione, Alexander Herzen per la politica, Peter Kropotkin per l’economia, William Richard Lethaby e Walter Segal per l’architettura, Patrick Geddes e Paul Goodman per la pianificazione, Ward inseriva anche Martin Buber per la sociologia.
Martin Buber (1878-1965) è probabilmente il più rappresentativo filosofo ebreo del Novecento. Negli ambienti libertari è soprattutto conosciuto come autore di un bel libro (Sentieri in utopia, 1967) nel quale rivaluta, a scapito del socialismo autoritario marxista, soprattutto il pensiero di Proudhon, Kropotkin, Landauer, ai fini di un nuovo socialismo umanista e libertario. Vi è una costante relazione tra pensiero anarchico e libertario e cultura ebraica (soprattutto di derivazione askenazita e di lingua yiddish) di cui Buber rappresenta una figura importante che si contamina manifestamente, in particolare, con la figura e il pensiero di Gustav Landauer (sulla relazione tra i due, vedi il bel saggio di Michael Löwy, Redenzione e utopia, 1992).
Buber scrive che la grande intuizione di Landauer è che lo stato non è un’istituzione che si distrugge con un’azione rivoluzionaria, ma che invece è un rapporto, una relazione fra gli uomini, un modo in cui gli esseri umani si comportano tra loro e, pertanto, lo si distrugge adottando altre relazioni, comportandosi l’uno con l’altro in modo diverso. Landauer rivaluta la sua tradizione ebraica soprattutto grazie alla visione chassidica di Buber (Martin Buber, 1913), sottolineando anche la sua visione sociologica che contrappone la società allo Stato. Colin Ward si inserisce in questo filone dell’anarchismo, che si snoda soprattutto a partire da Proudhon, Kropotkin e Landauer, molto propenso a leggere con pragmatismo l’evoluzione dei rapporti sociali.
In particolare a Ward colpisce la relazione che Buber tiene nel 1950 presso l’Università ebraica di Gerusalemme che, in qualche modo, sviluppa proprio le tesi sostenute in Sentieri in utopia, circa l’inconciliabilità di società e Stato. Scrive Ward: «Secondo Buber, il principio politico è caratterizzato dal potere, dall’autorità, dalla gerarchia e dal dominio. Il principio sociale invece si manifesta ovunque gli uomini si uniscano in associazioni fondate su un bisogno o un interesse comune» (Ward Colin, L’anarchia come organizzazione, Elèuthera, varie edizioni, pag. 18; L’anarchia, 2008).
Riprendendo proprio queste tesi Ward si chiede come mai il principio politico sia predominante su quello sociale e sottolinea, parafrasando Buber, come lo Stato si appropri del suo concreto potere politico unificante, grazie al sentimento di paura che ogni popolo sviluppa quando si sente minacciato. «Tutte le forme di governo hanno questo in comune: godono di un potere maggiore di quanto sia giustificabile dalle condizioni del momento; in effetti è proprio questa eccessiva capacità di dare disposizioni che noi chiamiamo potere politico. La misura di questo eccesso, che ovviamente non si può calcolare con precisione, rappresenta la differenza esatta tra l’amministrazione e il governo». Questo «surplus politico» va a scapito della spontaneità sociale. Le caratteristiche del potere politico sono potere, autorità, gerarchia e dominazione, mentre quelle del principio sociale si manifestano e sono evidenti in tutte le associazioni umane spontanee che si costituiscono intorno a bisogni e/o interessi comuni. Questa, soprattutto, secondo l’analisi di Ward, la più significativa intuizione di Buber la quale riecheggia, in un certo qual senso, la teoria della forza collettiva di Proudhon. Questa spontaneità sociale, tenuta in gran conto dagli anarchici, non trova nessuna corrispondenza nei programmi politici se non in quanto forza strumentalizzabile a meri fini di dominio e di scontro tra poteri diversi.

Francesco Codello