rivista anarchica
anno 42 n. 368
febbraio 2012



attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Al parapetto della storia

 

Victor Klemperer

1. Nel 1933, in una bacheca dell’Università di Lipsia venne affisso uno striscione su cui stava scritto: “Quando l’ebreo scrive in tedesco, mente”. Impliciti erano i seguenti assunti: a) che esistessero due tipologie di cittadini, b) che una di queste, parlando la propria lingua, mentisse sempre e comunque e c) che la lingua condiziona il pensiero (a maggior ragione se si tratta del pensiero altrui).

2. Il filologo tedesco Victor Klemperer, nonostante fosse ebreo, sopravvisse al nazismo – sopravvisse perché era sposato con una donna classificata come “ariana”: perse il posto al Politecnico di Dresda, si adattò a lavori più umili e faticosi, dovette nascondersi, ma sopravvisse. Fino al 1960. Nel 1947 aveva pubblicato un suo diario tutto particolare dove registrava le modifiche nel linguaggio dei tedeschi durante i tragici anni del nazismo. Lo intitolò LTI La lingua del Terzo Reich, dove la elle stava per Lingua – in latino -, la ti stava per Terzii e la i stava per Imperii – uno “scherzo parodistico”, forse inizialmente, che poi, sotto gli occhi, gli si trasformò in una inesorabile realtà culturale.

3. Nel 1925 venne pubblicato per la prima volta il Mein Kampf di Adolf Hitler e già lì, nota Klemperer, si può dire che “la lingua del nazismo fu letteralmente fissata in tutti i suoi caratteri fondamentali”. Più tardi, dal 1933 in avanti, questo repertorio cominciò ad essere usato intensivamente fino ad imporsi a una nazione intera. Il lessico annoverò parole come “Strafexpedition”, “spedizione punitiva”, o aggettivi come “zackig” che venne a designare tutto ciò che richiedeva un impiego di energia massimo ma, al contempo, disciplinato, marzialmente, militarmente disciplinato. Cambiarono i nomi propri – per esempio, abolendo quelli biblici - e, più cresceva il potere di Hitler, più se ne raccontava la vita pubblica – in compenso - biblicizzando il linguaggio. Tanto per dare l’idea: se si annunciava che il Fuhrer, all’una del pomeriggio, sarebbe andato a visitare una fabbrica, sui giornali si scriveva che il Fuhrer, alla tredicesima ora, sarebbe “venuto” ai lavoratori della tal azienda. In pratica, la tesi di Klemperer è riconducibile ad una radicalizzazione del cosiddetto relativismo linguistico. Il dizionario si impadronisce gradualmente di noi che finiamo con il percepire soltanto ciò che ha una designazione bella e pronta servitaci con la prima colazione del mattino e priva di alternative. “La lingua crea e pensa per te” – una tesi che è già stata fatta propria dai vari pensatori che hanno espresso la loro paura nei confronti delle grandi utopie negative – da Zamjatin a Orwell – dove la gente vive anonima e inconsapevole sotto il tallone di ferro e dove il pensiero oppositivo sarebbe pressoché reso impossibile dall’assenza di parole per formularlo.
Fra il tanto d’altro, Klemperer registra anche il successo del prefisso “ent-“ – un privativo che svolge una funzione analoga al nostro “de”. Nel lessico del Terzo Reich le parole con il “de” davanti si moltiplicarono come allorché urge l’esigenza imprescindibile di innovare, di cambiare le cose. A inventarsi una tradizione che giustifichi il tutto c’è sempre tempo. Purtroppo – lo fa notare Klemperer – anche più tardi, a nazismo finito, in Germania, ahinoi, si parlò di “denazificazione”, iterando il succsso del prefisso ent- e, in una certa misura, allora, lasciando trasparire il sintomo di una malattia niente affatto guarita come si pretendeva di dichiarare.

4. Chi, ottimisticamente, ritenesse che, riguardando soltanto ed esclusivamente gli stati totalitari, queste vicende siano morte e sepolte, ovviamente, si sbaglierebbe. In una certa misura, la lingua crea e pensa per noi, esattamente come è stato per loro. Ogni volta che, sui giornali o in televisione, nelle parole del tale o del tal’altro, mi imbatto nell’uso della parola “ideologia” e del suo aggettivo “ideologico”, soffro e, nonostante passino gli anni, soffro e mi arrabbio, mi sento in trappola e sento in trappola i miei cari, sento in trappola l’umanità intera – e mi ribello. “Ideologia” designa semplicemente “sistema di valori” – prima che di questi valori sia stata sancita negatività o positività – nonché, in virtù di un’estensione, designa anche una “progettazione sociale” – prima che di questa progettazione sia stata sancita la negatività o la positività. Bollare – come si fa oggi a destra e a manca – come “ideologico” un argomento e pretendere con ciò di aver messo a tacere l’interlocutore – e lasciarsi bollare, farsi mettere a tacere – è da irresponsabili – nel senso letterale del termine: si assegna un valore negativo a qualcosa senza esplicitare il criterio in virtù del quale questo qualcosa sarebbe negativo. Chi ci sta e chi lo fa – tanto per essere chiari – sono complici almeno in un crimine – quello nei confronti della consapevolezza collettiva, senza la quale – una volta ridotta a nulla la quale – ogni democrazia è mero vaniloquio truffaldino.

5. Nel 1933, Klemperer vede in una vetrina di giocattoli una palla “con su impressa una croce uncinata”. Prima che finisse sulle mutandine e sui reggiseno, più tardi, promulgarono una legge per la “tutela dei simboli nazionali” che proibì il giocattolo e altri usi che, ovviamente, vennero categorizzati come abusi. Ma l’occasione della palla svasticata in vetrina è buona per riflettere sul fatto che, gratta gratta, le merci costituiscono anch’esse un sistema linguistico. Ostensivamente, la merce è simbolo, la merce designa stati d’animo, mentalità, stati sociali – prima che scambiata per il suo uso, la merce è scambiata per il suo significato. Mi si lasci, allora, rivolgere un pensiero sgomento a quei nostri concittadini che, non più tardi di pochi mesi fa – voglio dire: nell’Italia di oggi, in un’Italia di disoccupati e di sottoccupati, in un’Italia ridotta allo stremo dagli sprechi e dai furti dei potenti – si sono messi in fila, a Roma, in un’attesa che per qualcuno è durata una notte intera al solo scopo di poter acquistare un nuovo telefono cellulare. Me ne ricordo uno che, intervistato dalla solerte giornalista di turno, ha dichiarato di essersene comprati due, per millequattrocento euro – il suo stipendio di un mese. Di fronte a costoro – e di fronte a chi li ha resi tali – temo che nessuna analisi possa più niente, perché, per svolgerle, queste analisi, per dirle, per raccontarle, per argomentarle debbono pur passare attraverso un linguaggio articolato e temo che costoro, da tempo, non ne sentano più il bisogno: asserviti, beatamente asserviti, eseguono i consumi ordinati loro senza sentire la pur minima esigenza di sapere perché lo fanno.

6. Il 14 novembre del 1933, mentre registra scrupolosamente l’espandersi della lingua del Terzo Reich, Klemperer si ricorda di un suo viaggio a Copenaghen di venticinque anni prima. Su una nave, erano in molti in coperta, sotto un bel sole. Lui si sta già pregustando la colazione del mattino che presto sarà servita. Ad un dato momento vede una bambina alzarsi dalla sua panca e correre al più vicino parapetto per vomitare. Un attimo dopo si alza la sua mamma, la raggiunge e vomita anche lei. Uno dopo l’altro, tutti i passeggeri finiscono ad affiancare le prime due. Eppure lui, Klemperer, ancora fino al momento in cui è corso via verso il parapetto il suo vicino, pur partecipando della disgrazia altrui, ha continuato a pensare alla sontuosa colazione che l’attendeva. Gli altri erano gli altri, insomma, e lui era lui. Gli altri potevano anche facilmente cader vittime della stessa suggestione, ma lui, fortunatamente, ne era esente. Si diceva che “in fondo esiste un modo oggettivo di osservare”, un modo oggettivo di cui si sentiva “esperto”, e che esiste anche una volontà ferma – come la sua volontà di gustarsi una bella colazione. Fu questione di un attimo, dice, e si ritrovò disperato, a correre verso lo stesso parapetto dove erano già corsi tutti gli altri. Valga per me, valga per tutti.

Felice Accame

Nota
KTI La lingua segreta del Terzo Reich di Victor Klemperer è stato pubblicato da Giuntina, a Firenze nel 2011.