rivista anarchica
anno 42 n. 369
marzo 2012


scuola

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Insegnanti si nasce

Insegnanti si nasce, non si diventa. È pur vero che certe elementari concussioni domestiche, in età infantile e prepuberale, possano condurre a questa scelta professionale perniciosa e dominata da pulsioni masochistiche inspiegabili. Io, per esempio, sono stata cresciuta in un contesto profondamente didattico. La scuola elementare che frequentavo era talmente vicina a casa mia che dalla camera da letto potevo sentir suonare la campanella di inizio delle lezioni: così riuscivo a percepire diffusi sensi di colpa anche quando non avevo l’influenza. Mentre languivo impigrita dalla febbre nel mio letto, c’era gente che lavorava duro.
I miei genitori erano insegnanti di impostazione panottica. Ciò che li rendeva tali non era l’orizzonte particolarmente ampio verso il quale spingevano lo sguardo, ma la tendenza a estendere l’universo simbolico della didattica ad ogni manifestazione della loro vita pubblica a privata. Siamo stati cresciuti tutti e tre – io, mia sorella e mio fratello – a suon di voti e pagelle. Ancora adesso che ha 86 anni, mio padre ricorda con commozione il pranzo che consumavamo insieme, quando ancora non esisteva il tempo pieno, e gli insegnanti lavoravano solo al mattino. Ci radunavamo intorno alla tavola frugalmente imbandita e mia madre interrogava noi figli sui risultati scolastici, imponendoci un resoconto preciso di ogni dettaglio del complesso ménage scolastico dell’epoca. Abbiamo una campionatura di foto con grembiuli e fiocchetti, una per ogni inizio d’anno di scuola. E tutti e tre noi figli abbiamo l’espressione che si definisce correntemente come quella del condannato senza appello. Per mio fratello primogenito è stata durissima. Ha portato i pantaloni all’inglese, come si chiamavano allora, fino in quinta ginnasio. Ha guadagnato l’eschimo solo al primo anno d’università. Leggeva i fumetti di nascosto mentre i suoi coetanei si procuravano riviste porno. E però era il primo della classe. Il controllo poliziesco cui è stato sottoposto ha sortito risultati brillantissimi e lo ha anche indotto a imboccare una strada che non avrebbe mai potuto portare in un’aula di scuola.
Oggi, da medico, ho tuttavia ragione di credere che impartisca segretamente, nel chiuso del suo studio, lezioni ai suoi pazienti.
Io non ho patito un gran che: a parte studiare, non sapevo fare una cippa, e perciò non è che soffrissi tanto a farmi interrogare a scuola dai professori e a casa dai miei genitori. Facevo persino i compiti per mia sorella, l’unica sana di mente in famiglia (e la persona che mi ha salvata dalla tristezza leopardiana in cui stavo sprofondando), che ha capito subito una cosa elementare: con due primi della classe davanti e con due professori insegnanti, non poteva farcela a essere una brava studentessa. Perciò ha scelto di essere una studentessa divertente. Le facevo i compiti di epica, di latino e di francese, però mia madre se ne accorgeva e di norma la suonava come un tamburello.
Ma lei non se l’è mai presa, e ha poi deciso di fare l’insegnante di educazione musicale. È pure brava, devo dire, e lo è soprattutto perché sa ridere ed è la persona meno didattica che conosca.

Sebbene pensionati

Intanto i miei due genitori insegnanti sono cresciuti e invecchiati, e hanno visto cambiare la scuola in modi che ancora oggi ritengono, e non del tutto a torto, una carambolante discesa lungo la scala evolutiva della didattica. Mio padre ha fatto il vicepreside tutta la vita. Aveva un preside del quale ancora oggi ricorda una frase celebre, una stupefacente perla di saggezza. “Ci sono persone che sono nate per comandare, e persone che sono nate per obbedire” gli diceva. “Tu sei nato per obbedire”.
Mio padre, che ha regalato alla scuola la sua parte migliore, ha accettato questa elementare verità, e considera con una serenità per me inspiegabile la rapidità con la quale il suo ruolo fondamentale è stato dimenticato quando è andato in pensione.
Gli studenti di allora ancora vengono a trovarlo e gli portano doni in natura, intrecciando con lui conversazioni sulla coltivazione del pomodoro da salsa (argomento sul quale mio padre, perito meccanico, ritiene di avere una competenza assoluta e superiore a quella di chiunque). Mia madre, anni 83 ed ex insegnante di Lettere, gioca a carte due volte alla settimana con colleghe ottuagenarie alle quali cerca regolarmente di insegnare come si giochi. Ciascuna è convinta di conoscere il gioco meglio delle altre e tenta di inculcare le regole che sa alle compagne di gioco. Ne risultano colluttazioni imbarazzanti. E mia madre esce da questi pomeriggi estenuanti, monta in macchina e dice: “Ho perso 5 centesimi. A quelle vecchie non riesci a far entrare nulla nella testa”.
In sostanza, sebbene pensionati entrambi, i miei genitori non hanno affatto smesso di essere insegnanti. Si sono ammorbiditi e rasserenati, ma hanno conservato la loro pulsione didattica: la convinzione, cioè, di dover insegnare qualcosa a qualcuno, sempre. Per questo sono entrambi molto indignati di questo mondo che non ha nulla da insegnare. E quando una volta, tempo fa, davanti a uno dei Ministri della Pubblica Istruzione che in TV si stava dimostrando incapace di un discorso efficace, io ho commentato: “E prendi una posizione, accidenti. Che ci vuole a evidenziare il fallo?”, mi ha molto stupita sentire il commento di mia madre dalla cucina.
L’adorabile vecchietta, rimestando nella casseruola, stava dicendo: “Evidenziare il fallo? Vediamo: fari da stadio?”.

Nicoletta Vallorani