rivista anarchica
anno 42 n. 370
aprile 2012


antispecismo

I meccanismi del dominio

di Filippo Trasatti e Massimo Filippi
illustrazioni di Luciano Graziosi

Al “Centro studi libertari”, a Milano, il 29 ottobre 2011, si è tenuto un seminario sull’antispecismo.
Pubblichiamo qui la relazione introduttiva.

La nostra intenzione in questo seminario è quella di presentare una tesi “forte” e cercare, per quanto possibile, di articolarla, mostrando che la prospettiva di ricerca che qui si delinea è aperta ad un’ampia serie di sviluppi molto promettenti, ma dai contorni ancora non completamente definiti. Questa tesi ruota attorno alla nozione di antispecismo, nozione che né possiamo dare per scontata né pensare di poterla fissare nella gabbia di una definizione troppo rigida perché, come si vedrà, non solo esistono diversi modi di intendere l’antispecismo, modi distinguibili diacronicamente e sincronicamente, ma anche perché ciò che solitamente passa inosservato sotto questo termine è una realtà complessa e in continuo divenire.
Più agevole è, allora, partire provando a dire che cosa l’antispecismo non è. L’antispecismo non è, e non andrebbe confuso con, l’animalismo in senso lato, ossia con un generico atteggiamento di interesse, rispetto o protezione degli altri animali e, perfino, con il desiderio e la lotta per la loro liberazione. Esiste, infatti, un animalismo liberazionista che non è necessariamente antispecista, ma per il modo in cui noi lo intendiamo, non ci può essere un antispecismo che non sia liberazionista. Non solo per la ragione evidente che la condizione degli altri animali sulla Terra è tanto terrificante da togliere il fiato, ma anche perché questa condizione è il prodotto di forze e dispositivi di dominio, di imprigionamento e di sfruttamento della vita nelle sue varie forme che, una volta riconosciuti e denunciati per quel che sono, non possono che essere contrastati.
La tesi di fondo che sosteniamo può allora essere formulata nel modo seguente: l’antispecismo e la condizione degli animali nella nostra società hanno molto da insegnarci sul dominio intraspecifico e, se usati come una lente di ingrandimento, ci permettono di vedere in opera e con maggior chiarezza i meccanismi del dominio che, per loro natura, si realizzano su piani molteplici. In altri termini, nella lunga storia delle relazioni con gli altri animali e nei modi che abbiamo elaborato per escluderli come altro da noi, si può ritrovare un modello, un paradigma, sulla base del quale possiamo poi giustificare anche la speciazione che fa degli altri umani dei sub-umani, ossia degli animali. E, ancora più importante, la storia dei nostri modi di costruzione dell’animale dà forma all’epistème, per dirla in termini foucaultiani, di ciò che è visibile, dicibile e pensabile come umano.

Specismo/antispecismo

Facciamo un passo indietro e proviamo a vedere brevemente la complessità di ciò che chiamiamo antispecismo, in relazione a ciò a cui si contrappone, lo specismo.
Peter Singer in Animal Liberation (1975) ha definito lo specismo come «pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie» (1) e ha proposto un fanalogia con altre discriminazioni intra-umane quali il razzismo ed il sessismo. Secondo questa prospettiva, lo specismo rientra nella categoria più generale dei pregiudizi, da cui non si discosta per struttura e funzionamento, costituendo una sorta di condizione cognitiva astorica da cui sorgerebbero le pratiche di sfruttamento animale. Sebbene questo aspetto della questione non vada tralasciato, esso non dovrebbe neppure essere considerato esclusivo e prioritario, se si intende analizzare più a fondo il fenomeno “oppressione”. Per restare in ambito interspecifico, gli etnologi, ad esempio, hanno messo in luce un meccanismo di protezione e riconoscimento, che si può denominare ingroup/outgroup, che fa sì che l’appartenenza ad un gruppo venga vissuta ed elaborata come condizione di superiorità rispetto ad altri al fine di rafforzare i legami interni. Analogamente, da un punto di vista etologico, si possono osservare a livello intraspecifico meccanismi di difesa che favoriscono i membri della propria specie rispetto a quelli di altre. Questo, però, non porta come conseguenza inevitabile all’organizzazione del dominio planetario sul vivente, così come l’aggressività non porta necessariamente alla guerra organizzata. Certo, non mancherà mai chi sosterrà la “scientificità” di queste affermazioni; esse infatti sono molto utili per giustificare uno stato di lotta permanente e “naturale”, intraspecifico e interspecifico, eterno e ineliminabile che consente di mettere l’animo in pace (e le mani in tasca) circa la presunta inevitabilità della struttura sociale gerarchica e delle pratiche di dominio che la costituiscono e che l’attraversano. Tuttavia, le affermazioni precedenti non tengono in minimo conto tre aspetti rilevanti che le destituiscono di credibilità:

  1. in “natura”, il modello della lotta e della sopraffazione non è esclusivo, tanto che sono stati descritti modelli alternativi: nell’evoluzionismo, ad esempio, alla prospettiva di Darwin si è affiancata quella di Kropotkin e il mutuo appoggio è complementare e non antitetico alla lotta per la sopravvivenza;
  2. se i pregiudizi identitari di gruppo hanno una ragion d’essere biologica, nondimeno hanno una storia. Non solo, ma quando si pretende di naturalizzare pregiudizi culturali, si fa torto sia alla cultura sia alla storia;
  3. la barriera ontologica tra la nostra e le altre specie, il cosiddetto abisso di specie, è un’invenzione culturale utile per il mantenimento dello status quo, qualcosa che non può più essere sostenuto da alcun punto di vista.
All’idea di specismo come pregiudizio cognitivo, specie-specifico, che enfatizza le differenze e misconosce le somiglianze tra umani e animali, costituendo in tal modo una barriera apparentemente impermeabile tra la nostra e le altre specie, che, a sua volta, ha comportato l’instaurarsi da un lato di una morale specista e dall’altro di pratiche materiali di sfruttamento degli altri animali, più recentemente se ne è affiancata un’altra che sottolinea con forza la differenza che corre tra ideologia specista e pratiche materiali di sfruttamento animale. Si può in questo caso usare come riferimento David Nibert che, in Animal Rights / Human Rights (2002), definisce lo specismo come «’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali» (2). Secondo questa prospettiva, lo specismo non è più un pregiudizio, ma un’ideologia giustificazionista chiamata a render conto di pratiche di oppressione dell’animalità che, per definizione, sono tutt’altro che immodificabili. Di conseguenza, il compito dell’antispecismo non sarà tanto quello di porsi a livello del pensiero astratto e argomentativo al fine di mostrare l’incoerenza del pregiudizio specista, quanto piuttosto quello di individuarne le origini e le vicende storiche per combatterlo sul piano della prassi politica. A una discussione meramente astratta, a volte “scolastica”, incentrata su questioni di “etica applicata”, si sostituisce l’analisi storica, agli argomenti antropocentrici spesso usati nel dibattito animalista ed ecologista, al proselitismo individuale e alle campagne contro singole strutture di sfruttamento, una battaglia politica emancipazionista volta a modificare non solo e non tanto l’ideologia specista, ma soprattutto la struttura sociale che rende possibili e legittima le attuali condizioni di vita degli animali. Ecco perché l’antispecismo che qui cerchiamo di proporre è liberazionista e prevede una liberazione che necessariamente deve comprendere anche gli umani, non solo per il fatto ovvio che è impossibile escludere gli umani dall'ambito animale, ma perché esiste un nesso profondo tra liberazione animale e liberazione umana.

Oppressione condivisa

Al proposito, si consideri l’approccio di Elisabeth de Fontenay che traspare fin dalle prime righe della sua monumentale opera Le silence des bêtes: «Forse viviamo gli ultimi istanti in cui si possa, senza troppa aberrazione, tentare una meditazione sull’animale, sull’animale come l’Occidente l’ha sentito, immaginato, desiderato, concepito in una continuità che è si è già interrotta senza dubbio una prima volta con l’introduzione del cavallo-vapore e una seconda con i mattatoi di Chicago, ma che si è soltanto appena compiuta e infranta sulle rive della nostra vita attuale. Dato che ormai abbiamo il controllo e manipoliamo l’intera “scala degli esseri” non è affatto certo che quelli che continueranno a chiamarsi uomini conserveranno i rapporti con gli altri animali che ci sono stati in passato, dalle ecatombe di Solutré fino alla nascita, se così si può chiamarla, delle pecore clonate di nome Dolly e Polly, e che essi si riconosceranno nelle definizioni della differenza antropologica a cui noi siamo legati» (3). In questo mirabile passaggio, Fontenay riesce a evidenziare alcune delle questioni essenziali che sono in gioco se si vuol ricostruire il nesso tra dominazione interspecifica e dominazione intraspecifica, nesso che ci ha portato al punto in cui siamo – rivoluzione industriale, taylorismo, controllo pressoché totale sulla vita e sui suoi processi – e che descrive molto bene l’accelerazione che il dominio dell’uomo sul vivente e sul non vivente ha acquisito.
Da una prospettiva diversa, John Berger sostiene una tesi simile: «[La] riduzione dell’animale, la cui storia è tanto teorica che economica, fa parte dello stesso processo che ha ridotto gli uomini a isolate unità di produzione e consumo. In effetti, durante questo periodo l’atteggiamento nei confronti degli animali prefigurava spesso quello nei confronti dell’uomo. La visione meccanica della capacità lavorativa animale fu in seguito applicata a quella degli uomini; P.W. Taylor che sviluppò il “taylorismo” studiando il rapporto tempo-moto e la gestione “scientifica” del lavoro industriale, sosteneva che il lavoro dovesse essere “così stupido” e così flemmatico da rendere [il lavoratore] “più simile per struttura mentale al bue che a qualsiasi altra specie”. Pressoché tutte le moderne tecniche di condizionamento sociale si basano su esperimenti condotti sugli animali» (4). Berger non era certo un antispecista, ma è ricorso al medesimo modello comparativo, ha fatto propria una prospettiva analoga a quella di Fontenay e ha cercato di cogliere nella storia dei nostri rapporti con gli altri animali una chiave di lettura di quanto avviene nei rapporti interumani.
Una semplice considerazione storica può inoltre mostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che l’addomesticamento animale è stato quantomeno uno dei fattori che hanno fornito il surplus di energia e di ricchezze che hanno permesso lo sviluppo delle società gerarchiche e classiste, basate sulla divisione del lavoro e su élite improduttive. Pensiamo, ad esempio, agli animali con cui viviamo. Già l’espressione “animale domestico” ci mette di fronte a una delle radici del problema, la domesticazione appunto, ossia quel lungo processo storico attraverso cui abbiamo trasformato animali selvatici e liberi, prima in animali sempre più dipendenti da noi, poi in schiavi al nostro servizio, in macchine per produrre proteine, trasportare acqua, lavorare la terra e riprodursi a nostro uso e consumo. Questo processo coincide, almeno in parte, con quello della modificazione dell’umano in bianco-maschio-eterosessuale-carnivoro e con quello della recinzione delle terre e dell’affermazione del capitalismo che ha espropriato gli “altri” umani e gli altri animali dei “loro” territori, fino a portare molte specie all’estinzione. Quest’ultimo è un lavoro di sterminio ormai quasi ultimato e che, quotidianamente, continua a procedere sotto i nostri occhi con dovizia di rilevazioni, dati e mappe.
Come si può facilmente immaginare, il lavoro di rilettura storica degli intrecci tra dominio interspecifico e dominio intraspecifico è immenso, ancora in gran parte da sviluppare, è un cantiere aperto che richiede analisi storiche di lungo, medio e breve periodo, studio di casi, di punti di rottura e di discontinuità e un approccio fin dal principio interdisciplinare e, soprattutto, non neutro, ossia orientato alla liberazione.

Singolari collettivi

Anche adottando un approccio sincronico si possono vedere all’opera gli stessi meccanismi di proiezione a livello intraspecifico di ciò che avviene a livello interspecifico. Soffermiamoci, ad esempio, sul linguaggio come ha fatto Carol Adams (5), linguaggio analizzato come un repertorio di forme e meccanismi di cattura e assoggettamento cognitivo che permettono di pensare e giustificare il dominio e lo sfruttamento. Da questo angolo visuale, è facile mostrare come ogni volta in cui l’altro (uomo o donna o gruppo di umani) deve essere dominato e sfruttato venga messo in atto un processo di speciazione, che lo rende simile alle bestie che disprezziamo. Anche in questo caso l’elenco dei casi in questione è sterminato e va dall’antichità ai nostri giorni. L’esempio più noto è forse quello degli Untermenschen ebrei, un altro, più recente, è lo sterminio in Ruanda degli “scarafaggi” Tutsi ad opera degli Hutu e un altro ancora è quello dell’impresa coloniale che ha “civilizzato” gli africani che vi resistevano sterminandoli come bestie.
Senza andare troppo lontano, sappiamo bene che i migranti si sentono trattati “come animali”, perché così sono trattati e così sono considerati, e questo dovrebbe farci cogliere cosa significhi vivere da animali in un mondo umano dominato dall’ideologia antropocentrica. È evidente che quelli ricordati non sono meri giochi di parole, che qui non c’è niente con cui giocare, purtroppo. Le metafore, letteralmente, uccidono, permettendoci di giustificare ideologicamente lo sterminio, la dominazione e lo sfruttamento di animali umani e non umani. Se è vero che il linguaggio è un aspetto fondamentale nel dispositivo di speciazione oppressiva, dobbiamo allora imparare a rovesciare il senso comune che utilizza il linguaggio per celare la violenza e i rapporti di dominio che esso stesso mette in atto.
Un esempio evidente di quanto detto è offerto dal termine “carne”, uno di quei termini che Adams definisce «termini collettivi». Con grande lucidità, ella afferma: «Il modo più efficiente per assicurarsi che gli umani non si prendano cura delle vite degli altri animali è quello di trasformare i soggetti non umani in oggetti non umani. È ciò che ho definito come la struttura del referente assente. Dietro a ogni boccone di carne c’è un’assenza: la morte dell’animale non umano del quale la carne prende il posto. Il referente assente è ciò che separa il carnivoro umano dall’altro animale e, questo, dal prodotto finale. Noi non consideriamo il mangiar carne come un contatto con un altro animale, perché l’abbiamo rietichettato come contatto col cibo. Chi soffre? Nessuno» (6). Nella nostra cultura, “carne”, come ratto, scarafaggio e quant’altro, opera come un termine collettivo che definisce intere specie di individui pronti per essere macellati.
Questa “collettivizzazione forzata” è riconosciuta anche da Derrida che, ne L’animale che dunque sono, sostiene che il limite principale della tradizione metafisica è quello di aver ridotto le differenze tra le forme della vita animale a “L’Animale”: dall’altro lato dell’umano non c’è un gruppo di esseri che condividono una comune animalità, ma piuttosto una serie eterogenea di esseri e di relazioni, «una molteplicità eterogenea di viventi, più precisamente (perché dire “viventi” è dire troppo o troppo poco) una molteplicità di organizzazioni e di rapporti tra il vivente e la morte, rapporti di organizzazione e di non-organizzazione di rapporti tra regni che è sempre più difficile scindere nelle figure dell’organico e dell’inorganico, della vita e/o della morte. Questi rapporti, che sono nello stesso tempo intimi e abissali, non sono mai totalmente oggettivabili» (7).

Conclusioni

Quanto detto ci indica una direzione diversa da quella prospettata dall’animalismo mainstream, che potremmo definire “inclusivo”, nel senso che prevede un’estensione del cerchio della considerazione morale attraverso meccanismi di assimilazione degli altri animali alla sfera dell’umano. Al cerchio della considerazione morale che si espande automaticamente e progressivamente verso l’inclusione sempre più ampia di chi all’umano può essere ricondotto si sostituiscono molteplici linee di frattura in continuo rimodellamento sotto la pressione di campi di forza storici, dove il problema non è più il dove si intenda tracciare la linea della considerazione morale, ma il fatto stesso che si pensi che sia necessario tracciarla. Dal presunto inclusivismo progressivo (e progressista) si passa ad una lotta quotidiana contro le forze reazionarie sempre pronte a far recedere dalle posizioni acquisite e all’idea che non si possa escludere in anticipo la potenzialità di qualsiasi “ente”, simile o radicalmente dissimile a noi, di interrompere la nostra persistenza nell’essere, senza che questo riduca l’urgenza politica di un cambiamento radicale dell’attuale condizione animale cui ci mettono di fronte le dimensioni e l’efferatezza del loro quotidiano olocausto. Alla richiesta dell’abolizione di certe pratiche di sfruttamento si affianca così il desiderio di liberazione delle potenzialità dirompenti e misconosciute di un pensiero e di una prassi che si dispongano all’accoglienza di una “comunità a venire” nella quale la ricchezza degli individui, delle specie, delle relazioni, degli incontri non è in alcun modo limitata a priori.
Il pensiero anarchico, con la sua forte spinta politica ed etica alla ribellione contro ogni forma di ingiustizia, con la sua volontà di smontare i meccanismi del dominio a ogni livello e senza preclusioni, potrebbe intrattenere uno scambio proficuo con la prospettiva antispecista qui delineata e diventarne uno degli ingredienti più importanti.

Massimo Filippi, Filippo Trasatti

Note

  1. Peter Singer, Liberazione animale, trad. it. di E. Ferreri, Net, Milano 2003, p. 22.
  2. David Nibert, Animal Rights / Human Rights: Entanglements of Oppression and Liberation, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham 2002, p. 243.
  3. Elisabeth de Fontenay, Le silence des bêtes, Fayard, Parigi 1998, p. 17. Solutré è un sito archeologico risalente al periodo tra il 35.000 e il 10.000 a.C. contenente migliaia di ossa di cavallo, testimonianza di un’epoca di caccia spietata a questo animale.
  4. John Berger, Perché guardare gli animali?, in Sul guardare, trad. it di M. Nadotti, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 13.
  5. Carol J. Adams, The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory, Continuum, New York 2004 (di questo volume è disponibile in italiano solo il cap. 2, Lo stupro degli animali, la macellazione delle donne, in Liberazioni, n. 1, 2010, pp. 24-55).
  6. Id., La guerra sulla compassione, in Massimo Filippi e Filippo Trasatti (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis, Milano 2010, p. 25.
  7. Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, trad. it di M.Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 70.