Ottuso
è il mondo
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C’è un problema
fattuale che di recente mi si è posto con sempre maggiore
urgenza. Il problema fattuale è il seguente: com’è
possibile, in un contesto di insegnamento/apprendimento, impartire
delle cognizioni che non si hanno? È una richiesta
quasi contro natura, come pretendere che Caino insegni l’amore
fraterno.
- Esempio N° 1:
- non molti anni fa, quando
ai maestri elementari è stato imposto di insegnare
inglese, molti di questi maestri con la lingua angla non avevano
mai avuto nulla a che fare, se non nelle interpretazioni apocrife
di Totò, Alberto Sordi e Bob Dylan o i Jefferson Airplane.
I più avanzati conoscevano anche alcune canzoni di
Janis Joplin, chiaramente non riciclabili come filastrocche
per bambini. Siccome è noto che l’inglese è
una lingua facilissima e chiunque può impararla (e
laurearsi in lingue, come ho fatto io), ai maestri in questione
sono state impartite le ore di addestramento linguistico che
si ritenevano necessarie: dalle 6 alle 8, con punte addirittura
di 10, per i soggetti particolarmente volenterosi. Dopo di
che, via in classe, a insegnare le gioie della Britannia!
- Esempio N° 2:
- mi sono laureata a 21 anni col massimo
dei voti e quasi senza sapere cosa fosse il mondo. O meglio:
il mondo l’avevo girato abbastanza, ma non avevo idea
di come si pagasse una bolletta e di che ingredienti ci volessero
per cucinare una torta. Quando feci domanda di supplenza –
ed erano tempi molto diversi – mi convocarono all’istante,
dalle Marche all’operosa Padania, per affidarmi –
tra le altre – una classe quinta di un istituto per
periti aziendali, dove le studentesse avevano appena un paio
d’anni meno di me. Parlavo un inglese oxfordiano, conoscevo
la letteratura britannica e americana, e avrei potuto fare
una sfavillante figura in un liceo scientifico discretamente
quotato. Invece lì dovevo insegnare come gestire, in
inglese, una transazione commerciale, documenti amministrativi,
lettere contrattuali e quant’altro. Insegnavo cioè
a fare in una lingua straniera alcune operazioni che non avevo
idea di cosa fossero in italiano. Ricordo di aver camminato
sul filo del disastro per numerosi mesi. E credo di essermi
resa responsabile, in anni successi e per mano delle mie allieve
di allora, poi diplomate, di alcuni disastrosi scambi di missive
commerciali che mancavano completamente l’oggetto del
contratto, ma lo facevano in un inglese molto forbito e ineccepibile.
Ho consumato in scuole di questo tipo qualcosa come 8 anni
della mia vita professionale di insegnante di scuola superiore,
senza avere la minima idea di cosa stessi insegnando, nella
sostanza. Toccai il fondo quando in una quinta di Istituto
Professionale per l’industria e l’artigianato,
mi ritrovai a parlare in inglese di attrezzi metallurgici.
È stato allora che ho scoperto l’esistenza della
brugola.
- Esempio N° 3:
- ho cominciato a lavorare all’università,
come contrattista e con la funzione di siliconare le falle
del sistema accademico, dopo un dottorato in Letteratura Inglese,
su un autore inglese dell’800. Il primo contratto che
ho avuto in università supportava un corso sul Romanticismo
inglese. Di seguito, prima di diventare ricercatrice, ho insegnato
ogni genere di cosa, studiando (perché sono persona
coscienziosa), e chiedendomi perché quello che sapevo
io lo facessero insegnare ad altri (che probabilmente erano
molto esperti in quello che stavo insegnando io). Poi ho vinto
un concorso come ricercatrice. Oltre a non fare nessuna ricerca
(perché avevo troppa didattica) insegnavo Lingua Inglese,
che a esser rigorosi non è troppo lontano dall’insegnamento
di Letteratura Inglese. Facevo un numero esagerato di ore
a un numero esagerato di studenti. E mi toccava gestire creature
denominate “esercitatori madrelingua”, che sono
una forma di vita complessa, sulla quale mi soffermerò
in altra sede. Oggi, dopo numerosi anni di insegnamento in
università, mi trovo a costatare dolorosamente che
un mio collega anglista tiene corsi di letteratura angloamericana
e un altro mio collega americanista, nella stessa sede, tiene
corsi di Letteratura Inglese. Perché? Non so dirlo.
Per quel che mi concerne, con la gavetta che ho fatto, oggi
posso tenere senza problemi un corso di chimica o, che so,
disegno tecnico per l’illustrazione dei tessuti, purché
sia in inglese. Non è significativa la sostanza di
quello che fai, ma solo la patina formale di cui lo rivesti
E come ci hanno insegnato la vita politica e quella pseudo
culturale in anni recenti, l’importante è figurare:
che poi sia per il bene o per il male, questo non conta.
Un mio collega attuale, in posizione di responsabilità
e slavista, è interdetto dalla crescente pressione
perché l’università eroghi corsi in lingua
inglese. Dopo le ultime, complesse comunicazioni dell’ateneo
a riguardo, lui mi ha confessato di non aver assolutamente
capito una cippa di quello che venga richiesto a noi docenti.
Gli ho rivelato che anch’io navigo nella nebbia. Allora
lui si è rasserenato. “Bene”, ha detto.
“Almeno siamo in due: non tanti per un’associazione
a delinquere, ma un discreto numero per pensare ad aprire
un club (parola in inglese e quindi ben vista per l’internazionalizzazione)”.
Per parte mia, gli ho raccomandato di non andare a dire troppo
in giro che vogliamo formare un club: potrebbero chiederci
di preparare un leaflet, una brochure, un entry package in
ragione del quale spiegare la nostra mission e forse assumere
dei procacciatori di soci. Preferibilmente di lingua straniera
e per noi incomprensibile. Lui ci ha pensato e poi ha concluso:
“Sai, non mi va di fare ostruzionismo perché
non vorrei sembrare ottuso”.
Io: “Non sembri affatto ottuso. Ottuso è il mondo.
Però se vuoi posso dirtelo in inglese, che ci sembrerà
a tutti più chiaro”.
Nicoletta Vallorani |