rivista anarchica
anno 42 n. 373
estate 2012


lettere


Per un anarchismo liberal-socialista

Interessantissimo spunto di riflessione quello di Carlo Oliva (Le proporzioni politiche del cappuccino, nel penultimo numero di “A”, n. 371, maggio 2012) nel descrivere i rapporti tra il Partito Democratico e il liberalsocialismo, concludendo esattamente, che un partito con un'anima comunista (di quella peggiore, staliniana) e una cattolica con il liberalsocialismo, non c'entra una pippa.
Oliva argomenta scrupolosamente le lacune e le devianze di un partito che non possiamo nemmeno definire di sinistra liberale (se non fosse per i pochi Radicali eletti al suo interno e comunque trattati come nemici in casa) ma semplicemente un insieme di quello che resta di varie anime dei più grandi partiti italiani del primo Novecento. Affascinante, leggere su una rivista anarchica, la più nota rivista anarchica italiana, di liberalsocialismo e giustissimo rivendicare, per non dimenticare, la bellezza di un pensiero che ha avuto tra i suoi precursori Gobetti, i fratelli Rosselli, Guido Calogero, Salvemini, Garrone, Pietro Calamandrei, Ernesto Rossi, i firmatari del Manifesto di Ventotene, ecc.…
Tutto ciò cosa ha a che vedere con il P.D.? Proprio un bel niente come conclude Carlo Oliva. Invece su “A” sarebbe proficuo intrecciare e sviluppare un dibattito che si soffermi sui rapporti tra libertari e liberalsocialisti ricordando ad esempio i carteggi tra Camillo Berneri e Carlo Rosselli o tra il Berneri e il Gobetti, oppure l'esperienza del periodico antifascista “Non Mollare”. Interessante far fiorire alla luce di un'esperienza autenticamente liberalsocialista il pensiero anarchico contemporaneo “gradualista” rivendicando un passato comune socialista liberale, libertario e federalista.
Ricerche che a partire da un quadro squisitamente storico, si allargano immediatamente ad un progetto che deve divenire politico. Ha dannatamente ragione quel simpaticone di Stefano d'Errico quando, rimembrando il percorso politico del Berneri, giunge a simili conclusioni nell'analizzare la società attuale dal punto vista libertario. Che si possa parlare di un “anarchismo liberalsocialista”? Sarei curioso di leggere cosa ne pensa Carlo Oliva.

Domenico Letizia
Maddaloni (CE)



A proposito di Cucchiarelli, “informali” e stelle

(...) Per quanto riguarda il libro di Cucchiarelli (che non leggerò!! preferisco la serie di Harry Potter) penso che se gli inquirenti dell'epoca avessero avuto sottomano le stesse informazioni con cui riempie il suo libro ne avrebbero approfittato, e ben volentieri, a suo tempo. Mi sembra chiaro che vi fosse un tentativo di incriminare gli anarchici non foss'altro che per il fatto di dare in pasto alla pubblica opinione dei colpevoli fatti su misura, anche per la loro storia centenaria. Perché mai non ne approfittarono? Forse per lasciare lo “scoop” delle due bombe a Cucchiarelli? Boh!
È curioso perché proprio oggi mi sono riletto il “famigerato” documento Ponte-Anarres (pubblicato su “A” 99, marzo 1982); e anche se un po' stagionato in alcune parti potrebbe riferirsi benissimo anche a codesti ‘informali'.
Anche qui vi sono un paio di cose che mi colpiscono. La prima è quella A che invece di essere inscritta in un cerchio si ritrova dentro una stella. La stella non mi sembra fare parte della tradizionale simbologia anarchica, anzi, l'ho sempre vista associata al bolscevismo. I soldati dell'armata rossa sovietica e quelli dell'esercito cinese la portavano sui cappelli!! La dinamica dell'agguato poi sembra ricalcare quella degli attentati fatti dai vari gruppi marxisti d'un tempo.
La seconda è che gli imbrattacarte (giornalisti) che ancora oggi stanno attentissimi ad evitare di lasciarsi andare ad associazioni tra i brigatisti e il comunismo (e che cos'erano sennò?) siano meno ossequienti quando si tratta di anarchici, o presunti tali, e alla fine fanno un gran bel minestrone. È ben vero che il peso “polemico” del PCI buonanima è sempre stato maggiore di quello che avrebbero avuto, o hanno, gli anarchici (...)

Patrizio Biagi
Pontremoli



Un anarchico col trattino in mezzo, forse

Questo è il mio settimo e ultimo intervento nel blog del Sole 24 Ore. Ho scritto sempre alla fine della giornata. Dopo lo spettacolo. Dopo essere tornato dal teatro. Dopo mezzanotte, alle volte. Quasi sempre verso le due o le tre e anche le quattro.
Ho parlato della carbonara, di come cucinare è una forma di oralità che non tende alla perfezione della produzione artistica, ma si immagina come parte di un flusso.
Ho parlato del suicidio in carcere e di come un suicidio con una bustina della farmacia tentato da un boss mafioso si prenda le prime pagine dei giornali, mentre chi s'ammazza davvero nelle galere non finisce nemmeno tra gli annunci mortuari.
Ho detto qualcosa su quello che qualcuno chiama teatro civile, una definizione che è ormai entrata nel vocabolario retorico di questi anni.
Ho ricordato l'articolo di Alessio Lega sul 25 aprile, il suo bisogno di “canzoni necessarie” come parte di “una storia ben lungi dall'essere finita”. Una necessità di rimettere insieme i pezzi. Un'arte quotidiana che ci ricolloca in maniera sensata.

Ma ho parlato anche del mio spettacolo Pro Patria, che in questi giorni è in scena al Piccolo di Milano nel quale si parla di un Risorgimento che è stata una storia di galera e lotta armata. Non era una provocazione. E non era provocatorio nemmeno quando scrivevo “Non penso che in questo paese qualcuno dedicherà un vicolo a Renato Curcio” perché davvero credo che sia inutile e anche pericoloso archiviare quel decennio sotto la voce anni di piombo perché poi il piombo ritorna. Leggendo la rivendicazione della gambizzazione di Roberto Adinolfi è difficile non pensare che una lettura approfondita di quegli anni sarebbe stata indispensabile già da molto tempo. A leggere in quel comunicato frasi come “Pur non amando la retorica violentista con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani, con piacere abbiamo riempito il caricatore” viene da pensare a Moretti che quaranta anni prima diceva a Curcio (almeno così ci viene raccontata da un'inchiesta parlamentare) “siamo così carichi di odio che le nostre pistole sparano da sole”. Ci si chiede se la Federazione Anarchica Informale non voglia essere, al pari delle BR, alla guida di una massa che (dal suo punto di vista) potrebbe essere già pronta alla rivolta e che presto diventerà un “popolo in armi contro ogni forma di oppressione statale, politica, economica”. Ma cosa c'entra questo con l'anarchia? Le Brigate Rosse erano un partito armato e come tale puntavano ad essere avanguardia e guida di un movimento. Ma l'anarchico è tale proprio perché non considera serio il concetto di rappresentanza. L'individuo anarchico non accetta di rappresentare, né di essere rappresentato. La formulazione e l'esecuzione di una condanna è propria della logica più statalista che gli ultimi due secoli passati siano riusciti ad immaginare. La logica dei gulag sovietici come della sedia elettrica americana, della condanna a morte di Roberto Peci come dell'uccisione di Walter Alasia e della strage di via Fracchia. E sempre nell'ottica marxista di una storia che deve procedere in maniera lineare verso una società senza classi (e dunque spostando sulla terra quel paradiso che i cattolici immaginano in un tempo ultraterreno), anche questi che rivendicano la gambizzazione di Adinolfi dichiarano che il loro “sogno è quello di un umanità libera da ogni forma di schiavitù, che cresca in armonia con la natura”. Chi lo sa…  forse anche io sono uno di quegli anarch-isti (così definiscono gli anarchici che non sparano) “che solo nella teoria e nel presenzialismo ad assemblee e manifestazioni trova la sua realizzazione”. Sarò forse un anarchico col trattino in mezzo, ma nel nichilismo futurista di chi sostiene che “impugnando una stupida pistola abbiamo fatto solo un passo in più per uscire dall'alienazione del «non è ancora il momento…»” ci vedo un'ansia di potere che non ha nulla di differente rispetto a quello di una guardia che, stressata dal nonnismo di caserma e dal sudore per una divisa blindata, scende dal cellulare e spacca la testa al primo manifestante.

Sono anarchico? Con o senza trattino? Non lo so. Ma ritengo che un anarchico debba pensare che ognuno è libero di liberarsi nella maniera che ritiene più opportuna. Che ognuno è libero anche di non liberarsi affatto. Che lo stato non va abbattuto, come pensavano i rivoluzionari comunisti nel Novecento (secolo nel quale, forse, quella rivoluzione aveva ancora un senso), ma che va semplicemente ignorato, disconosciuto. Che l'anarchico non ha bisogno di regole imposte, non perché sia contro gli altri, ma perché è contro le regole e l'imposizione. Perché non ha bisogno di leggi da rispettare per essere rispettoso dell'altro. Perché non ha bisogno né di un codice penale, né del quinto comandamento per astenersi dall'uccidere. “Impugnare una pistola, scegliere e seguire l'obiettivo, coordinare mente e mano sono stati un passaggio obbligato, la logica conseguenza di un'idea di giustizia” dicono. Ma è così? Un anarchico non pensa di essere un uomo giusto che in nome di una giustizia qualsiasi diventa giudice. Un anarchico non accetta che qualcuno vesta la toga e giudichi qualcun altro in nome di una legge superiore, quando il rapporto di egemonia-subalternità è comunque tutto a sfavore dell'imputato, in quanto non viene giudicato per ciò che è, ma per ciò che ha fatto.
Chi impugna la pistola pensando che quel “piombo nelle gambe” sia “un piccolo frammento di giustizia” esercita lo stesso potere che apparentemente dice di odiare. Invece di opporsi alla violenza dello stato, delle multinazionali, del sistema finanziario, del mercato… ne contesta il monopolio alla ricerca di una liberalizzazione della violenza.

Insomma, mi pareva utile approfondire questo argomento che ha attraversato, almeno in parte, i diversi momenti di questo blog nell'ultima settimana. Anche perché la relazione tra chi ha il potere e chi non ce l'ha è uno dei temi che attraversano anche il mio lavoro da quindici anni.

Ma non perché i detenuti o gli operai, i rinchiusi nel manicomio o i contadini, i lavoratori precari o gli internati nei campi di sterminio siano più interessanti di chi li sfrutta e li uccide. Bensì perché l'essere umano somiglia più alle vittime che non ai carnefici. Nella vittima c'è un'umanità che è fatta di debolezza e ironia. L'ironia di chi vede l'incorreggibile incongruenza della vita e l'impossibilità di ridurla ad un qualsiasi tipo di ordine. La debolezza di chi non usa la forza perché la considera effimera e patetica.

È in questa debolezza che ho cercato di indagare sia per costruire storie che per cercare un punto di vista. Accorgendomi che chi non ha il potere non è per forza sprovvisto di tutto. Può non essere potente, ma essere comunque molte altre cose. In un'intervista ad una contadina ho registrato un racconto sulla guerra che iniziava con la frase “nel nostro cortile c'era anche la villa del padrone”, come se la villa fosse nel cortile della casa dei contadini. Mentre in realtà era il contrario. Era la loro casa che stava nel cortile della villa padronale, ma dal suo punto di vista la dimora del padrone era un oggetto lontano e molto più piccolo della sua piccola casa. Annamaria, così si chiama, gestiva un punto di vista, una visione sul mondo. Non aveva bisogno né di conquistare, né di abbattere la casa del padrone. Semplicemente ne ignorava l'importanza e non ne legittimava l'egemonia. Lo statuto del circolo “Gianni Bosio” che da anni si occupa di ricerca antropologica, ma anche di produzione culturale in relazione diretta con l'ambiente che evocava Lega nell'articolo citato nel mio terzo intervento, tra le prime righe della premessa si pone come obiettivo (in continuità con un lavoro iniziato più di quaranta anni fa) “la conoscenza critica e la presenza alternativa della cultura, della memoria e dell'espressività orale e musicale delle classi non egemoni”. NON EGEMONIA dovrebbe essere un obiettivo non solo dell'anarchico, ma di qualsiasi persona intelligente e adulta perché non è accettabile che sia tanto facile diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.

Ascanio Celestini
Roma



Carceri/Quando invece si uccide un banchiere...

L'amore è l'unica forza capace di trasformare un nemico in amico”. (Martin Luther King)

Di Vittorio Zucconi, La Repubblica, 11 Maggio 2012:
Premessa per evitare equivoci. Ogni persona che arriva alla decisione di togliersi la vita merita la nostra pietà umana, quali che siano le sue ragioni e la sua storia. Ma perché le centinaia di detenuti, cioè di individui affidati alla nostra custodia, ripeto, custodia, detenuti in carcere che si uccidono e magari neppure entrano nelle statistiche per cavilli formali (non è morto in cella, ma in ospedale a causa del trauma riportato nel tentativo di uccidersi, per esempio) non provocano brividi di sdegno o di attenzione e non increspano spesso nemmeno l'oceano della Rete?
Forse perché sono esseri umani da buttare, escrementi sociali? Sono condannati, qualcuno naturalmente obietterà, anche se a volte si tratta di detenuti in attesa di giudizio dunque formalmente innocenti come ci ripetono tutti i manigoldi sorpresi con le mani nel bussolotto pubblico. Giusto, ma condannati a morte? O si ignorano perché non possono essere usati come carne da cannone televisivo e come munizioni politiche da sparare contro questo o quel partito politico, essendo un peso che sta sulla coscienza di tutti i governi e di tutti i vecchi o nuovi politicanti che non ne parlano, dunque nostra?

Dottor Zucconi, sono “Un uomo ombra”, un ergastolano ostativo, un cattivo e colpevole per sempre, mi permetto di risponderLe io.
Saprà che molti detenuti sono spinti a disegnare e a scrivere i nomi dei propri cari, poesie, insulti e preghiere nei muri delle loro celle.
E per esperienza diretta, per essere stato in centinaia di celle, Le testimonio che ho trovato spesso scritto dappertutto questa frase: “Meglio morto che prigioniero”.

Dottor Zucconi, alcuni detenuti fra la paura di vivere e quella di morire non scelgono né l'una né l'altra.
E i vigliacchi come me si accontentano solo di sopravvivere.
I più coraggiosi che invece amano e rispettano tanto la vita non riescono a sopportare di vederla appassire, nell'illegalità istituzionale e umana, dentro l'Assassino dei Sogni (il carcere, come lo chiamo io) e scelgono di morire.
E, mi creda, non è facile morire e rinunciare a tutto ciò che ami, io non ho questo coraggio, ma non Le nascondo che certe notti questo coraggio lo vorrei avere.

Dottor Zucconi, è vero, se s'impicca un detenuto, nessuno ne parla, pochissimi ci fanno caso e tutti rimangono indifferenti, se invece s'impicca un imprenditore, un politico, un banchiere, apriti cielo!
Questo semplicemente perché si può essere criminali ed essere brave persone invece si può essere persone perbene ed essere criminali.
E poi i “buoni” è difficile che abbiano pietà e con la scusa di chiedere giustizia cercano vendetta e i politici li accontentano per avere i loro voti e rubare meglio.

Dottor Zucconi, complimenti per il suo articolo e Le mando un sorriso fra le sbarre.

Carmelo Musumeci
Carcere Spoleto,
maggio 2012
www.carmelomusumeci.com



L'Archivio Storico FAI e la FAI “informale”

La Federazione Anarchica Italiana (FAI) è stata fondata nel Congresso di Carrara del 1945. Gli uomini e le donne che dettero vita a questa organizzazione provenivano in gran parte dall‚esilio, dal carcere, dal confino, dalla esperienza della lotta partigiana. Caduto il fascismo, che aveva colpito negli anarchici uno dei suoi irriducibili nemici, l'organizzazione libertaria poté riprendere il cammino sulla strada della libertà, dell'eliminazione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, della emancipazione morale e materiale degli oppressi.
Da quella data, la Federazione Anarchica Italiana non ha mai cessato di fare sentire la sua voce, anche pubblicando ininterrottamente il giornale “Umanità Nova”, senza tentennamenti, senza ambiguità e non ha mai cessato di lottare, a viso aperto, per raggiungere le proprie finalità. Contro l'autoritarismo, contro la delega, contro ogni forma di potere, per la presa di coscienza individuale e collettiva, per una società più giusta e più umana.
Principio fondamentale della sua azione e della sua presenza, la coerenza malatestiana fra i mezzi e i fini: lotta contro l'autorità senza mezzi autoritari.
Durante tutti questi anni, come negli ultimi tempi, non sono mancati gli attacchi portati alla Federazione Anarchica Italiana, sia da parte di un potere minacciato e delegittimato nei suoi presunti valori morali, sia da parte di impresentabili avanguardie (i cosiddetti “anarchici informali”), convinte di poter indicare, nel loro delirio di forza, potere e violenza, la strada da percorrere. Una strada fatta di violenza e potere non può portare che a una società violenta e autoritaria. Del resto la pratica vigliacca e infamante di usare la sigla della Federazione Anarchica Italiana serve solo per generare confusione e aprire la strada alla repressione, ed è chiaro indice della miseria morale di questi presunti libertari. Se non della loro equivoca natura.
Storicamente, la Federazione Anarchica Italiana non è mai stata né mai ha voluto essere avanguardia di nulla e di nessuno, non è mai stata né mai ha voluto essere “giudice” e boia ma ha sempre duramente combattuto chi pensava di rappresentare gli interessi del mondo degli sfruttati ergendosi a giudice e giustiziere. Anche recentemente, in questi ultimi anni, di fronte alle continue miserabili provocazioni di cui è stata oggetto, non ha mancato di fare sentire la sua voce ed esprimersi chiaramente al proposito. Così come riteniamo si debba continuare a fare.

La Commissione Archivio Storico della Federazione Anarchica Italiana
Via Fratelli Bandiera,19
40026 IMOLA (BO)
info.asfai@libero.it www.asfai.info



Il pensiero anarchico: pertinente

Mi ha colpito l'articolo di Carlo Galli sull'anarchia. Si tratta di una lezione scolastica sull'idea anarchica o, meglio, sul comportamento anarchico, che non manca di citare i classici e i mistici del pensiero libertario, a partire da Proudhon e da Tolstoj. Quello che mi sorprende non è l'approccio storico-divulgativo, ma la superficialità con cui Galli liquida una sorta di buonismo anarchico e, soprattutto, il fatto che egli limiti la sua esposizione ad un passato remoto, come se il pensiero libertario e anarchico non si fosse mosso di lì, non abbia vissuto trasformazioni né abbia partecipato all'esistenza politica dell'occidente sino ad oggi.
Il pensiero anarchico non è buonista, ma è faticoso. Esso pretende che l'uomo, individualmente e collettivamente, sia capace di liberarsi dalle dinamiche del potere. In tutte le sue sfaccettature, il pensiero anarchico richiede un lavoro duro, doloroso, difficile, privo di garanzie per il presente e per il prossimo futuro. Una cosa inconcepibile per un'età moderna che pretende la rapidità del gioco causa-effetto ed esilia in lussuose località turistiche ogni riflessione che abbia a che fare con coscienza, inconscio, verità. Non a caso, mi sembra, esso condivide la medesima sorte dell'altra grande reietta della contemporaneità, la psicoanalisi che, sul versante clinico, richiede ugualmente un lavoro difficile, lungo, periglioso e di sicuro senza garanzie di un prossimo futuro.
Ma soprattutto, il pensiero anarchico ha continuato a vivere e a svilupparsi ben oltre i limiti di tempo in cui Galli lo rinchiude, dipingendolo alla stregua di un felino inquieto e perennemente indeciso tra le fusa e un colpo d'artiglio. Oggi esso è anzi più attuale che mai, fatta eccezione per le persone che, in nome di un'anarchismo antico e insensato, rabbioso e narcisista, usano le armi inneggiando all'A cerchiata. Da pensatori ascrivibili alla sfera libertaria statunitense nasce buona parte della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione e ben 40 anni fa gli anarchici statunitensi parlavano di un utilizzo del web in chiave di democrazia diretta, strada che conduce dritta all'anarchia intesa come organizzazione che si eserciti senza potere.
Le grandi menti che si stanno occupando delle trasformazioni legate allo sviluppo tecnologico parlano di anarchia e non d'altro quando ventilano la possibilità di uno scivolare dell'individuo nella collettività e viceversa senza strappi né ferite, della possibilità di vivere un'intelligenza ampliata dalla cooperazione delle nostre menti e di una cooperazione che per funzionare abbia bisogno non di limitare l'Altro, ma di permettergli la maggiore libertà possibile di studio, immaginazione e riflessione. Di anarchia parla anche chi si occupa marginalmente del web, ma lo concepisce come strumento di collaborazione tra piccole realtà autogestite, società che seguono pensieri di decrescita anziché di produzione e consumismo. E di anarchia parlano quanti discutono oggi sulle forme familiari della nostra società, sui loro cambiamenti, sulle prospettive di nuove aggregazioni.
L'anarchia non è mai stata così viva, e alternativa, e possibile. Certo, in chiave globale essa deve misurarsi con società che hanno ben poco a che fare con quelle del principio del XX secolo, anche se continuano ad esistere i Bava Beccaris e i Trotskij, così come d'altronde, i Savonarola. Ma non c'è dubbio che il pensiero anarchico sia oggi pertinente. Non perfetto, non ideale, non condivisibile da tutti, ma pertinente.
Ecco perché stupisce una lezione, sia pure ben fatta, su Proudhon, Bakunin e Tolstoj, pace all'anima loro.

Paolo Marasca
Milano



Anche i terremoti insegnano qualcosa...

Due cose conferma la tragedia di questo ennesimo terremoto (20 maggio).
La rilevante sismicità del nostro paese: e quindi l'insensataggine di realizzarvi talune precarie e arrischiate “grandi opere” che agli effetti primari e inevitabili dell'evento naturale possono aggiungere conseguenze catastrofiche (Fukushima docet).
La fragilità dell'esistenza umana, e quindi il dovere della solidarietà che l'intera umanità unisce, che ogni singola persona riconosce e raggiunge e sostiene.
Cessare di sperperare risorse per la guerra e le uccisioni.
Rispettare l'ambiente che vive.
Salvare le vite, recare aiuto a chi soffre.
Scegliere la nonviolenza: solidarietà operante in difesa della vite, della dignità, dei diritti di tutti gli esseri umani e del mondo vivente casa comune dell'umanità intera.

L'associazione “Respirare”
Viterbo, 20 maggio 2012

L'associazione “Respirare” è stata promossa a Viterbo da associazioni e movimenti ecopacifisti e nonviolenti, per il diritto alla salute e la difesa dell'ambiente.
Per informazioni e contatti: c/o Centro di ricerca per la pace e i diritti umani,
e-mail:
info@coipiediperterra.org e nbawac@tin.it
siti:
www.coipiediperterra.org e http://lists.peacelink.it/nonviolenza/


Quel film, i miei ricordi, il mio interlocutore Pino

Ho avuto giornate un po' intense, per diversi motivi, così non sono riuscita a scrivere prima e con calma le mie impressioni e riflessioni sul film “Romanzo di una strage”.
Dopo aver letto diverse recensioni favorevoli, sfavorevoli o così così, cerco di dire la mia il più chiaramente possibile.
Innanzi tutto devo decidere da che parte mettermi, ossia: sono una spettatrice che vede un film o sono una persona emotivamente, politicamente, e persino storicamente coinvolta nel soggetto di cui tratta il film?
La spettatrice dice “che bel film”. Attori bravi, drammaticità e persino suspence molto coinvolgente. Se la spettatrice avesse una trentina d'anni, sarebbe contenta di sapere come sono andate le cose che riguardano una vicenda di cui ha sentito di tanto in tanto parlare, ma di cui non ha mai avuto chiaro né le origini né tanto meno la fine. Ora finalmente sa che c'è stato un momento in cui la destra eversiva italiana ha cercato, con l'aiuto di parti importanti dello Stato e di più servizi segreti stranieri, di creare un clima di paura tale da rendere necessaria una reazione politica e militare, simile a quella che c'è stata poco prima in Grecia (di cui peraltro non sa molto). A causa di ciò, ci sono stati molti morti e tra loro anche un anarchico che non c'entrava per niente. Sa anche che a tutt'oggi lo Stato non ha reso giustizia alle vittime di una strage, se non con sentenze che sì, hanno detto chi sono stati i colpevoli manovali, senza però poterli condannare giuridicamente, grazie ai molti depistaggi che ci sono stati negli anni in cui si è trascinato un processo che nessuno ha voluto o potuto realmente portare al suo fine.
Io: ai miei quasi 62 anni. Ne avevo 19 al tempo di piazza Fontana. Frequentavo il circolo anarchico Ponte della Ghisolfa da poco più di un anno. Leggevo, discutevo, ciclostilavo e distribuivo volantini che in quel periodo riguardavano prevalentemente i compagni anarchici che erano in carcere, accusati delle esplosioni (niente a che vedere con la bomba di piazza Fontana e le altre dello stesso giorno) alla Fiera di Milano il 25 aprile del ‘69 e quelle dell'estate sui treni. Il circolo era frequentato da un popolo eterogeneo. Gli anarchici più “intellettuali”, quelli che trovi ancora oggi alla libreria Utopia; molti giovani che trovavano rifugio a volte anche occasionale, in cerca di qualcuno o qualcosa che ascoltasse il loro disagio sociale o a volte semplicemente familiare e che spesso, non trovando sfogo ad un desiderio di violenza (che si immaginavano implicita in un circolo anarchico, grazie all'iconografia imperante degli anarchici bombaroli) se ne andavano in cerca di altre accoglienze meno pacifiste; alcuni “vecchi” anarchici (a 19 anni, uno di 40 ti sembra ovviamente vecchio, non vi dico uno di 60 o più!) che ancora amavano parlare di Bakunin o Prudhon, ma non solo. Mio interlocutore privilegiato nelle discussioni era Pino Pinelli. Pino aveva il dono di parlare con i giovani senza supponenza, facendoti sentire alla pari e non un discepolo, né un cretino che non sa niente. Per me è stato un maestro di vita, purtroppo per troppo poco tempo. Da lui ho avuto consigli di lettura e esempi. Lui si occupava attivamente dei compagni in carcere, tramite Croce nera. Aveva iniziato da non molto a parlarmi, insieme ad un altro compagno, Ivan (che ha la sua importanza poi parlando del film), anche di ciò. Vedeva che avevo idee ancora confuse ma su alcune cose chiare. Oggi, che non mi sento più parte del Movimento anarchico, quelle idee sono ancora intatte dentro di me. Pino vedeva la mia resistenza alle prese in giro degli altri giovani, che arrivavano al circolo in eskimo e il più “stracciati” possibile. Io arrivavo con i miei vestitini da ufficio e non me ne fregava niente di sembrare diversa da loro. Pino mi parlava della suddivisione del lavoro, del braccio che doveva essere interscambiabile con la mente, capiva che anche io cercavo la mia collocazione politica e sociale ma non la violenza e mi rendevo conto che si fidava di me da come mi parlava sempre più anche di ciò che faceva lui, del suo lavoro in ferrovia e del suo lavoro con Croce Nera, dei ragazzi che passavano come fulmini dal circolo e poi sparivano, della sua paura che si perdessero nel mondo della droga o della violenza, che fosse di strada o politica. E vedeva anche la sufficienza con cui mi trattavano “gli intellettuali” e allora mi avvicinava e attaccava a parlare, magari de La fattoria degli animali o di Thoureau.
Vabbè, ma che c'entra tutto ciò con il film? Giusto, era solo per dire che per lo meno Pino lo conoscevo bene. E non mi è piaciuto come è stato rappresentato nel film. Ma andiamo con ordine.
Nel film non sono rappresentate molte cose. Il clima pesantissimo che si respirava a Milano, oramai da mesi. Le manifestazioni che si succedevano, sia da parte degli operai sia da parte dei lavoratori, o entrambi negli stessi interminabili cortei, in cui veniva urlato il diritto alla casa, insieme a molti altri diritti. Nella manifestazione del Lirico, dove è morto Annarumma, Calabresi sembra l'unico che si preoccupi che non ci fossero vie di fuga per i manifestanti! Peccato sia arrivato troppo tardi, sembra dire il film. Beh, io lo ricordo in tante occasioni ben diversamente. Decisionista, arrogante, violento a parole e gesti. E i caroselli dei gipponi anche sui marciapiedi, tra la gente che cercava una via di scampo, erano all'ordine del giorno.
Mi ha molto infastidito quell'entrare nella vita privata di Calabresi e mostrarlo perfetto marito e padre, in modo da rendere altrettanto credibile la sua amabilità nei confronti di Pino, unico tra tutti ad essere da lui rispettato al punto da infondergli il desiderio di poter avere con lui un rapporto di amicizia. L'episodio dello scambio di libri ne è un esempio chiaro quanto non vero. Le cose non sono andate come raccontato e quindi la verità è stata volutamente distorta. Perchè?
Ivan, di cui dicevo sopra, ha testimoniato al processo Calabresi/Lotta Continua che Pino si sentiva minacciato da Calabresi, il quale gli aveva chiaramente detto che “prima o poi riesco ad incastrarti una volta per tutte”. Neppure un cenno nel film, anzi.
Il mio giudizio su Calabresi è che non era neppure troppo sveglio nel suo lavoro. Per mesi e mesi ha continuato a perseguitare e incarcerare gli anarchici per le bombe precedenti a piazza Fontana, solo perché lui era vice-responsabile dell'ufficio politico della questura e quindi non ha fatto altro che seguire il cammino noto: gli anarchici sono perfetti colpevoli, per tutti – che tanto non gliene frega niente a nessuno – e per tutte le stagioni – idem, come prima. Nel film sembra, oltre che un ottimo marito e padre, un bravo poliziotto, pieno di buona volontà nello svolgere il suo lavoro, abbandonato dai suoi superiori ma ligio alla sua funzione al punto da “dovere” mentire dopo la morte di Pino. La sua arroganza, il suo arrivismo, noti dentro e fuori la questura, spariscono nell'interesse del plot narrativo del romanzo. Calabresi alla fine capisce alcune cose, ne è deluso al punto di voler cambiare, o essere forse costretto a cambiare, lavoro alla fine della sua personale inchiesta... Viene anche distorto il fatto che lui fosse diventato un personaggio scomodo non perché si stesse avvicinando alla verità, ma perché il processo Calabresi/LC rischiava di portare alla luce i motivi non solo della morte di Pino, ma anche dell'accanimento verso la pista anarchica, ossia dei colpevoli pre-costruiti per coprire le trame in atto. Avrebbe forse fatto sorgere qualche dubbio anche sulla sua uccisione? Infatti, in nessuna recensione da me letta viene neppure sfiorato l'argomento.

Per contro, Pino viene fatto passare come un ingenuo, che non si si rende conto della doppiezza di alcune persone, vedi Nino Sottosanti (detto il fascista, chissà come mai...) o di Valpreda. La scena in questura, prima del suo ultimo interrogatorio, quando parla con un compagno delle foto dei fascisti e degli anarchici, affisse in un unico tabellone, è emblematica. Io non ho conosciuto Valpreda prima dei fatti, l'ho conosciuto solo successivamente alla sua scarcerazione. Non mi è sembrato così bauscia/pirla come viene descritto nel film (però è vero che tutti cambiamo e magari lui prima era diverso, chissà), ma nel film viene non solo descritto come un pirla, ma fino all'ultimo si insinua che in qualche modo sia stato tirato dentro, appunto grazie alla sua stupidità. Si parla dell'esplosivo che lui aveva nascosto per una qualche azione dimostrativa facendo capire che potenzialmente pure lui era un terrorista al pari di chi ha fatto saltare la Banca. Si sta parlando di una persona che si è fatta più di tre anni di galera! E solo perché era un po' bauscia, oltre che ballerino anarchico (!), come è passato alla storia e come se essere ballerino fosse una variabile all'interno del movimento anarchico.
Anche la rappresentazione di Moro lascia un po' a desiderare. Che successivamente, nella vita reale, durante la sua prigionia, abbia capito e criticato e condannato, non lo assolve dalla sua colpa di essere stato complice nel coprire la verità, nel non permettere che un giusto processo venisse celebrato e concluso. Colpa che è successivamente ricaduta anche su di lui, oltre che sulle tante vite umane che si sono perse, e su noi tutti che abbiamo pagato con anni di sangue e decenni di DC al governo, che hanno permesso clientelismo, affarismo e impunità, nella certezza che si potesse fare qualsiasi cosa in Italia perché tanto certe verità sarebbero sempre state occultate per poter mantenere lo status quo. Fino alla caduta del muro, ecc. ecc. E Moro non è stato una vittima innocente, non nel 1969, ma un complice.
Avrei tante altre cose da dire, sugli infiltrati, sui servizi segreti, su Giannettini che non viene ben inquadrato nella sua importanza e nei suoi legami, sui fascisti veneti che anche loro vengono fatti passare un po' come fanatici invece di puntare su chi realmente li ha usati, sulla figura di Lorenzon anche lui descritto come un debole e non come una figura centrale della contro-indagine, mancano altri personaggi che se pur sono stati al margine della storia, non sono meno importanti per rendere il clima degli anni, personaggi (ma nella realtà persone) che sono state fatte fuori, finti suicidi e finti incidenti nel Veneto nero... e certamente mentre scrivo mi dimentico di qualcosa altro, ma a questo punto potrei anche io scrivere un libro (seppure non un romanzo).

Milano, 20 dicembre 1969 – I funerali di Giuseppe
Pinelli. Al centro Viviana De Luca, autrice della
testimonianza pubblicata in queste pagine

Il mio giudizio finale, il mio da persona vicina ai fatti, è che questo bel film rientra in un clima del tutto attuale di revisionismo delle colpe, di buonismo perdonista che mi infastidisce. Non è che perché sono passati tanti anni e i due protagonisti sono entrambi morti, li si deve assimilare nella storia in due persone diverse ma altrettanto in buona fede. La verità non cambia, neppure dopo 43 anni. Valpreda non c'entrava per niente, le due bombe del film sono una suggestiva ipotesi funzionale alla narrazione.
Pino è entrato vivo in questura ed è uscito da una finestra, certamente non per sua volontà.
E Calabresi ha detto che Pino era fortemente indiziato, ha sostenuto la tesi di tutta la questura, oltre ad averlo perseguitato ed intimorito per mesi, prima.
Non mettiamoli sullo stesso piano, neppure in un romanzo o in un film.
Ecco, ho impiegato un po' di tempo a fare la mia “recensione”... volevi almeno un paio di aggettivi, temo di averne messo qualcuno in più. un bacio

Viviana De Luca
Spagna

 


Il ritratto di Serantini

Caro Paolo, cari compagni,
quello che vedi è un ritratto di Franco Serantini, così come siamo abituati a conoscerlo, a riconoscerlo dalla copertina di un prezioso libro che lo riguarda, “Il sovversivo” di Corrado Stajano. Molti anni fa, una vita fa, quando Franco era nostro coetaneo, più di quanto non lo sia rimasto adesso, quarant'anni dopo: lui ancora ventenne nel ricordo, intatto, i capelli lunghi sopra le spalle, la maglia “alla Serafino”, il ciondolo di cuoio al collo, e, quanto a me, quanto a molti di noi, ormai cinquantenni, e forse anche un po' di più, non più ragazzi. L'autore del ritratto, ora come allora, è Bruno Caruso, un amico, uno straordinario pittore, come me palermitano, cui, sempre ora come allora, stava a cuore il volto della denuncia civile: Caruso, nel suo studio romano che s'apre sul Colosseo, custodisce ancora adesso la foto originale di Serantini, tratta dai giornali ancora stampati in piombo del 1972, la stessa che servì a ricalcare i tratti, per farne un'icona destinata, da lì a poco, alla copertina del libro che ho già detto, e poi ai manifesti, alle serigrafie pronte a finire sui muri della rabbia civile.
Il ritratto che vedi, caro Paolo, è di qualche anno fa, Bruno Caruso, oggi ottantacinquenne, l'ha replicato per me nel 2003, come omaggio alla sua, o forse soprattutto alla mia, memoria, per me che in un romanzo ho ricordato, accanto a quel volto, un'altra foto, un manifesto dei Gruppi anarchici toscani, dove Serantini appare invece composto nella sua bara, dopo ciò che sappiamo, il suo assassinio; lì Franco indossa invece l'abito buono, scuro, quasi fosse Pinocchio scopertosi finalmente ragazzo in carne e ossa allo specchio, ma sono queste già suggestioni letterarie. Suggestioni che c'entrano poco con la morte di un ragazzo.
A me, caro Paolo, sarebbe bastato che Bruno Caruso rimettesse al mondo delle immagini il volto di Serantini, così come lo ricordo dai giorni che sai, che sappiamo, quando il mondo mostrava ancora la propria interezza rivoluzionaria, ed è bizzarro che si possa dire così di un tempo che custodisce anche i segni, i lividi della morte per mano dei poliziotti, già, desideravo soltanto che il viso di Franco replicato per me potesse stare alle mie spalle, dietro la mia scrivania di scrittore, di ragazzo di allora cresciuto finalmente.
Bruno Caruso ha invece ritenuto giusto che l'immagine diventasse una sorta di “veronica” (sì, un'impronta su un pezzo di tessuto, su di un fazzoletto), nonostante questa trasfigurazione che lo avvicina a una sindone, mi sembra però che l'immagini mantenga la leggerezza laica e libertaria dell'omaggio. Speriamo sia così per tutti.
Un abbraccio, ciao

Fulvio Abbate
Roma

 


Trapani/ una risposta di civiltà

Salutiamo con gioia e con speranza la notizia della costituzione della Società Cooperativa “Bacino di Carenaggio” http://gruppoanarchicosalsedotp.noblogs.org/post/2012/05/10/costituzione-della-bacino-di-carenaggio-societa-cooperativa/ da parte del Collettivo dei Lavoratori in Lotta del Cantiere Navale di Trapani (di cui si è riferito sullo scorso numero di “A”). Siamo convinti che l'opzione cooperativistica possa rappresentare un'opportunità concreta per muovere un primo passo verso qualcosa di diverso dall'esistente perché i lavoratori possono riprendere in mano il loro destino, al di fuori dello sfruttamento e dei ricatti padronali che hanno portato allo sfacelo dell'azienda e ai licenziamenti.
Le lotte di questi lunghi mesi sono state difficili e coraggiose, e hanno messo a dura prova la tenuta di un aggregato umano comprensibilmente attraversato da tante vicissitudini.
Proprio per questo, la nascita di una cooperativa operaia a Trapani è una grande risposta di civiltà all'arroganza e alla violenza del padronato e delle istituzioni e merita, solo per questo, il plauso di tutti.
Nel rinnovare loro il nostro sostegno, auguriamo ai lavoratori della Bacino di Carenaggio-Società Cooperativa di tornare al loro lavoro il prima possibile, senza padroni e in solidarietà.

Gruppo Anarchico Andrea Salsedo”
Trapani

 

Trieste/“Dovrete fare ancora i conti con noi”

Riportiamo qui il testo dell'intervento di Claudio Venza, di fronte alla vecchia sede di via Mazzini 11, in pieno centro.

Per quasi 40 anni qui si è svolta l'attività di vari gruppi di base e anarchici. La sede è stata aperta nel 1969, in pieno autunno caldo, come alternativa a quella del Partito Comunista (ora scomparso) per dare uno spazio alle istanze libertarie e autogestite. Oltre agli anarchici, qui hanno trovato un luogo favorevole associazioni e movimenti di diverso tenore: antimilitaristi, ecologisti, studenteschi, sloveni, antifascisti, antirepressivi e altri. Ricordo solo alcune iniziative: la marcia antimilitarista del 1975 finalmente indipendente da Partito radicale (ora divenuto militarista), la protesta contro l'omicidio di Stato di Pietro Greco, militante dell'Autonomia ucciso dalla Digos in via Giulia nel 1985, il convegno internazionale “Est laboratorio di libertà?” dell'aprile 1990, le mobilitazioni contro la Guerra del Golfo del 1991 e la Guerra contro l'Iraq nel 2003.
In questi locali si sono impegnati, per un tempo più o meno lungo, centinaia di triestini e non solo. Tra di loro anche genitori di partecipanti a questa manifestazione e forse loro stessi. È stato un centro di formazione politica, nel senso positivo del termine, un punto di socializzazione libera, una fonte di centinaia di manifestazioni libertarie e di base.
Questa sede, così centrale e attiva, ha procurato molto fastidio alla parte reazionaria e conservatrice della città. Due esempi: nell'agosto 1970 una squadra di neofascisti ha dato un assalto violento respinto da Umberto Tommasini; nel 1977 il locale Partito Comunista (ora non più esistente) ne chiedeva la chiusura in quanto “covo sovversivo”. Per non citare le sgradite attenzioni poliziesche: frequenti perquisizioni, decine di denunce, sequestro del ciclostile, perfino controlli con microregistratori e identificazioni dei partecipanti alle conferenze.
Insomma una sede dove non è stato facile svolgere un'attività di propaganda delle idee, di intervento sociale e di sperimentazione di rapporti egualitari e libertari. In altri termini, la lotta antiautoritaria è stata continua e tenace. Inoltre i passaggi generazionali dimostrano che qui non abbiamo scherzato. Anche se è vero che talvolta ci siamo anche divertiti. (Per ulteriori informazioni si veda il Dossier Germinal di “A” Rivista anarchica)
Alla fine, nel 2009, è stata la speculazione edilizia a impedirci di continuare. Ma, come si vede dallo stato cadente dell'edificio, l'intimazione di sfratto non ha portato i nuovi proprietari a realizzare i soliti profitti trasformando locali centralissimi, ampi e d'altri tempi in miniappartamenti per manager e professionisti vari. Secondo un'amica strega, certi esorcismi, suggeriti da Bakunin, hanno avuto il loro effetto…
Il Germinal non solo non ha mai cessato l'attività, a differenza di gruppi e partiti un tempo pieni di boria e potere, ma ha risposto allo sfratto alzando il tiro in modo costruttivo: con l'acquisto e i lavori della nuova sede durati più di tre anni.
A Trieste i nostalgici del ventennio, le istituzioni e i potentati economici dovranno fare ancora i conti con noi, con il fastidio delle nostre attività e dei nostri ideali. Il Germinal, che ha un nome denso di speranza che risale alla rivoluzione francese, si è solo trasferito in una sede nuova e aperta, frutto anche della collaborazione di molte persone, pur di idee diverse dalle nostre, che hanno riconosciuto nell'attività anarchica un contributo al più generale movimento di emancipazione e liberazione dell'umanità.

Claudio Venza
Trieste


Dopo l'attentato a Brindisi, il 19 maggio scorso, davanti alla scuola “Morvillo Falcone”

IL DOLORE
Il dolore di ieri
non ha colori diversi
dal dolore di oggi.

Melissa è solo un di più,
stracci anneriti e carne dilaniata.
Vestale immolata sull'ara della negazione.

Negazione del bene cercato, del sorriso,
della voglia di crescere nella conoscenza
degli altri, per gli altri, per l'amore.

Non è molto, non è mai molto il ricordo
per ricostruire il sogno di una ragazza.
Questo possiamo fare noi, versare una lacrima,

tenerti nei nostri cuori e urlare la nostra rabbia.

Ivan Guarnieri
Milano





I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Gianni e Marisa (Milano) 50,00; Alba Finzi (Milano) 22,00; Adriano Paolella (Roma) 500,00; Leonardo Muggeo (Canosa di Puglia – Bari) 20,00; Laura Cipolla (Casalmaiocco – Lo) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Matthias Durchfeld (Reggio Emilia) 25,00; Silvio Sant (Milano) 20,00; Anna Melchior (Fagagna – Ud) 15,00; Cariddi Di Domenico (Livorno) 20,00; Roberto Benedetti (Assisi – Pg) 20,00; Milena Morniroli e Paolo Soldati (Clermont-Ferrand, Franca) 150,00; Gianmaria De Tommasi (Caserta) 20,00; Margherita Zorzi (Verona) “un aiutino per il numero speciale su Brassens”, 40,00. Totale € 1.422,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Arturo Schwarz (Milano); Agostino Perrini (Brescia); Fabrizia Secchi (Piacenza); Gianluigi Melchiori (Maserada sul Piave – Tv); Fabio Leone (Sedriano – Mi); Giancarlo Tecchio (Vicenza) 300,00. Totale € 800,00