rivista anarchica
anno 42 n. 373
estate 2012


cultura


Un mondo allucinante
e disperato, a Mosca

Ammetto di essere stata attratta dallo pseudonimo dell'autore, quando ho visto esposto questo romanzo (DJ Stalingrad, Esodo, Roma 2012, pagg. 110, e 12,00 www.elliotedizioni.com) tra le novità più interessanti della biblioteca comunale del Parco Sempione di Milano. Stalingrado rievoca la vittoria contro il nazifascismo che, in tempi in cui portiamo a casa troppe sconfitte e perdiamo diritti duramente conquistati, rincuora e incoraggia a combattere un nemico che ha solo cambiato volto. Ma ricorda anche la bella canzone degli Stormy Six, e quindi la giovinezza mia e quella di molti di noi, e un tempo in cui abbiamo sperato di sconfiggerlo definitivamente, questo mostro dalle mille teste. E che un giovane anarchico moscovita abbia assunto il nome di questa città come pseudonimo (Dj immagino si riferisca alla sua attività di musicista), mi fa pensare a un filo rosso che, nonostante tutto, non si spezza, e ci conduce nella misteriosa e poco conosciuta Russia post sovietica.
Il romanzo getta una luce nuova ai più, raccontandoci una realtà, e qui sta la sua grandezza, che non riguarda solo la neo federazione, ma anche l'apparentemente più tranquilla Europa, e per certi aspetti universale. Raccontato in prima persona, narra le vicende di un giovane musicista, di cui non compare mai il nome, e che dunque chiamerò P (Protagonista), dalla sua prima esperienza appena adolescente al suo espatrio, qualche anno dopo.
L'esordio consiste nell'omicidio gratuito di un ragazzo perbene, che se ne gira tranquillo per strada, cui P riduce la testa in poltiglia con un tubo di ferro “per vendicarmi su questo frocetto di tutti quelli come me, imbecilli, dei miserabili, dei malati … di tutti gli sfigati che costituiscono una percentuale assurda della merdosa popolazione del nostro paese”.
Ma già su questo punto l'autore ci mette in guardia nella prefazione: “Hanno scritto tutti che si tratta di un libro sulla ribellione contro la normalità … dov'è che vedete la normalità in Russia? Per fare un esempio, una parte dei miei amici è “normale” e una parte no … la percentuale di chi è finito dentro è maggiore tra i “normali”. Perché era la loro vita ad essere anormale: più precisamente, brutta”. La violenza sembra regnare ovunque: nelle bande giovanili che si scontrano nel metro, nelle stazioni, ai concerti con ogni genere di arma, cocci di bottiglia e pistole, pugnali e persino machete, devastandosi reciprocamente i corpi, a volte fino alla morte; ma anche negli ospedali, nelle carceri, nei cellulari della polizia, nelle fabbriche.
Quello dipinto dall'autore è un mondo allucinante e disperato, che ricorda alcuni romanzi e racconti di Philip Dick (per chi non ricorda, autore dello splendido Le pecore elettriche quando dormono sognano?, a cui si è ispirato un po' troppo liberamente il film Blade Ranner). Su questa umanità dolente, così come su se stesso, P getta uno sguardo compassionevole, quasi evangelico; e i suoi amici Sergej, Fedja, Kolja sarebbero potuti comparire tra i reietti cantati da Fabrizio De André.
La cosa drammatica che emerge dal romanzo è che non c'è speranza, che tutte le promesse dei neocapitalisti si sono rivelate solo illusioni: “Tutto ciò che davvero bisogna ottenere nella vita è non diventare barboni, invalidi o pazzi dichiarati, e morire in maniera rapida e senza sofferenza” è l'amara conclusione di P, che tuttavia troverà una via d'uscita …. non vi dico quale per non privarvi del piacere della scoperta e della lettura. La scrittura è essenziale, ma ogni frase, ogni parola pesano.
Esodo è un romanzo atroce e commovente, bellissimo, di quelli che dispiace quando si arriva all'ultima pagina, e soprattutto che lasciano il segno. Dell'autore sappiamo solo che è un musicista moscovita, autore di azioni-bliz di matrice anarchica. Dopo la pubblicazione di Esodo è dovuto fuggire dalla Russia, perché ricercato dalla polizia (quanta paura può fare un piccolo romanzo!); attualmente vive in Finlandia, dove ha chiesto asilo politico.

Sandra D'Alessandro




Attualità
di Carlo Pisacane

Da lunghi anni il lavoro di scrittura di Giuseppe Galzerano fa il paio con quello di editore militante e coraggioso, dedito a stampare volumi su moti rivoluzionari, teorie libertarie, storie locali di movimenti politici, biografie di uomini che hanno immolato la propria vita per la libertà. E bene ha fatto il professore salernitano (vive nel Cilento, a Casalvelino) a ristampare, dopo la prima edizione del 2002, il tosto ed audace saggio La Rivoluzione (Galzerano editore, Casalvelino Scalo . Sa – pagg. 420, euro 20,00). Il volume fu pubblicato per la prima volta a Milano, tre anni dopo i tragici eventi della Spedizione di Sapri, in cui Pisacane trovò la morte (era il 2 luglio del 1857) per mano dei contadini di Sanza. Letto oggi ci aiuta a confutare del tutto certe pittoresche costruzioni storiche sul tragico moto di Pisacane e a spazzare la polvere del tempo sul pensiero di uno degli artefici di quel processo unitario e risorgimentale che doveva essere e che, purtroppo, non fu perché uscì vincente poi la linea cavouriana e dei Savoia. Terzo libro dei “Saggi storici-politici-militari sull'Italia”, “La Rivoluzione” articola tutto il pensieroa narco-socialista dell'ex-ufficiale delle milizie borboniche, il quale sposò la causa di un' Italia unita che, però, escludesse il passaggio da un governo all'altro, dalla monarchia dei Borboni a quella dei Savoia. Il “fare l'Italia” con la rivoluzione secondo Pisacane voleva dire portare i ceti più bassi alla rivolta per liberarli dalla morsa delle ristrettezze e della schiavitù, dai monopoli dei poteri, dai privilegi e dal dominio dell'uomo sull'uomo.

Carlo Pisacane (Napoli, 22
agosto 1818-Sanza, 2 luglio 1857)

Un'ardita testa pensante, un teorizzatore di altissimo profilo fu Pisacane, che, però, non separerà mai la teoria dalla prassi:credeva che quanto fosse racchiuso in un nucleo teorico doveva trovar sfogo, inevitabilmente, nell'azione, in un moto che “desse adito” al conflitto sociale. Per quanto rispettoso delle posizioni di Mazzini ne prese le distanze (anche perché avverso alla religione) e, tuttavia, egli vedeva nella ribellione alla tirannia, nella rivoluzione – che non poteva non avere in quell'epoca altro spiegamento se non nel ricorso alle armi – l'unico strumento per cambiare la Nazione e mettere le basi di una nuova società. Una società in cui la libertà poteva avere un senso se trovava gamba d'appoggio nell'affermazione dei principi di uguaglianza, nel riscatto sociale di chi soffriva una condizione di schiavitù. Cambiare il Paese è quello che voleva Pisacane, ma era necessario rimuovere ( e qui viene fuori il perno del suo pensiero libertario ) la gestione amministrativa del governo in quanto espressione (istituzionale e codificata) di quel capitale che sfruttava il lavoro e si arricchiva sulle “gravezze pagate dai cittadini”. “Per Pisacane – scrive Giuseppe Galzerano nell'introduzione – la soluzione politica ai mali dell'autorità è l'abolizione del governo”, ossia il trionfo dell'anarchia come unico modello di governo giusto e sicuro. Di certo il pensiero di Pisacane nella pagine della Rivoluzione appare datato, ma Galzerano nel riproporre il saggio (nella stessa curatela di Aldo Romano del 1957) ci permette riscoprire il primo teorico che nel nostro Paese ha costruito un progetto di socialismo-libertario su supporti teorici-scientifici.
“Carlo Pisacane rimane – annota ancora Galzerano – uomo di primo piano nella storia politica e risorgimentale, è lo specchio dell'Italia del suo tempo, nella sua biografia si riflettono esigenze varie e multiformi, aspirazioni ed impostazioni ideali del popolo e della società italiana”.

Mimmo Mastrangelo




Non salviamo
il sistema!

Questo periodo di profonda delusione economica produce, da tre anni a questa parte, un fiorire di opere che propongono buone ricette per sconfiggere la crisi e riuscire a cavarsela! Dopo spiegazioni spesso incisive della crisi, evidenziata dalla follia dei subprimes negli Stati Uniti, in generale arrivano i provvedimenti, le soluzioni o anche i programmi chiavi in mano. Con Fine della finanza (Donzelli Editore, Roma 2009, pp. 330) Massimo Amato e Lucca Fantacci si pongono da una prospettiva del tutto diversa. Essi, finalmente, si prendono il tempo di esplorare le cause profonde della crisi, affrontandola dal punto di vista etico e filosofico ed evidenziando che a essere in crisi è il ruolo del denaro. Gli autori seguono un filo cronologico per stabilire l'origine di questa crisi, partendo dal periodo attuale per risalire fino al XVI secolo. Infine, nella terza parte, Amato e Fantacci ristabiliscono il primato della politica sula finanza: “È pensabile un'altra finanza?”.
Nella prima parte, “Fenomenologia”, gli autori sono indotti dalla forza della crisi – e non da un a priori ideologico – a constatare che l'attuale sistema finanziario “fatto di elementi in perpetuo aggiustamento fra loro, non ha altra stabilità che quella derivante dalle frizioni fra i suoi componenti. In questo ‘sistema' non c'è nessuna chiave di volta, e dunque nessun principio architettonico rappresentabile come tale, e quindi nessuna regola costruttiva, e quindi nessuna regola regolativa. In questo sistema la regolamentazione è la deregolamentazione”. Quest'ultima frase “non vuol dire che la finanza sia un ‘Far West' popolato da balordi e briganti, e bisognoso di sceriffi senza macchia e senza paura, ma che la regola operativa del sistema finanziario è che ogni regola, nella misura in cui è posta, tende a generare il proprio superamento mediante il suo opposto”.
È proprio assumendo l'instabilità fondamentale di un simile universo che Amato e Fantacci rispondono ai quesiti che, in ultima analisi, sottendono a ogni riflessione sulla crisi. Infatti il mercato è una “costruzione dogmatica”, e non esiste altro modo di pensare il mercato che quello di scoprire le regole che ne stanno alla base. Per questo, essi rispondono a due domande: “Che cos'è propriamente il credito?” e “Che cos'è propriamente la moneta?”.
Inizialmente la moneta era uno strumento al servizio dell'economia, dello scambio tra esseri umani: “La moneta non è moneta se non si riesce a far sì che circoli”. Attualmente essa rappresenta un oggetto fondamentale della finanza, una merce in sé, che si può accumulare all'infinito. Questa spirale rimanda in continuazione il regolamento dei conti – il pagamento e la chiusura dei debiti e dei crediti – rinviando sempre a un momento successivo un'operazione di azzeramento e trascinando il sistema in un non-senso, il che si concretizza in crisi sempre più profonde. “Alla luce di essa il capitalismo apparirebbe per quello che è: un sistema di mercato, certo, ma che include, fra i mercati anche ciò che potrebbe e dovrebbe restarne escluso, ossia la moneta – e non per opzione morale o ideologica, ma semplicemente perché la moneta, per poter essere al servizio del credito, deve essere istituita in modo tale da non costituire una merce.”
Gli autori sottolineano il paradosso costituito dalla situazione e l'impossibilità fondamentale di risolvere la crisi: una impossibilità etica. “E tuttavia, per quanto possa procrastinarla indefinitamente, esso può propriamente abolire la chiusura dei conti, semplicemente perché non può abolire il tempo, la fine, e la morte. Se nessuno mai morisse, meglio: se gli uomini non fossero dei mortali, ossia esseri finiti, chiamati ad assumersi le loro responsabilità, questo modo di organizzare le relazioni di debito e di credito sarebbe davvero perfetto. Ma gli uomini muoiono, e proprio per questo hanno una vita economica, in cui sono chiamati a vivere del loro lavoro, e non di rendita; a pagare i propri debiti e non a rendere impossibile il pagamento dei debiti altrui; ad affrontare il rischio, e non a evitarlo; a pensare al futuro, e non a scontarlo.”
La seconda parte dell'opera è altrettanto appassionante e pertinente. Andiamo indietro nel tempo, risalendo dalla situazione attuale alla radice delle decisioni che hanno comportato altre decisioni... Se, in tal modo, andiamo alla ricerca delle grandi tappe della costituzione della moneta quale oggi la conosciamo (la decisione della non convertibilità del dollaro in oro (1971), le scelte decisive di Bretton Woods (1944), il gold standard... fino alla creazione della Banca d'Inghilterra (1694) e anche prima), ecco delinearsi davanti a noi una lunga catena storica che è prima di tutto politica.
Nella terza parte, “Politica”, gli autori tornano sull'attualità della crisi e aprono una prospettiva sul futuro. Il sistema capitalistico vivrà continuamente delle crisi, perché rifiuta di affrontare la base di fondo del problema, cioè il fatto che la moneta è una merce. “[...] quanto più la moneta-merce opera come fonte di fragilità del sistema, tanto più questa stessa rappresentazione circola come un'evidenza senza alternative”.
Ma questo è quanto hanno deciso i detentori del potere. Per loro è meglio decidere di non decidere niente in materia e lasciare che il sistema prosegua la sua corsa devastante verso la prossima crisi – o forse, adesso che siamo in piena crisi, verso la guerra? D'altro canto, questo caos finisce per essere teorizzato. Così, in una nota (14, p. 235) gli autori citano la dottrina dell'efficient breach of contract (violazione efficiente dei contratti). Questa postula che “ogniqualvolta il vantaggio economico che ho nel non mantenere la parola data in un contratto superi la penale che devo pagare per non aver rispettato le mie promesse, ho il ‘diritto' di non mantenerle”. Non è forse questo a svelarci ciò che introduce caos nelle nostre vite, dato che il Capitale detta in continuazione regole che rispetta soltanto se gli servono, ma di cui si fa beffe se lo ritiene vantaggioso? Se invece noi ci comportassimo allo stesso modo, saremmo fuorilegge, super indebitati ecc.
Rimandare continuamente i pagamenti e lasciar lievitare l'indebitamento degli Stati non significa agire per la pace. Né fare la guerra. Noi viviamo in continuazione una “tregua”, tra guerra e pace, e la finanza attuale non sceglie tra l'una e l'altra – e dunque è pronta alla guerra.
Ma una guerra non sarebbe vantaggiosa per alcuno Stato, anche se non è stato così per la seconda guerra mondiale, poiché gli Stati Uniti speravano di trarne profitto. Attualmente il commercio nel“villaggio globale” sembra più interessante del conflitto aperto. I più importanti Stati contemporanei non si fanno la guerra non certo perché sono morali e progressisti. Ma perché sembra loro preferibile la “seduzione economica”, la lotta mediante strumenti economici e finanziari.
Gli anni e i decenni futuri sono e saranno cruciali per la risoluzione o meno di questo problema fondamentale, che condiziona la miseria di miliardi di individui, il loro asservimento, e che rende possibile tutti i sistemi di dominio di cui siamo vittime. Infine, questo saggio magistrale costituisce un invito a prendere in mano il nostro destino in tutte le sue dimensioni, ivi compresa la riflessione sulle cause profonde, storiche e politiche, che hanno consentito alla finanza di imporre le proprie regole al mondo. Vale a dire la propria assenza di regole, da cui discende questo caos etico quotidiano. Non salviamo il sistema che ci stritola!

Philippe Godard
(traduzione di Luisa Cortese)



Sfuggire
al regime

Che in Italia di cantare non ci sia più tanta voglia non ce lo dimostra solo l'imbalsamata Sanremo “nazional-popolare”, presso la quale ormai si aspetta una canzone dignitosa con un testo audace (una Zebra a puàh?) quasi accendendo ceri alla Madonna (non alla Ciccone, a quella mitologica).
La satira cantata poi è anche quella sempre più rara, tranne qualche eccezione dialettale e tentativi televisivi improntati su canzoni arcinote, come nel caso delle gag di Crozza o dei videoclip della Sora Cesira, esilaranti e amari.
Un paese triste, rappresentato da uomini politici al Viagra, pre o post Tavor, deprimenti e/o depressi, governanti Tecnici o Techno governanti, RoboGov da pompe funebri il cui volto è spesso rappresentato in fotomontaggi nell'abito di boia, intenti ad ingrassare la corda.
E in questo scenario … una poesia pallosa, che più non si può, dei cantastorie così mogi che al massimo ti puoi imbattere in un Celestini, che ti imbambola e poi ti butti a mare, o Paolini, che ti fa incazzare e alla fine, pensandoci bene, ne hai le scatole piene di tutti questi resoconti in prosa delle disgrazie storiche, prive di responsabili, del tuo paese.
Ma insomma! Dov'è finita la poesia satirica e impegnata, breve e tagliente, romantica e irriverente, dove sono i cantastorie sanguigni che ti fanno venire voglia di restare in piazza ad ascoltare, ridere, e soprattutto che invitano alla ribellione? Dov'è la risata che “li seppellirà”? no, perché qui la fossa l'hanno già pronta per noi, e senza pensione, prima! E dove sono le rime? Non quelle da recita ma quelle che danno il ritmo alla chitarra?
Riccardo Solari ci toglie questa nostalgia perché lui esiste, e ci riesce, a scrivere e cantare la satira politica. Prova ne è la sua raccolta Satirik. Rime per un regime (ed. Archivio Germinal, Carrara, 2011. archivio.germinal@gmail.com Copertina di Patrizia Diamante.
Illustrazioni di Teresa Opretti e Selene Bertagnini), della quale Riccardo dà anche un saggio dal vivo se vi viene in mente di invitarlo per le strade vostra città. A me è successo di ascoltarlo, e sono andata in visibilio per la sua “Vedo tonno”, sulla dispensa dei giorni difficili del cassaintegrato opportunamente riempita di aiuti alimentari sempre uguali.
Rime impegnate nella politica (“Che ne sapete voi di un'operaia/con l'occhio a fine mese, prima madre e poi massaia/che ne sapete voi, col mondo al terzo piano,/ostaggio della borsa di Milano/che ne sapete voi che invocate il sacrificio/lontano dalle case nel bunker di un ufficio …) ma anche rime che parlano di sensibilità e sentimenti (Presto o tardi conosceremo/il padre sconfitto che diventeremo.)
La poesia sugli abruzzesi reduci dalla manifestazione a Roma in cui sono stati picchiati (Con un piccolo passo), quella sul mondo dell'informazione (Viaggio con bavaglio e senza il bagaglio), quella sulla crisi (… ma all'estero, da voi, cosa si vede?)… la raccolta di rime e canzoni di Riccardo, col suo talento rustico e sfacciato, con il suo rapido salire per la satira e scivolare nella poesia, è un'opera di movimento e fa venir voglia di sentirsi più vivi, ancora di più, e di uscire a cantare, a urlare, a raccontare, perché quel regime di cui il titolo non ci stringa più.

Francesca Palazzi Arduini




Senza padroni/
il disco di Drowning Dog e dj Malatesta

La loro etichetta EK records ha fatto uscire fino ad oggi 21 lavori tutti autofinanziati con pochi dollari, i più recenti; Senza Padroni in CD e State of abuse (compilation) in venile e cd. E Drowning Dog Got no Time.
Il cd “Got no time”parla di come non abbiamo tempo per le cose importanti della vita. Passiamo la maggior parte del nostro tempo a lavorare sodo, arricchendo i padroni e molto spesso producendo cose che nessuno vuole, mentre poche persone tra noi hanno veramente la possibilità di raggiungere il loro potenziale “saper fare”, quindi Got no Time è un grido per l'eliminazione di tutti i lavori inutili di cui non abbiamo bisogno nella nostra società.
Altro disco importante è Mix tapes and cotton, questo sette pollici racconta l'esperienza di essere attaccato dal KKK(Ku Klux Klan) nel sudest della Florida, il tutto visto dagli occhi di un bambino e del ruolo che il razzismo ha nei quartieri dei lavoratori.
Ultimo disco una produzione ibrida registrata nel nuovo studio di Dj Malatesta e Drowning Dog a Milano è Senza Padroni, un album che non da tregua all'ascoltatore una canzone più forte e incisiva dell'altra. A differenza di quello precedente registrato a San Francisco Dj malatesta e Drowning dog hanno avuto più tempo e si vede, il loro nuovo studio è dentro la loro nuova casa Milanese nel popolare quartiere di via Gola.
Questo nuovo album dispone anche di contributi di un paio di altri produttori che aggiungono variazioni di stile.
Le parole dei testi di Senza padroni parlano di vita quotidiana, potere, anticapitalismo, lotta di classe, rivoluzione sociale, anarchismo, amore e morte.
I pezzi suggeriscono alcune possibili soluzioni ai nostri problemi economici e sociali e lanciano una forte critica alle nostre condizioni attuali, sottolineando l'importanza del rifiuto di ogni autorità.

Downing Dog

Il disco si può comprare a Milano al circolo dei malfattori e alla libreria Utopia, è comunque ordinabile online scrivendo alla mail ekbooking@gmail.com
oppure
http://drowningdogandmalatesta.bandcamp.com/album/senza-padroni

08. Eliminate The Position
They say it's lonely at the top
then get rid of it, rid of it
People sipping garbage
are sick of it, sick of it
Never learned to share
it's a give and take
not a rake and make
They're profiting off
some misery and torture
investing in this shit
and saying that it's order
We're pieces of cattle
written up in their business plan
They're holding the saddle
and we thrown in the pan
It's like “change” ‘yes we can'
I can't buy that bit
cause they still want cheap hands
to clean their shit
so we'll always be
underpaid and overworked
and that's our condition
until we decide to eliminate
that position.

Andrea Staid



Hai mai truffato
una banca?

Terra lungamente contesa dall'Impero coloniale spagnolo e da quello portoghese, che ne rivendicarono vicendevolmente la scoperta e la sovranità per più di 300 anni, l'attuale Repubblica Orientale dell'Uruguay ottenne l'indipendenza il 25 agosto del 1825. A conquistare quel prezioso baluardo di libertà fu il celebre gruppo dei “Trenta y Tres Orientales” guidato dall'Ufficiale Juan Antonio Lavalleja, così passato alla storia perché formato da soli trentatré uomini che al grido di Liberar la patria o morir por ella il 19 agosto 1825 intrapresero quella “Cruzada Libertadora” tesa a riscattare la Provincia Orientale del neonato Stato brasiliano. Fu in quell'occasione che venne realizzata la bandiera riportante l'iscrizione Libertà o Morte, considerata uno dei simboli nazionali dell'identità uruguaiana.
La conquista dell'indipendenza, tuttavia, non coincise affatto con l'inizio di un periodo di stabilità interna; al contrario, il paese restò in balia della lotta per il potere ingaggiata dai due principali schieramenti politici, i Blancos e i Colorados, formazioni partitiche che dovevano il loro nome alle diverse tinte delle fasce indossate durante la lunga guerra civile che li vide combattersi per quasi l'intero secolo.
Con l'affermarsi del Partido Colorado al governo, la prima metà del Novecento fu segnata da una forte spinta riformatrice che portò l'Uruguay a livelli di sviluppo sociale ed economico paragonabili solo a quelli delle più avanzate nazioni europee, tanto da guadagnarsi la nomea di “Svizzera d'America”. Importanti conquiste vennero realizzate sia sul piano dei diritti civili (suffragio universale femminile; abolizione della pena di morte; legge sul divorzio; scuola elementare gratuita, laica e obbligatoria), che su quello dei diritti del lavoro (giornata di 8 ore; divieto di lavorare per i minori di 13 anni; riposo di 40 giorni per le donne incinte; assicurazione antinfortunistica obbligatoria; piano pensionistico; liquidazione), oltre che sul versante economico, dove furono intrapresi provvedimenti che dal punto di vista finanziario risultarono molto vantaggiosi, come la nazionalizzazione delle due maggiori banche del paese e dei trasporti ferroviari.
In seguito alla fine della seconda guerra mondiale, nondimeno, la drastica riduzione delle esportazioni di carne determinò una forte crescita della disoccupazione e dell'inflazione, rivelando una politica economica del tutto arretrata e ancora troppo dipendente da pochi interessi vitali come quelli della produzione, della conservazione e della distribuzione della carne; mercato fondato su allevamenti estensivi e industrie frigorifere che, nella maggior parte dei casi, erano nelle mani di un ristretto gruppo di latifondisti per di più vincolati alle alte classi dirigenti della capitale.
La crisi economica, sociale, e soprattutto politica che ne derivò produsse una situazione di malcontento generale che si tradusse in un aumento esponenziale del conflitto sociale, raggiungendo livelli di tensione che ben presto sarebbero sfociati nella violenza armata.
Risale al 1956 la fondazione della Federazione Anarchica Uruguaiana (FAU); ai primi anni ‘60 quella del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros (MLN-T); e rispettivamente al 1968 e al 1969 quella della Resistenza Operaia e Studentesca (ROE) e dell'Organizzazione Popolare Rivoluzionaria 33 (OPR33), entrambe bracci della FAU: politica l'una, armata l'altra. Quest'ultima, l'OPR33, balzò improvvisamente agli onori delle cronache il 16 luglio del 1969 quando rivendicò il furto dal Museo Storico Nazionale di Montevideo della bandiera originale dei “Trenta y Tres Orientales”. Quell'antico grido disperato di Libertà o Morte ritrovava così nuova voce tra le genti dei quartieri più poveri di una città che sembrava volersi concedere troppo facilmente al gioco dei grandi profitti per pochi e delle briciole per tutti gli altri.
La prima parte del libro di Augusto Andrés è divisa in cinque ampi capitoli che prendono il nome da altrettanti protagonisti della storia del movimento anarchico uruguaiano. Di ognuno di essi viene tracciata una biografia essenziale, intima, per nulla accademica o manualistica, che segue le orme delle vicende e delle scelte più difficili e umanamente costose delle loro vite. Ma il filo di ogni storia si intreccia inevitabilmente con quello di tutte le altre per tessere una preziosa tela della memoria che – maledizione di Penelope – la notte del tempo, ma soprattutto la voragine della dittatura con il suo carico di terrore e morte, ha cercato in tutti i modi di disfare. Eppure, a dispetto dell'angosciante necrologio che chiude le pagine di questo libro, non abbiamo tra le mani le tristi cronache del dolore di un sopravvissuto ma, al contrario, l'antologia di una passione mai sconfitta, racconto di un'umanità altra che è ancora viva nei ricordi e nei sogni dell'autore, protagonista anch'egli di un tempo in cui utopia e Storia sembravano tenersi per mano con la stessa autentica solidarietà che unisce i diversi personaggi di queste vicende.
Persino la struttura narrativa del testo, in qualche modo, segue il passo concitato dei ricordi affidando la cronologia degli eventi alle suggestioni che di volta in volta la memoria offre. Non ci si sorprenda, dunque, se il tempo dell'azione si prodiga in generose acrobazie spostando improvvisamente l'attenzione del lettore su avvenimenti a prima vista non attinenti e lontani negli anni rispetto a quelli appena trattati: ogni vicenda narrata, infatti, è l'istantanea di un album infinito che l'eco del tempo sfoglia incessantemente. Nondimeno, ognuna di queste vicende continua a far parte di un'unica storia, un unico sogno di libertà come quello realizzatosi nel 1971 a Punta Carretas quando, grazie ad un lungo tunnel scavato dai Tupamaros, scapparono dal carcere centosei prigionieri politici, anarchici compresi: un record nella storia dell'evasione. Con il passare degli anni, poi, molti di quei fuggiaschi avrebbero conquistato la fiducia di gran parte della popolazione ottenendo conferme politiche che fino a qualche tempo prima sarebbero state inimmaginabili. È il caso ad esempio di José Mujica, ex guerrigliero dell'MLN-T ed attuale presidente della Repubblica Uruguaiana. Ma il segno dei tempi si rivela in tutta la sua originalità anche nell'ultima peripezia che ha visto per protagonista il carcere di Punta Carretas, trasformato nel 1994 in un immenso centro commerciale.
Prima ancora, con l'avvento del colpo di stato di Juan M. Bordaberry nel giugno del 1973, in tanti, tra anarchici, comunisti, Tupamaros e dissidenti vari, avevano deciso di espatriare in Argentina, nella vicina Buenos Aires, dove avrebbero continuato la loro lotta per la giustizia sociale. Nemmeno tre anni più tardi, però, anche l'Argentina sarebbe caduta sotto il pugno di una feroce dittatura, e così, molti di coloro che riuscirono a scampare alla dura repressione che fu messa in atto dalla Giunta militare guidata da Jorge R. Videla, scelsero nuovamente la via dell'esilio, questa volta però trovando rifugio in Europa, soprattutto – come l'autore – in Francia. Tanti altri, invece, e tra questi anche alcuni dei protagonisti di queste pagine, finirono in uno dei numerosi Centri Clandestini di Detenzione, come quello ricavato nella sede della concessionaria “Orletti”, dove più di 300 persone furono sequestrate e brutalmente torturate nel quadro della famigerata “Operazione Condor”. Della maggior parte di queste non si ebbe mai più notizia e i loro nomi andarono ad aggiungersi a quelli delle migliaia di desaparecidos latinoamericani.
Nella seconda parte del libro, dunque, Augusto Andrés ci porta a Parigi, tra le diverse comunità in esilio, per raccontarci un intervallo di tempo che va dal 1976 al 1985, anche se non mancano brevi riferimenti alla guerra civile spagnola, alla Comune o alla rivoluzione cubana. Protagonista assoluto, qui, è Lucio Urtubia, che combatte la sua guerra nelle filiali delle banche d'Europa – e non solo – con innocue munizioni di carta: riproduzioni perfette di travellers cheques americani. Un affare milionario con il quale finanzia le più diverse organizzazioni del mondo: dall'ETA alle Black Panthers, da Action Directe ai vari gruppi guerriglieri sudamericani; Tupamaros e anarchici uruguaiani compresi.
È così che durante i primi anni '80 due tessere apparentemente distanti di un puzzle sempre più complicato da decifrare entrarono in contatto stabilendo nuovi sorprendenti intrecci di cosmi, storie, sogni: utopie mai dimenticate che, come il mondo nuovo di Durruti, abitano il cuore di ognuno dei personaggi di queste vicende.

Raúl Zecca Castel

Truffare una banca...che piacere!
e altre storie”

di Augusto ‘Chacho' Andrés
pp.180 – 10,00 euro

È possibile truffare una delle banche più grandi della storia di 25 milioni di dollari? È fattibile inondare il pianeta con milioni di dollari falsi? Quando ci fu la prima espropriazione ad una banca per fini politici in Uruguay?
Questo libro racconta di fughe da carceri e caserme, di assalti a banche, sequestri, truffe, falsificazioni e storie di clandestinità. Sono storie senza frontiera e si svolgono in tempi differenti tra Montevideo, Buenos Aires e Parigi. Memorie di personaggi cari che non sono ‘grandi uomini', bensì persone semplici, di sentimento e passione, che in ogni fatto nel quale sono protagonisti, esprimono parte di un insieme e riflettono la società nella quale vivono. Di umili origini agiscono in sintonia con la loro appartenenza sociale. Sanno che quelli ‘di sotto' non sono ‘eguali di fronte alla Legge'. Per questo l'azione diretta, per loro, è una risposta appropriata e naturale. Queste pagine ci avvicinano ai personaggi, protagonisti della nostra Storia, che sono stati occultati dai tanti libri della storia recente. Sono vicende reali, storie politiche dei dimenticati di sempre, di lavoratori, di anarchici, in lotta permanente contro lo sfruttamento e l'oppressione.
Molti dei protagonisti di queste storie morirono affrontando le forze repressive dello Stato, altri furono ‘desaparecidos'.

Richieste a:
Zero in Condotta
casella postale 17127 – MI 67 – 20128 Milano
e-mail: zic@zeroincondotta.orgwww.zeroincondotta.org
cell. 3771455118




Una moderna,
solare Utopia

Naufragato sulle coste inaccessibili dell'immaginaria isola di Pala, un viaggiatore del nostro tempo fa conoscenza con una cultura che si avvicina alla perfezione. Gli abitanti dell'isola (Aldous Huxley, L'isola, Oscar Mondadori), infatti, quasi completamente isolati da ogni contatto con l'esterno, hanno tentato di realizzare un progetto di società ideale, basata sul superamento di ogni complesso, sull'ampliamento della consapevolezza e sulla fusione armonica con la natura. Ma anche questa moderna, solare Utopia è destinata a venire travolta dalla barbara violenza della “civiltà” moderna.

Potrete leggere passaggi come questi:

  • Non è possibile conquistare il potere senza compromettersi.
  • Antibiotici meravigliosi… ma assolutamente nessun metodo per accrescere la resistenza, in modo che gli antibiotici non siano necessari. Interventi chirurgici fantastici… ma quando si tratta di insegnare alla gente il modo di vivere senza essere squartati, assolutamente niente. Ed è la stessa cosa sotto ogni altro aspetto. (…) sembra che voi non facciate assolutamente niente nel campo preventivo. Eppure avete un proverbio: prevenire è meglio che guarire.
  • (…) milioni di uomini alla mercé di poche decine di uomini politici, di alcune migliaia di capitani d'industria, di generali e di usurai.
  • (…) la vostra società vi condanna a trascorrere la fanciullezza in una famiglia esclusivistica, con un'unica serie di fratelli e sorelle e una sola coppia di genitori. Vi vengono imposti dalla predestinazione ereditaria. Non potete liberarvene, non potete prendervi una vacanza lontano da loro, non potete recarvi presso nessun altro per un cambiamento di atmosfera morale o psicologica. È libertà, se proprio vuole… ma libertà in una cabina telefonica.
  • (…) che cos'è la storia… la documentazione di ciò che gli esseri umani sono stai costretti a fare dalla loro ignoranza e dall'enorme presunzione che li induce a canonizzare la propria ignoranza come un dogma politico o religioso.
  • L'elettricità meno l'industria pesante più il controllo delle nascite è uguale alla democrazia e all'abbondanza. L'elettricità più l'industria pesante meno il controllo delle nascite è uguale alla miseria, al totalitarismo e alla guerra.
  • Noi non ci facciamo indurire le coronarie ingozzandoci di una quantità di grassi superconcentrati sei volte superiore al necessario. Non ipnotizziamo noi stessi convincendoci che due televisori ci renderanno due volte più felici di un solo televisore. E infine, non spendiamo un quarto del reddito lordo nazionale preparandoci alla terza guerra mondiale, o anche alla sorellina della guerra mondiale, la tremiladuecentotrentatreesima guerra locale. Gli armamenti, l'indebitamento universale e lo scarto pianificato dei prodotti superati: sono questi i tre pilastri della prosperità occidentale. Se la guerra, lo spreco e gli usurai venissero aboliti, voi crollereste. E mentre voi occidentali consumate in eccesso, il resto del mondo affonda sempre più profondamente nel disastro cronico.
  • (…) rimasi scandalizzato la prima volta che lessi uno dei vostri giornali a grande tiratura. La parzialità dei titoli, la sistematica unilateralità delle notizie e dei commenti, le parole d'ordine e gli slogan invece dei ragionamenti. Nessun serio appello alla ragione. E, invece, il tentativo sistematico di inculcare riflessi condizionati nella mente dei votanti; mentre – per quanto concerne il resto – abbondavano i delitti, i divorzi, gli aneddoti, le banalità, tutto ciò che potesse essere utile a distrarre i lettori, tutto ciò che potesse servire a impedir loro di pensare.
  • (…) la delinquenza viene tuttora affidata agli ecclesiastici, ai lavoratori sociali e alla polizia. Prediche interminabili e terapia palliativa; condanne al carcere a non finire. Con quali risultati? La delinquenza non fa che aumentare.
  • Hitler è l'esempio supremo del Peter Pan delinquente. Stalin è l'esempio supremo dell'uomo tutto muscoli delinquente.
  • (…) tutti gli dei sono immaginati dall'uomo e siamo noi a tirare i fili e ad attribuire loro il potere di tirare i nostri.
  • La gente agiata e per bene non ha idea di ciò che sia il mondo e non soltanto in circostanze eccezionali come fu durante la guerra, ma sempre. Sempre.
  • Il credere nella vita eterna non ha mai aiutato nessuno a vivere nell'eternità. Né, s'intende, il non credere.
  • E sempre, dappertutto, vi sarebbero stati gli ipnotizzatori urlanti o silenziosamente autoritari; e sulla scia dei distributori di suggestioni al potere, sempre e dappertutto, le tribù dei buffoni e dei trafficanti, i mentitori di professione, i fornitori di trivialità divertenti. Condizionate dalla culla, distratte senza posa, ipnotizzate sistematicamente, le loro vittime in uniforme avrebbero continuato a marciare ubbidienti e a fare dietro front; avrebbero continuato, sempre e dappertutto, a uccidere e a morire con la docilità perfetta di barboncini ammaestrati.
Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Scritto nel periodo in cui l'autore stava realizzando esperimenti con la Mescalina, “L'isola”, nel suo duplice aspetto di romanzo e di saggio, si presenta come una lucida e stimolante realtà possibile, in netta contrapposizione al suo precedente romanzo “Il mondo nuovo”, nel quale il futuro era invece rappresentato nella sua drammatica conflittualità tra dilemmi sociali ed esistenziali.

Marco Sommariva
marco.sommariva1@tin.it


I gangster movie di Scorsese:
riscatto sociale con revolver?

Nei film di mafia di Martin Scorsese Quei Bravi Ragazzi (Goodfellas, 1990), Casino (1995) e The Departed (2006) sono presenti costanti riferimenti alle origini umili, working class o sotto-working class, dei protagonisti.
In Casino Joe Pesci, introducendo il racconto delle vicende legate al casinò Tangiers di Las Vegas – gallina dalle uova d'oro per parecchi boss del Midwest dagli anni Cinquanta agli Ottanta – dice che “quella fu l'ultima volta che a dei ragazzi di strada come noi venne dato da gestire qualcosa di grosso”.
In Quei Bravi Ragazzi Ray Liotta è il figlio futuro gangster di un muratore irlandese e una casalinga siciliana. Il padre “era sempre incazzato, perché prendeva una paga da fame, perché vivevamo in sette in un buco, etc.”. Inseritosi nell'ambiente della bellavita mafiosa, il figlio dileggerà apertamente il modo di vivere di quelli (come suo padre) “che prendevano la metro tutti i giorni per andare a fare lavori di merda, sempre preoccupati per i conti da pagare, etc.” liquidandoli come “gente senza palle”.
In The Departed, dove il sottobosco criminale narrato non è più quello italiano di New York ma quello irlandese di Boston, Jack Nicholson dichiara in apertura di non voler essere un prodotto del suo ambiente, ma piuttosto che il suo ambiente sia prodotto da lui stesso, dichiarazione d'intenti che potremmo trovare quasi rivoluzionaria, se non fosse che l'alternativa di vita mostrata da questo e dagli altri mafia movies scorsesiani prevede sì la ribellione violenta al proprio destino di classe (il lavoro salariato, lo sfruttamento), ma nel quadro dell'accettazione degli obiettivi culturalmente sanciti come desiderabili dal sistema, ovvero sostanzialmente denaro e potere.
In queste pellicole siamo di fronte a rappresentazioni di quel percorso sociale definito “devianza” in quanto i mezzi utilizzati per raggiungere l'obiettivo (rapine, omicidi, etc.) sono socialmente, e quindi giuridicamente, condannati, ma le mete culturali perseguite sono perfettamente in sintonia con l'ideologia dominante.
Il gangster dunque come self-made man che realizza il suo “sogno americano” e che quindi, pur partendo da presupposti di ribellione, finisce per confermare con la sua stessa esistenza la pervasività e in ultima analisi la vittoria a livello di immaginario dell'establishment. Nella loro mimesi dei meccanismi e dei presupposti valoriali del sistema (violenza endemica, gerarchia, competizione) i mafiosi scorsesiani si trovano comunque sempre costretti in una nicchia, circondati da barriere di carattere etnico (l'essere italiani o irlandesi) che finiscono con il riprodurre perpetrando atteggiamenti razzisti (nei confronti dei neri e degli ebrei, per esempio), ovvero individuando un altro su cui esercitare dominio.
E nei confronti di quella società wasp, bianca anglosassone protestante, in cui questi malavitosi cercano di emergere, c'è sempre un astio latente derivante dalla coscienza di essere nati in una posizione di subordine (il ghetto italiano o irlandese), che qua e là emerge anche quando i nostri si sono affermati (o credono di essersi affermati).
Lo si vede in Casino nello scontro tra Robert De Niro – gestore di casinò a Las Vegas per conto della mafia – e il commissario della contea di Las Vegas Pat Webb – cowboy con tanto di stivaloni e cappellaccio – personificazione di quella società wasp assai restia ad accettare l'ingresso degli italians dell'est e del loro faccendiere ebreo De Niro nel suo “salotto buono”.
Lo si percepisce anche nell'autoisolamento in cui si confina la “società mafiosa” di Quei Bravi Ragazzi – “eravamo sempre e solo noi, tutte le vacanze insieme, mai nessun estraneo” – o negli sfottò del boss psicopatico Frank Costello (Jack Nicholson) nei confronti di quella che a Boston è un'autorità indiscussa, la Chiesa cattolica – “la chiesa ti dice cosa devi fare, in ginocchio, in piedi... beh, se ti piace quel tipo di cose, non so che fare per te”.
La contraddizione fondamentale di cui i protagonisti di queste pellicole sono vittime è l'anelito al successo in un ordine socio-culturale disprezzato nel proprio subconscio in quanto artefice di quelle condizioni di marginalità in cui i nostri sono nati.
Quell'ordine non viene problematizzato sul piano, appunto, di una presa di coscienza di sé e delle cause strutturali della propria originaria marginalità, e viene quindi perpetuato a livello di immaginario individuale e di gruppo sotto-culturale, cioè la mafia, che esattamente come lo Stato mira al controllo del territorio e delle coscienze.

Michele Lembo




La fascinazione
dell'inganno

“La fantasia al potere” è uno slogan che conoscono tutti. Non tutti, però, sanno che lo conosceva anche Napoleone, anzi, che molto probabilmente fu proprio lui a coniarlo. Nella Milano che ha conquistato, il 17 giugno del 1800 il “primo console” Bonaparte viene riconosciuto da un gruppo di prigionieri ungheresi e tedeschi che lo acclamano colmi d'ammirazione. Così annota: «Quanto è grande il potere della fantasia! Ecco uomini che non mi conoscono, che non mi avevano mai visto, che avevano soltanto sentito parlare di me; tuttavia che cosa non provano, che cosa non sarebbero in grado di fare per me! E lo stesso fenomeno si rinnova in tutte le età, in tutti i paesi, in tutti i secoli!... Ecco il fanatismo! Sì, la fantasia governa il mondo!».
Uomini che non lo hanno mai visto, che solo ne hanno sentito parlare come condottiero nemico geniale e invincibile, inneggiano al futuro imperatore che – ma a questo punto sembra cosa marginale – è poi quello che ha fatto serrare loro i ceppi ai polsi. Nella favola di Andersen, uomini e donne festanti rimangono a bocca aperta di fronte al meraviglioso vestito dell'imperatore, che poi è quello che li comanda da sempre. E, davvero, è cosa marginale che, in realtà, quell'imperatore sia portato in parata nudo come un verme. È la fantasia che lo riveste, la fantasia che governa il mondo.
Nell'ultimo libro di Roberto Escobar (Eroi della politica. Storie di re, capi e fondatori, Il Mulino, Bologna, 2012) di fantasia ce n'è tanta. Non nel senso che Escobar faccia correre la propria, ma nel senso che l'autore traccia una dettagliata e approfondita storia della fantasia al potere, di quella fantasia che fa il potere e di quella fantasia che il potere mantiene e rinsalda. L'eroe, specie l'eroe fondatore, è “uomo eccezionale”, ma la sua eccezionalità – il suo carisma, seguendo Max Weber, non è nulla se non appare tale agli altri, a coloro che lo seguono come a coloro che lo combattono. Weber sosteneva che nel carisma vi fosse, in fondo, qualcosa di magico. Ma forse non è necessaria la magia, perché l'immaginazione, specie se incanalata e alimentata, è spesso più potente di qualsiasi sortilegio.
Non tutti gli “eroi della politica” dei quali ci racconta questo libro sono eroi in carne e ossa. Lo è certo Napoleone; certo non lo è Prospero, il duca di Milano fuggiasco della Tempesta di Shakespeare, non lo è Odisseo ed è assai facile che non lo sia neppure Romolo, il fondatore per eccellenza perché della Città Eterna. Ma non importa essere veriper essere reali, come scriveva Robert Nozick ormai trent'anni fa, e si può fare in modo di essere più reali senza, per questo, diventare più veri. Ciò vale a maggior ragione per gli eroi, “le persone eccezionali” (Elias) rispetto alle quali il “si dice” e il “si racconta” finiscono per valere quanto l'aver visto con i propri occhi e l'aver appreso da fonte certa. Questo è il tratto più eccezionale della loro eccezionalità: veri o no, essi vivono nell'immaginario prima ancora che nel mondo dei piedi per terra, e proprio per questo quel mondo mette a terra anche le ginocchia dinanzi a loro, domato e addomesticato dalla sua stessa fantasia.
In questo senso, allora, non è poi così tanto reale neppure il molto vero Napoleone. Ma poco importa, e tanto peggio per il mondo reale.
L'eroico Napoleone venerato dagli stessi soldati – questa volta: i suoi soldati – che, si dice (ma forse pure questo è apocrifo), si vanta di potersi permettere di mandare al macello a decine di migliaia al giorno; l'eroico e altrettanto venerato Romolo, che fonda la città sull'inganno e costruisce il proprio popolo sulle fondamenta del fratricidio, del rapimento, dello stupro; ma anche l'eroico Giuseppe Flavio, che nella Guerra giuda i casi compiace dell'inganno con il quale fa uccidere l'un l'altro i suoi in un suicidio collettivo e sottrae poi se stesso alla morte che aveva loro promesso di darsi, per presentarsi ai romani come mediatore amico; o come l'eccezionale Roi Soleil, che incatena la propria più banale quotidianità – svegliarsi, lavarsi, vestirsi, sorbire il caffellatte – in un rituale d'onore al quale, onorati, partecipano in gruppi dalle entrate scandite (chi assiste al risveglio, chi alla vestizione, chi allaccia la manica destra e chi la sinistra, chi guarda il re mentre fa colazione, e così via) nobili, notabili, figli e parenti. Che cosa c'è di eccezionale in quest'ultimo banale quotidiano? C'è il medesimo eccezionale che fa inorridire Odisseo di fronte alle mostruosità che vede nella caverna del ciclope – latte, formaggio, tinozze di siero: gli stessi oggetti della capanna di ogni pastore greco – e cioè il fatto che l'altro, l'eccezionalmente diverso da noi faccia le stesse cose che facciamo noi, i normali.
Come scriveva il saggio imperatore Giuliano, la finzione è in fondo quasi sempre nota, ma “tutti partecipano alla fascinazione dell'inganno”. Napoleone è il paladino dei soldati che (abbia o meno pronunciato quelle parole) manda al massacro, eppure nessuno di loro ignora la realtà della carneficina. Giuseppe stesso racconta del proprio vile inganno omicida, eppure proprio per questo si presenta come uomo probo. Non c'è limite alla potenza dell'inganno, e trattandosi di immaginazione, di “fascinazione”, non c'è neppure il limite del principio di contraddizione, della ragionevolezza, della plausibilità.
Sull'altopiano, in avanscoperta dietro le linee nemiche, Emilio Lussu, guadagna un controcampo e scopre sconcertato quello che aveva sempre saputo ma al quale non aveva mai davvero pensato, cioè che i soldati austriaci quando non combattono si lavano, si fanno la barba, fumano e giocano a carte, proprio come i soldati italiani perché, in definitiva, non c'è molto di più che la divisa a differenziarli gli uni dagli altri. Odisseo, i nobili e i notabili di Francia hanno il privilegio dello stesso controcampo, ma ne ricavano, al contrario, la percezione di un'accresciuta eccezionalità, quella del diverso (mostruoso il ciclope, meraviglioso il Re Sole) che, per estrema eccentricità, non fa quelle cose diverse che dovrebbe fare ma fa ciò che facciamo noi, i normali: munge le pecore o si alza dal letto mezzo addormentato.
Che cosa c'è, allora, di tanto eccezionale in questi uomini eccezionali? In fondo niente, se non che essi sono creduti tali. Napoleone ha fondato un impero, per quanto di breve durata, e questa non è certo cosa che ciascuno di noi ha mai fatto nel quotidiano. Eppure – e qui siamo in un'altra finzione, quella cinematografica dei Vestiti nuovi dell'imperatore – fuggito da Sant'Elena, nonostante passeggi impettito di fronte all'Eliseo, non lo riconosce nessuno, perché è tornato a essere soltanto un ometto corso.
Gli eroi come maestri dell'inganno, dunque. Maestri come Giuseppe Flavio e come Romolo, ma anche come Nelson Mandela, che ingannava dal carcere i suoi intessendo trattative di dialogo segrete con il governo dell'apartheid, certo che sia compito di un leader fare quello che i suoi non vorrebbero mai e poi mai che venga fatto se ciò consiste in azioni delle quali lui, diversamente da loro, riesce a vedere l'utilità e l'urgenza. O maestri dell'inganno come Sisifo, che riesce a buggerare per due volte gli dèi – perfino Thanatos, la morte stessa – ricavandone una volta la fondazione di una città (l'acropoli di Corinto) e una volta stravolgendo il corso della natura incatenando la morte agli stessi ceppi che erano pronti per lui negli inferi, così che, sia pur per poco tempo, gli dèi divennero meno diversi dagli uomini, divenuti immortali anch'essi.
Alla fine gli eroi muoiono, come gli altri. Muore Artù, muore Napoleone, muore Beowulf, l'uccisore di orchi divenuto re saggio, e muore Sisifo. La vendetta divina è nota: per l'eternità Sisifo sospingerà un masso su per una ripida china, con il solo risultato di farlo cadere dallo strapiombo dietro alla vetta, vederlo rotolare ai piedi del monte e dover ricominciare da capo. La vendetta è davvero diabolica e raffinata: tu che in vita hai costruito, da morto sei condannato a lavorare senza costruire nulla. Tuttavia, nemmeno questa vendetta, per quanto divina, è perfetta. Anzi, essa offre a Sisifo una nuova occasione. Mollato il masso, sporco di sudore e di polvere, Sisifo deve torna a valle sgombro, una volta dopo l'altra. E per l'eternità, libero dal fardello, bestemmia e maledice gli stessi dèi che magari ha invocato durante la fatica inumana della salita. E forse non bastandogli quelli che ci sono ne inventa di nuovi ogni volta, perché l'ingannatore degli dèi non può non avere “indole di bestemmiatore d'ogni cielo e d'ogni assoluto”. Gli eroi fondatori o difensori dell'ordine che già c'è sono gli eroi normali, e nella loro normalità, tolta la finzione e tolto l'artificio, c'è davvero qualcosa di poco eroico. L'eroe eccezionale, che alla fine è il solo che possa essere detto eroe, è quello che, una volta dopo l'altra, ricomincia.

Persio Tincani



Voce libertaria
compie 5 anni

Riproduciamo lo scritto di un membro del collettivo redazionale del periodico anarchico ticinese “Voce libertaria”, apparso sull'ultimo numero. Si tratta di una vivace pubblicazione che merita di essere conosciuta e sostenuta. Magari anche abbonandosi (in coda allo scritto i dati per farlo).
Questo Primo maggio 2012 il nostro periodico anarchico compie i suoi primi cinque anni. Era proprio nella giornata dei lavoratori e delle lavoratrici del 2007 che questa testata ha iniziato a farsi conoscere. In cinque anni, progressivamente, il giornale ha aumentato i suoi abbonati, ha un sito internet dove si possono trovare tutte le annate, ha promosso degli incontri libertari su varie tematiche legate al nostro movimento. Insieme alla costanza, alla regolarità delle quattro pubblicazioni annue, tutte le compagne ed i compagni della nostra regione lo hanno sfogliato, letto, diffuso, apprezzato o criticato. Anche oltre Gottardo e in Italia, in diversi circoli anarchici è conosciuto.
Apprezzato e criticato, inutile dirlo, è normale per un giornale ed è forse ancora più “normale” per un periodico anarchico, con una redazione composta da sette persone – purtroppo in maggioranza uomini e solo una donna – con sensibilità, interessi, età diverse, ma con la convinzione che ciò può essere una ricchezza e non un limite.
Chi ci legge sa che Voce libertaria è una pubblicazione plurale, con articoli di vario genere. Dall'esito di una manifestazione, alla storia e teoria dell'anarchismo a opinioni personali che non per forza rispecchiano il pensiero dei singoli redattori ma che la redazione tutta, dopo una valutazione, decide di pubblicare perché considerati interessanti, eventualmente anche per innescare un dibattito. La varietà degli articoli proposti rispecchia l'eterogeneità, oltre che degli interessi del gruppo redazionale e della cerchia dei collaboratori, anche dell'antagonismo in Ticino e delle sue lotte e speranze, quindi è inevitabile che gli articoli pubblicati in questi cinque anni siano vari, interessanti, criticabili, originali, a volte contraddittori tra loro.
Personalmente ho sempre concepito il nostro periodico per un pubblico non anarchico, vario, più o meno giovane ed incuriosito positivamente dall'anarchismo, e oltre a ciò credo che dovrebbe essere anche uno strumento di riflessione che possa interessare a tutte le compagne ed i compagni che nella nostra regione sono attive/i in gruppi che prediligono l'azione diretta, l'auto-organizzazione per dei fini anche parziali ma comunque animati dal desiderio di giustizia sociale.
L'anarchismo sicuramente non lo si fa semplicemente con un giornale e credo che le anarchiche e gli anarchici, nel caso la situazione lo richiedesse, debbano concentrarsi su cio che è più importante: agire concretamente nel contesto dove è auspicabile la loro presenza. Il periodico, in generale tutta la nostra stampa è per noi un mezzo, non un fine.
Oggi, a mio avviso, è importante far conoscere il pensiero e l'azione libertaria, riflettere su come si potrebbe farla finita con la società gerarchica, del dominio, e come poter costruire una società dove la libertà dell'individuo venga garantita dall'uguaglianza e dalla libertà di tutte e tutti, senza sfruttati né sfruttatori, stati, chiese, banche, e tutto ciò che oggi rende schiava la maggioranza della popolazione mondiale. Retorica? Beh, continuare a credere nella bontà dell'azione parlamentare, della delega, in un mondo dominato dalla finanza, dalla corruzione, dalla devastazione sociale ed ambientale, questa sì che è una pia illusione.
La storia dell'emancipazione umana ci mostra che è solo con la lotta, l'azione diretta e la volontà di affrancarsi dall'ingiustizia che realmente possiamo spezzare le catene – una volta e per tutte – per una società egualitaria e libertaria.

D.B.

 

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Prove concrete
di organizzazione orizzontale

Capita di trovarsi tra le mani l'ultimo 7” del Kalashnikov Collective, eclettico collettivo milanese che da più di un decennio allieta gli squat italici.
Vampirizzati oggi: quattro canzoni che parlano di morte quotidiana e di speranza di riscossa. Dell'alienazione che avanza, iniettata nelle vene umane da un modo di vivere che mette sopra ogni altra cosa la corsa al profitto, una spoglia mosca cieca il cui premio è la sopravvivenza. Di lavoro che, nato come mezzo, diventa fine (senza fine) che assorbe e annichilisce. Mentre per un altro giorno, per un altro giorno ancora, si arriva al domani per inerzia, anche se il futuro non riserva un granchè. Mentre il lavoro, l'istituto scolastico che diventa suo precursore, con la stessa dinamica asettica dell'allevamento intensivo, del carcere, del manicomio, del lager, dello stabulario vivisettorio, tagliano il legame fra la possibile utilità di un'azione e la mansione concreta che invece ci si ritrova costretti a svolgere, fra la possibilità creativa e la lobotomizzazione forzata, “perchè farsi troppe domande rende meno competitivi sul mercato”.
E sono solo orde, orde di morti viventi che marciano verso le bocche del forno crematorio perchè è stato detto loro che va bene così, che lacrime e sangue saranno il prezzo da pagare. Non si accorgono di quel che è sepolto negli occhi del vicino: ormai è solo un avversario nella corsa. Corrono, corrono per arrivare primi, o forse perchè per fermarsi è troppo tardi, corrono perchè se tutti intorno a loro stanno correndo un motivo pure ci sarà – quale non è chiaro. Corrono, corrono, e al traguardo non trovano ad aspettarli altro che una tomba vuota con il loro nome scritto sopra.
Se nel più vecchio Dreams for super-defeated heroes i protagonisti erano supereroi strappati al loro mondo di cellulosa e costretti ad affrontare la dura realtà, in Vampirizzati Oggi al centro dell'obiettivo ci sono coloro che si oppongono, in un modo o nell'altro, all'oscura magia che sta trasformando ogni persona si trovi loro attorno in un morto vivente. Formiche che cercano di resistere alla vampirizzazione delle loro vite. Si nascondono negli anfratti del tempo e dello spazio, fuggono verso Croatan o cercano di creare una effimera zona autonoma, la notte escono allo scoperto per ballare ritmi di vendetta, scandendo le ragioni della loro estraneità. Come scoiattoli si arrampicano con un sasso fra le mani fin sulle pareti delle fabbriche di morte, confidando che quel semplice ordigno possa incepparne i meccanismi, che continuano incessantemente nel frantumare le ossa dei padri e dei figli. Sono solo formiche e scoiattoli, ed è qui che sta la loro forza.
È un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I pazzi sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo affrontiamo questa realtà? E…quanti di noi lo sanno? Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è pazzo. Oppure può dire di essere guarito, finalmente. Si risveglia. Credo che solo poche persone si rendano conto di tutto questo. Persone isolate, qua e là. Ma le masse…che cosa pensano? Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città. Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure intravedono, intuiscono in qualche modo la verità? Ma, pensò, che cosa significa la parola pazzo? È una definizione legale. E per me, che significato ha? Io la sento, la vedo, ma che cos'è? È qualcosa che fanno, pensò, qualcosa che sono. È la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno ancora causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo sento, lo intuisco, ma…sono volutamente crudeli…è quello? No. Dio, pensò, non riesco ad arrivarci, a chiarire il concetto. Forse ignorano parti della realtà? Sì. Ma c'è di più. Sono i loro progetti. Sì, i loro progetti. La conquista dei pianeti. Qualcosa di frenetico e di folle, così come lo è stata la loro conquista dell'Africa, e prima ancora dell'Europa e dell'Asia. [...] Quello che non comprendono è l'impotenza dell'uomo. Io sono debole, piccolo, senza la minima importanza per l'universo. L'universo non si accorge di me, e io vivo senza essere visto. Ma perché questo deve essere un male? Non è meglio così? Gli dèi distruggono coloro di cui si accorgono. Se sei piccolo potrai scampare alla gelosia di chi è grande. (La svastica sul sole, Philip K. Dick)
Un disco che abbandona lo slogan per tentare di sussurrare all'orecchio parole che insinuino il dubbio, al ritmo di ballate post-industriali. Coerenza fra fini e mezzi, scardinamento della concezione dell'artista come eletto, o come idolo da inseguire: l'arte ritorna ad essere pure urgenza esistenziale; la musica va al di là dei clichè di genere, così da potersi focalizzare sul contenuto e sul modo migliore per veicolarlo. Rifiuto delle logiche commerciali in favore di un'autoproduzione vista in primo luogo come necessità di riappropriarsi della propria vita, di non delegare la propria capacità creativa a terzi ma di usarla invece come trampolino di lancio per la creazione di nuove relazioni umane.
Poi ti capita di assistere ad un loro concerto, coinvolgente come pochi. E, quando tutto è finito, di avvicinarti al banchetto della distro: cd, vinili, fanzines e libri, con a fianco una cassetta per le donazioni. Prezzo libero. Completa fiducia nei confronti dei ragazzi (di ogni età) che sono andati a incontrarli. E la cosa bella – la cosa che ti colpisce – è che, di fronte ad una distro incustodita con un cartello che invita a lasciare quel che si può/vuole (sia questo denaro o un altro oggetto di scambio) si vede comunque la gente capire il legame di reciproca fiducia e rispetto che questa visione sottende e non approfittare della situazione. Come dire, prove concrete di organizzazione orizzontale. Ed è qui, in queste “piccole” cose – piuttosto che nella (straordinaria) musica in sé – che va forse cercato un senso in quello che i ragazzi del Collettivo portano avanti.

Valentino Giorgio Rettore



Una religione
senza le religioni

È da poco uscito il volume No man's land. Elogio e critica del religioso contemporaneo (presso l'editore Ipoc di Milano) del nostro collaboratore Federico Battistutta, il quale sulle pagine di “A/Rivista anarchica” si è spesso occupato di tematiche connesse all'anarchismo religioso. Nel testo in questione si riprendono e si approfondiscono tali argomenti, anche attraverso un confronto/scontro con alcuni autori moderni e contemporanei appartenenti a campi del sapere e a coordinate culturali assai diverse: da Raimon Panikkar a Raoul Vaneigem, da Tolstoj a Simone Weil, da Martin Buber a Ferdinando Tartaglia e a Peter Lamborn Wilson (alias Hakim Bey), da Luce Irigaray a Jiddu Krishnamurti, per citarne qui solo alcuni.
Di seguito pubblichiamo la prima parte dell'introduzione.
Per ulteriori informazioni rimandiamo al sito dell'editore www.ipocpress.it dove è possibile visionare, oltre alla versione integrale dell'introduzione, l'inizio del primo capitolo, la bibliografia utilizzata e altro materiale ancora.

Iniziamo con un racconto. C'è un aneddoto che si narra riguardo a Wittgenstein. Lo riferisce un amico di lunga data del filosofo austriaco. Siamo agli inizi degli anni Trenta, all'incirca. Un giorno Wittgenstein aveva consegnato all'amico un libro di preghiere e questo fatto fornì ai due l'occasione per una discussione sulle liturgie antiche, in particolare sulla messa in latino. All'affermazione da parte del suo interlocutore dell'importanza che venissero ordinati sacerdoti a garanzia della prosecuzione delle tradizioni religiose, Wittgenstein replicò che, sebbene l'idea apparisse meravigliosa, sino ad allora la cosa pareva che non avesse funzionato più di tanto, aggiungendo che la religione del futuro sarebbe stata senza sacerdoti e, per queste ragioni, era quanto mai opportuno per entrambi imparare a vivere senza la consolazione di appartenere ad una Chiesa.
Senza la consolazione di appartenere ad una Chiesa, questa è la conclusione di Wittgenstein. Oltre tre quarti di secolo sono trascorsi da quell'episodio, sobriamente riferitoci. Di ciò e di altro parleremo in queste pagine, compiendo una serie di variazioni sul tema. Secondo il punto di vista di un'esposizione impersonale ci troviamo oggi di fronte ad uno degli effetti del fenomeno chiamato ‘secolarizzazione', il quale ha investito tutto il sistema dei valori contemporanei, modificandoli e, con essi, ha trasformato identità e appartenenze delle parti in gioco; mettendo in crisi, oltre alle Chiese, anche altri soggetti, come lo stato, i grandi partiti e i movimenti di massa, in quanto ha eroso la pretesa da parte di questi attori sociali di presentarsi sullo scenario della storia come luogo di transito obbligato, come centro sacrale nelle vicende dell'uomo e del mondo. Dal canto loro le istituzioni religiose, con il patrimonio storico (a volte ingombrante) che le accompagna, si autocomprendono sempre più come istituzioni e sempre meno come religiose. E il fine ultimo di un'istituzione, lo sappiamo, è garantire quell'insieme di condizioni che consentano, a dispetto di tutto e di tutti, di riprodurre sé stessa. Sono vittime di sé stesse, si potrebbe anche aggiungere. Ma, a dirla intera, non è questo il versante del discorso che ci interessa indagare; lasciamo ad altri verificare sia tale ipotesi, sia la possibilità di rianimare il soggetto in questione.
Quello di cui si sta parlando tratta di un processo lungo, proveniente da lontano e tuttora in corso, che ci tocca e coinvolge direttamente. La questione, dunque, non può essere studiata in vitro, trattata con il distacco dell'osservatore imparziale. Parla di noi, ne siamo attraversati. Non basta il logos – e neppure l'ethos – per venire a capo del discorso, se non è accompagnato dal pathos, da una qualità del sentire in grado di risuonare con chi è vicino, con chi ascolta. Per questo è bene collocare noi stessi al centro del discorso religioso. Rinunciare a ciò è rinunciare a venire a capo del rompicapo che ci abita. Si parla di noi, qui, dei nostri interrogativi, delle passioni che ci spingono ad agire e ad attribuire senso a quello che facciamo.
Per secoli le religioni sono state un immenso serbatoio di speranza e di significato, riuscendo a vivere anche momenti festivi. Oggi, il contenitore non contiene più, l'aura che lo avvolgeva è andata persa, definitivamente. Tutte quelle energie per lungo tempo hanno trovato lì ospitalità; ora, dopo periodi di opacità e silenzio che sembravano senza fine e ove pareva che la domanda di senso languisse inerte, tali forze paiono riemergere, come fiumi carsici stanno cercando nuove strade, nuovi canali di espressione. “Per dove?” è la domanda del viandante di fronte alla quale è giusto porsi. Molto di quello a cui si assiste, ciò che cerchiamo di fare, sembra poco più di un bricolage, sono tentativi vani di cercare una forma – osservano in molti, gli osservatori, gli studiosi, i cinici di turno, quelli per cui o l'apocalisse non verrà mai o, se dovesse sopraggiungere, non lascerà comunque traccia di salvezza per nessuno.
Non sappiamo quello che accadrà, certo preferiamo metterci in cammino e provare, con gli attrezzi e le conoscenze che abbiamo a disposizione, sicuri comunque che quanto verrà fuori da questi laboratori saranno pezzi unici, autentici, risultato vero dei desideri, dell'intelligenza e della cooperazione dell'uomo e della donna, ben differente dai pezzi anonimi, in serie, partoriti dalle megamacchine istituzionali.
È vero, in alcuni frangenti la speranza e il senso paiono spenti, sembra di girare a vuoto o di toccare un punto morto. Dire tutto lo smarrimento e il dolore è dire solo la verità del momento. Da qui partiamo. Giungere a toccare e a sperimentare questo bordo estremo può condurre anche a un punto di svolta, ad un rovesciamento di prospettiva. Come ricordava Hölderlin, “dove c'è pericolo cresce anche ciò che salva”.
Di fronte a ciò non esistono scorciatoie o alternative, sia nel caso delle opzioni fondamentaliste (religiose, ma non solo), tanto più rassicuranti quanto più rigide e ottuse nella loro ostinazione, sia nelle liquidatorie reazioni laiche e illuministiche al sentire religioso, che, il più delle volte, nonostante le immani offerte elargite dal sistema degli oggetti e del consumo, sanno proporre solo un cono di luce fissa e ristretta che tanto più impoverisce quanto meno sa riscaldare. Ci siamo messi in cammino, pur consapevoli che il possibile guadagno in questa ricerca non è un bene da trattenere, che si accumula e si custodisce nei forzieri del proprio foro interiore, ma è praxis, azione, premio da cedere, dono da scambiare, testimone da passare, guadagno come perdita.
Religione senza religioni: è allora questa la strada da percorrere? Se le istituzioni religiose, i luoghi di culto abituali con i credo ivi proclamati appaiono sempre più come rivestimenti vuoti, simulacri dei fasti di un passato remoto, non per questo, gettando l'acqua sporca che conserva tutto ciò, dev'esser gettato via anche il bambino in essa contenuto. Ma quale bambino? Se il passato è passato per sempre, bisogna riandare a ciò che viene prima del passato, prima di ogni ingombrante eredità. Si tratta di risalire il fiume fino alla sorgente, per andare alla sorgente della sorgente. Ignoriamo quanto potrà durare il cammino, né dove ci porterà. È vero, chi cerca trova – dice il proverbio – ma quello che troveremo avrà poco a che vedere con l'idea coltivata al momento della partenza. Ingenuità degli inizi! L'idea ci dà la spinta, ma si dovrà lasciarla cadere una volta intrapresa la strada, e l'esperienza insegna che più si è leggeri, meglio si viaggia. Il cammino si fa percorrendolo, pezzo per pezzo, costruendolo ex novo, con tutti gli andirivieni, le impasse, le soste, gli imprevisti e i pericoli del caso, provando a percorrere non i consueti sentieri battuti, ma, senza voltarsi indietro, saper osare, con la necessaria determinazione, un inoltrarsi in ciò che deve ancora venire. Terra incognita, vergine, terra nullius, no man's land è quella in cui ci troviamo; non per colonizzarla e predarla, ma per riceverne quell'energia e quel nutrimento che mai si esauriscono.
Una religione prima e dopo le religioni. Perché l'homo religiosus viene prima di qualsiasi religione: noi siamo orientati verso questo testimone, custodito all'interno di ogni uomo (homo absconditus), nella storia e oltre la storia, e ad esso intendiamo rivolgerci. Come non condividere e non collocarci sul medesimo solco di quanto scriveva Ferdinando Tartaglia – un autore che ha anticipato molte delle tematiche di cui parleremo – agli inizi del secondo dopoguerra: “chi predice religione può oggi anche sputare sulla propria vita, e sputando sulla propria vita può aspirare senza orgoglio a diventare più che il Buddha, più che il Cristo (guai se tutti noi non aspirassimo a essere più che il Buddha, più che il Cristo)”.

Federico Battistutta