rivista anarchica
anno 42 n. 373
estate 2012


percorsi di vita


a cura di Ascanio Celestini e Alessio Lega
foto di Paolo Navalesi ed Eleonora Pellegri,
Fino al cuore della rivolta, Fosdinovo


Incrocio di sguardi

Cominciamo da “Pro patria”

Il libro ce l'ho nelle mani da oggi 10 di maggio. Dunque l'ho chiuso un paio di mesi fa. Dunque l'ho scritto a novembre. Dunque la lunga chiacchierata, dalla quale il libro prende le mosse, risale alla fine d'agosto 2011, dentro una Roma torrida.
Perciò del nuovo spettacolo di Ascanio “Pro patria”, questo libro è impregnato interamente, perché lui ci stava lavorando a rotta di collo. Quando anch'io ho visto questo spettacolo ne sono uscito sconvolto, emozionato, intenerito, turbato, divertito, inorridito... mi resta una constatazione che vorrei condividere con tono moderato ma con certezza incrollabile: Celestini è un genio. Sono proprio contento di aver avuto la ventura di lavorare con lui e, in particolare, che questo nostro libro esca mentre lui è impegnato nella tourné di un capolavoro come “Pro patria”, il suo spettacolo più anarchico, il più anarchico degli spettacoli che abbia visto.
“Pro patria” è uno spettacolo sulla galera, fa parte del filone anti-istituzionale di Ascanio, come già “Fabbrica” e “La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico”.
Il protagonista di “Pro patria” – Ascanio che è da solo in scena – è un detenuto che elabora il proprio discorso all'umanità, che lo ripassa e lo rivede, lo ripercorre e lo chiosa continuamente, se lo studia e lo approfondisce. Il suo monologo è in realtà un dialogo serrato con un Giuseppe Mazzini, muto e accigliato super-io.
A fare da sfondo a questo monologo/dialogo c'è la vita priva di vita dell'ergastolano in mezzo ad altri reclusi, l'arroganza ridicola e crudele dei secondini. La tragedia della detenzione, resa acuta dalle reminiscenze del passato, dall'emergere dalle nebbie del ricordo della figura paterna, che echeggia la reale figura di Nino, il padre di Ascanio.
L'ardita, durissima verità storica proposta dallo spettacolo è che una rivoluzione repubblicana e anarchica è stata interamente travisata nel nostro risorgimento. Le figure di Mazzini, Orsini, Pisacane, dei martiri della Repubblica romana, rivivono e, nella dimessa chiave di Celestini, senza ombra di retorica, giganteggiano in una rievocazione di bellezza, epica e commovente. Come faccia Ascanio – sobrio, ironico e demistificante – a rendere tanto pathos, è mistero che attiene alla sua eccellenza di scrittore e di attore.
La chiave dello spettacolo è proprio nel filo che collega questa rivoluzione tradita a quelle che l'hanno seguita. Lo Stato italiano nasceva proprio sulle sue ceneri, anzi, faceva delle ceneri di questi rivoluzionari il proprio mito di fondazione.
Ma, ci dice in conclusione Ascanio, questi non sono mai stati “patrioti”, sono stati dei terroristi, e i luoghi che paradossalmente più “onorano” (sia detto davvero fra virgolette) la loro memoria sono le carceri italiane: fra le peggiori al mondo per affollamento, per tasso di suicidio, per violenze subite, per disumanità.
In quelle carceri c'è l'eco della vita e delle idee di Mazzini, Pisacane e compagnia, quelle carceri sono il più sincero tributo alla loro volontà di cambiamento.
La rivoluzione sognata dai repubblicani e dagli anarchici che “fecero l'Italia” non è conciliabile con alcuno Stato – e in particolare con lo Stato della Repubblica italiana – perché questo Stato non esiste senza le sue prigioni, perché la prigione è l'essenza stessa dello Stato: senza di essa questo Stato si accartoccerebbe fino a scomparire. Se volete visualizzare il rapporto fra gli ideali dei martiri del risorgimento e lo Stato italiano, non cercate la statua di Garibaldi, guardate le ultime immagini di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi, di Carlo Giuliani.

Qualche stralcio
La premessa del libro

Le parole di Ascanio Celestini sono un corso inarrestabile, con mille affluenti. Ascanio è un predicatore medievale senza dottrina, con cento saperi. Ascanio è un teatrante nel cui parlare vivono voci. È raro che il suo discorso sia diretto. È raro che Ascanio sia un ‘io' premesso a tutto un discorso. Ascanio non è un trattato aristotelico, piuttosto è un dialogo platonico. Vive prima della scrittura, e riesce a far vivere anche le cose scritte.
Alle domande dirette le risposte di Ascanio prendono la piega della messa in scena a più voci. Nel suo parlare continuano a materializzarsi centinaia di personaggi, veri personaggi della realtà, ipotetici personaggi di un dialogo interiore. Se ci sono più di tre frasi nel suo discorso c'è già una drammaturgia.
Ascanio ti sta parlando di una cosa, una cosa qualsiasi, si arresta un secondo – un lunghissimo secondo, visto che in un secondo lui infila dieci parole – come per dire «due punti», come per fare un esempio, e lì entrano in scena dei personaggi. Il monologo si sdoppia. Si direbbe che, come i suoi matti, Ascanio sia abitato da voci, decine di voci che continuamente commentano e mettono in dubbio o confermano o danno una lettura alternativa di ciò che lui ti sta dicendo. Abitato da queste voci, Ascanio ha trovato un modo di farle sgorgare, di liberarsi di questo fiume di frammenti di pensieri che lo attraversano costantemente, che rischiano di ingorgarlo.
Il fluire della voce, l'organizzazione del pensiero, la forma dell'espressione, questo dialogo fra sé e sé – con me per testimone – sono un viaggio, nuovo e straordinario, nelle follie e nelle possibilità del nostro tempo. Quello che ho qui registrato è in fondo uno spettacolo di Ascanio. Mi sento anche di dire che è una bellissima storia, anzi, come “Cecafumo”, come “Fabbrica”, come “Scemo di guerra”, è molte bellissime storie tutte assieme.

A.L.


Milano, 17 maggio, chiostro del Piccolo Teatro.
Ascanio Celestini e Alessio Lega durante la
presentazione del loro libro/conversazione
(foto Roberto Gimmi)

I matti
Alessio: Hai citato anche il caso di Franco Mastrogiovanni, che nella sua storia incontra due volte la repressione, la prima negli anni settanta perché anarchico, e questo gli rovina la vita. La seconda nel 2009 perché considerato matto, e questo proprio gliela toglie la vita. È una vittima predestinata, una vittima al quadrato. I matti ti stanno a cuore, e ti sta a cuore anche quel grande liberatore che fu Franco Basaglia.
Ascanio: Franco Basaglia mi sta a cuore proprio perché ha fatto esattamente il contrario del lavoro di mutazione linguistica, lui ha detto «i matti non esistono». Voleva dire nessuno è soltanto 'matto'.
Sentire le voci è una cosa drammatica, perché le voci le senti davvero e non le distingui dalla gente che ti parla. Però uno che sente le voci può essere – per esempio – un grande enologo. Allora chi è? «è uno che fa un vino straordinario». Ma quello è un grande enologo o è un matto?
Nessuno è solamente 'un matto'. Così come uno che si rompe la gamba è uno con l'osso rotto, che però è anche uno che scrive libri o li legge o uno che cucina molto bene, o magari è un gran rompicazzo… ma certo lui non è solo la sua gamba rotta.
Che cos'è 'la disabilità'? È un altro processo linguistico, una sineddoche: la parte per il tutto. Tu diventi 'quello che sente le voci'. Diventi 'lo zoppo'. Diventi 'il cieco'. 'Il sordo'. 'Il nullafacente'. 'Quello che compie reati'.
Se invece pensi che abbia un senso riportare quell'individuo all'interno di tutto quel tessuto che è 'la società', tu non devi lavorare sul fatto che è 'un ladro', quasi non glielo devi dire. Perché più tu lavori sul fatto che è 'un ladro' – pur dicendo che non bisogna rubare – più tu insisti sull'elemento che lo pone 'al di fuori' della società. Il carcere, il manicomio, sono luoghi 'confinati', sono luoghi al di fuori della società. Visto che la gente si ammala delle stesse malattie, dentro e fuori il carcere, perché non curarli tutti nello stesso posto? O meglio, allo stesso modo. In effetti anche l'ospedale è un luogo confinato, in cui si favorisce il contagio delle malattie, come in carcere il contagio delle devianze. In questi centri di cura territoriali, tu curi l'ergastolano accanto al bambino che ha la varicella – con un po' di attenzione, certo – ma in maniera che tu fai sentire il bambino vicino a una persona che altrimenti lui vedrebbe solo in televisione come un mostro, e il mostro vicino a una persona accanto alla quale, probabilmente, si sentirà un po' meno mostro. Invece noi tendiamo a cogliere nell'individuo l'unico comportamento deviante e azzerare tutto il resto per isolarlo. Questa cosa non è solo sbagliata – io sono ideologicamente contrario – ma è pure inutile, stupida. Non funziona.
Se tiro un muro da una parte metto i buoni, dall'altra i cattivi. I cattivi li metto in galera, i buoni stanno fuori. Se funzionasse, capirei... ma non funziona!
Se io metto da una parte i malati, dall'altra i sani, se funzionasse, avrei fatto un 'lager', però utile a qualcosa. Invece non funziona. Visto che non funziona e continua a non funzionare da due o tre secoli, tanto vale prendere un'altra strada.

La lotta di classe
Alessio: Nei tuoi spettacoli più maturi la riflessione si è appuntata su tre istituzioni: fabbrica, manicomio, carcere, rispettivamente negli spettacoli “Fabbrica”, “La pecora nera”, e in quest'ultimo “Pro Patria”. Tutte queste istituzioni hanno dei muri.
Anche il precariato è una prigione, è una fabbrica, ma le sue mura sono invisibili. La condizione precaria dilaga per tutta la vita, la imbratta. Impedisce di decidere in quale direzione muoversi, impedisce la scelta. È un limbo globale senza confini. Per fare una lotta – anche quella di classe – ci vuole un ring, ma il ring è smaterializzato.
Ascanio: Sanguineti diceva «la lotta di classe la fanno solo i padroni».
In questa nuova lotta condotta dai padroni non c'è più il muro, dunque come fai a buttarlo giù? Oggi sei vuoi fermare la produzione cosa fai? vai a fare un picchetto in Cina? in Corea del Sud? a Taiwan? dove vado a fermare il krumiro che entra in fabbrica al posto mio, io che sto a Segrate?
Ecco perché oggi diventa sempre più interessante il conflitto territoriale. Noi non siamo assolutamente in grado di interagire con chi sposta il metano da un gasdotto siberiano. Però so che, se stanno facendo un inceneritore ad Albano, io lì qualcosa posso farla. Lì io quella cosa la posso fermare. Da lì posso riorganizzare tutto un discorso. Perché se io vado dal mio vicino di casa a parlargli del gas libico, quello mi risponde «ma che mi frega del gas libico, come posso io interagire se manco so chi c'è oggi al posto di Gheddafi. Con chi parlo? con l'ENI, con IMPREGILO? E se, nel momento in cui si viene a sapere che Gheddafi è morto, IMPREGILO prende un sacco di punti in borsa, io non so neanche cos'è IMPREGILO, non so cosa sta facendo l'ENI... come faccio? andiamo in Libia? macché davvero? ma in quanti? un milione? per fermare e cambiare cosa?».
Invece, se tu spieghi che ad Albano l'acqua già non è potabile, che per quell'inceneritore serve un sacco d'acqua, e lì di acqua ce n'è proprio poca... allora quello lì capisce, perché gli stai parlando di quello che esce dal rubinetto di casa sua. Così, immediatamente, tu stai parlando di monnezza, di consumi, di energia. Di qualcosa che è relativo ad Albano, ma anche al pianeta e alla vita sul pianeta. Sono discorsi che ormai riesci a fare solo a livello territoriale e che a parere mio funzionano molto.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it


80 anni divisi a metà

Ascanio Celestini
(Roma, 1972) è la voce più nota del teatro di narrazione, al quale arriva da una formazione non accademica e da studi di antropologia. Interessato all'oralità, reinterpreta con grande originalità le formule della letteratura e della storia popolare, proponendo un teatro fortemente innovativo basatosu monologhi di narrazione torrenziale. In men o di vent'anni produce più di dieci spettacoli, scritti e messi in scena interamente da lui, riscuotendoun enorme successo di pubblica e di critica. Negli stessi anni pubblica anche quattro romanzi, svariati racconti teatrali, una raccolta di favole, un album da cantautore, un documentario sul precariato (Parole sante) e un film (La pecora nera), che dirige e interpreta, presentato in concorso al festival del cinema di Venezia nel 2010. Trova anche il tempo di collaborareassiduamente con la radio, approdando infine in televisione con brevimonologhi a cadenza settimanale che, nel programma Parla con me di Serena Dandini, lo rendono noto al grande pubblico. E inviso ai potenti.

Alessio Lega
(Lecce, 1972), caparbiamente convinto che cambiare il mondo sia sempre possibile, anche con la musica, ha iniziato a scrivere canzoni nel 1985. Da allora, per scelta più «cantapoeta» che cantautore, ha tenuto centinaia di concerti in tutta Italia e ha inciso cinque cd che gli sono valsi due nomina-tion e una Targa al Premio Tenco (quest'ultima nel 2004 con l'album Resistenza e amore). Storico della canzone d'autore, nelle tante espressioni che ha assunto in tutto il mondo, ha anche pubblicato il libro Canta che non ti passa (Stampa Alternativa, 2008).

 

 



Soltanto ore d'aria

di Laura Antonella Carli

In margine all'ultimo spettacolo teatrale di Ascanio Celestini

Ma bisogna anche, e forse soprattutto,
porre il problema inverso:
come si è fatto perché gli uomini
accettino il potere di punire,
o semplicemente, essendo puniti,
tollerino di esserlo.

(Michel Foucault, Sorvegliare e punire)

In principio l'idea era raccontare la storia, non sufficientemente nota, della Repubblica romana del 1849; il colpo di genio di Celestini è stato filtrare la vicenda attraverso un punto di vista inedito: un ergastolano dei giorni nostri, che elabora la sua personale riflessione sulla storia e sulla società attraverso le prove di un fantomatico Discorso, che da anni va esercitando e rimeditando, con l'ausilio di un interlocutore ideale: Giuseppe Mazzini.
In aperta polemica con la storia dei vincitori, Celestini offre al pubblico il racconto di tre sconfitte: la Repubblica romana, che voleva governare “senza prigioni e senza processi”, la Resistenza e la lotta armata degli anni settanta, scatenata dalla strage di Piazza Fontana: “il giorno in cui i padroni hanno rincominciato a sparare sul popolo, come Bava Beccaris”. Una storia di sconfitte raccontata dai perdenti, penetrata nelle carceri attraverso le letture consentite dalla censura e filtrata attraverso l'esperienza e la coscienza politica del narratore, una coscienza politica maturata in carcere, “scuola di rivoluzione”.
Gli stessi spunti che consentono al protagonista, Il ladro di mele, di elaborare una riflessione politica e di abbracciare la lotta armata gli forniscono gli strumenti per meditare sulla stessa istituzione carceraria, messa in discussione con occhio foucaultiano, soprattutto per quanto riguarda la figura dell'imputato: non più cittadino, ma rappresentato per sineddoche dal reato che ha compiuto. Il carcerato è il suo reato, come il matto è identificato con la sua presunta pazzia, che finisce per assorbire ogni altra caratteristica dell'individuo: “eppure uno zoppo – osserva polemico Celestini in un'intervista – non è soltanto la sua gamba rotta”. Oltre a questa singolare tangenza, viene messo in luce un ribaltamento significativo: il furto di una mela non è reato, afferma Il ladro di mele. È un manifesto politico inequivocabile: “Se tutti avessero una mela, rubarla costituirebbe un reato, ma in questa società, possedere la mela è reato e rubarla è un atto di giustizia”.

Alessio Lega e Ascanio Celestini
(foto Paolo Novalesi)

In genere tutto il monologo vive delle due tematiche, strettamente intrecciate, della lotta politica e della critica all'istituzione carceraria: dopo la fabbrica e il manicomio prosegue il discorso di Celestini sulle istituzioni e sui loro meccanismi di esclusione. Proprio il legame che intercorre tra la storia della Repubblica e la storia della prigione offre una delle più importanti chiavi di lettura dello spettacolo: con intento demistificatorio nei confronti della retorica risorgimentale e dei suoi freddi monumenti di marmo, per bocca di un personaggio che non ha più molto da perdere Celestini dichiara a gran voce che la storia della Repubblica “è fatta di galera e lotta armata, non di monumenti” e che la sconfitta si registra quando la rivoluzione combattuta dai figli viene tradita dai padri, gli ex rivoluzionari che si ritrovano, a loro volta, a reprimere rivolte.
Ritornano le cifre stilistiche del teatro di Celestini, che poi sono le peculiarità del “teatro di parola”, dalla scenografia minimale: una pedana di 2 metri per 2 che restringe il campo d'azione, simulando lo spazio angusto di una cella, alla dizione formulare, tipica dei racconti orali, fatta di ripetizioni ed epiteti riconoscibili, a volte passibili di modifiche attraverso il corso della vicenda. Un caso emblematico è quello del “negro matto africano”, vicino di cella e protagonista di fughe rocambolesche, che diventa “il negro matto africano convertitore” allorché la visione del suo corpo nudo riesce a produrre, in un gruppo di suore, una repentina conversione dal cattolicesimo ad un generico culto dionisiaco-orgiastico. È solo una delle figure che popolano la vita dell'ergastolano, evocate nel Discorso ora come interlocutori, ora come semplici protagonisti di aneddoti: dall'illustre Mazzini, alla figura del padre; per finire con il “secondino merda”, altrimenti detto “l'intoccabile – come quello dei Promessi Sposi”. Sarà quest'ultimo a suggerire al Ladro di mele, con la sua fredda rassegna di suicidi carcerari, di abbandonarsi alla “controvertigine”.
Cinico e svogliato è il “secondino merda” ad avere l'ultima parola, dando conferma di quel che il Ladro di mele ha sempre saputo, e cioè che se il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose, come diceva Wittgenstein; e se la galera è un fatto: allora il mondo è anche una galera. Si passa perciò “da una prigione ad un'altra prigione, e in mezzo non c'è libertà, soltanto ore d'aria”.

Laura Antonella Carli