rivista anarchica
anno 42 n. 374
ottobre 2012


società

ILVA, antimafia, Fornero, RAI...

di Antonio Cardella


Dovunque ci si rigiri, la situazione italiana è a dir poco preoccupante. E i bocconiani al governo, aldilà delle grandi dichiarazioni, in effetti...


Vi sono reazioni a caldo ad eventi imprevisti che illustrano più di qualunque analisi critica la natura profonda, direi, la vocazione naturale di chi quella reazione manifesta.
L'emergenza ILVA ha svelato la natura berlusconiana della compagine montiana: a botta calda e in coro i ministri se la sono presa con i giudici, che, a sentir loro, hanno espropriato l'esecutivo della potestà di decidere sulla politica industriale. Naturalmente, nessuna voce dell'opposizione, nessun organo di stampa e nessun giornalista illuminato si è peritato di chiedere a questo punto agli impettiti ministri bocconiani di quale politica industriale parlassero visto che in Italia di politica industriale non si ragiona più dagli anni Sessanta del secolo passato, anni in cui le coalizioni a guida democristiana decisero di smantellare l'apparato industriale che conta (la chimica, l'energia, la cantieristica,il tecnologico avanzato) e di offrirlo a prezzi stracciati ai privati. Il risultato è che il nostro Paese è oggi privo di un polmone produttivo che costituisca l'asse portante di ogni possibile modello di sviluppo. La stessa ILVA (ex Finsider) fu venduta ai Riva nel 1995 per 1700 miliardi di vecchie lire, con la clausola vincolante che 700 di quei miliardi fossero destinati alla bonifica dei componenti inquinanti della fabbrica. Non se ne fece niente o solo molto poco se si considera che un rapporto del Ministero dell'Ambiente di due anni dopo (1997) denunciava danni all'ambiente e alle persone della stessa entità di quelli denunciati dal rapporto del Ministero della Sanità nell'agosto di quest'anno: nella popolazione che gravita intorno alla fabbrica si registra il 30% di tumori alle vie respiratorie in eccesso rispetto alle medie nazionali e il 15% in più delle malattie oncologiche in generale. Senza considerare i danni all'ambiente, alcuni dei quali pressoché irreversibili o reversibili in centinaia di anni se si smettesse subito di inquinare.
In questo quadro desolante, in cui è palese l'inerzia dei governi – di tutti i governi che dal dopoguerra avrebbero dovuto decidere e sorvegliare – adesso i sepolcri imbiancati della nomenclatura bocconiana rivendicano la primogenitura ad intervenire. Ma se sono loro a decidere, poiché nessuna politica industriale può prescindere dal dettato costituzionale che tutela in prima istanza la salute dei cittadini, ci dicano come intendono procedere e con quali risorse a Taranto ma non solo, perché l'Italia è piena di territori devastati da impianti che inquinano impunemente. Penso alle raffinerie, che hanno desertificato migliaia di chilometri di costa e che continuano a minare la salute di intere popolazioni. Nella mia Sicilia, Gela nel nisseno, Priolo ed Agusta nel siracusano: chilometri e chilometri di costa ormai impraticabile, sottratta alla fruizione dei cittadini. Terreni ormai incoltivabili, allevamenti impossibili. Ci dicano, questi soloni del rigor mortis quali sono i loro piani industriali, a parte le rivendicazioni verbali e gli insulti a giudici che hanno applicato la legge.
Ma è inutile attendersi una risposta da un governo il cui ministro dello sviluppo si è portato a casa le carte che gli consentano, nella pausa agostana, di preparare un disegno di legge (speriamo non un decreto) che liberalizzi quei pochi paletti che la legge vigente pone alle perforazioni petrolifere. Ci sono già oltre 150 richieste in attesa di evasione e riguardano la costa calabro-lucana e su sino alla costa emiliano-romagnola, un mare – l'Adriatico – che è un bacino praticamente chiuso e che con estreme difficoltà può smaltire l'ulteriore inquinamento di altre piattaforme petrolifere, specie se, come vorrebbe il ministro, fosse abolito il divieto di perforare entro 5 miglia marine dalla costa.
È inutile girarci intorno. Questi tecnici dal volto arcigno e acrimonioso considerano l'Italia una loro colonia, da offrire a poco prezzo al profitto di pochi e alla speculazione che tutt'ora li foraggia. Basti ricordare che, in maggioranza, sono l'espressione di quel sistema bancario che è il responsabile diretto e impunito della crisi attuale. Delle popolazioni che sono in grande sofferenza non gliene importa proprio nulla. Anzi, provano insofferenza e un certo malcelato disprezzo per la plebe che, al contrario di loro, è costretta ad una vita di sacrifici. Diretti discendenti di quell'aristocrazia nera dei tempi del potere temporale del Papa-Re, si ritengono in possesso di una indiscutibile verità rivelata: sono insofferenti verso chiunque li contraddica e considerano i cittadini loro sudditi da guardare dall'alto dei loro manieri.
Ci viene ripetuta ad ogni occasione la favola che il loro avvento al governo della nazione ha ridato credibilità internazionale al Paese. La verità è che con il loro mandato si è ricostituita la famiglia dei grand commis europei, turbati dalla presenza, per circa diciassette anni, di un plebeo arricchito che, in maniera certo confusa, la pensava come loro, ma che, stilisticamente, era impresentabile, con le corna esposte nelle rituali foto di gruppo e con gli irripetibili apprezzamenti sulla Merkel, per citare solo due esempi.

Un cumulo di macerie

Adesso, ogni mattina, questi incartapecoriti esponenti clerico-moderati dell'alta burocrazia italiana si azzimano, baciano la prole che sin dalla culla ha l'avvenire assicurato, abbracciano il partner ove esistente e, con il decalogo del perfetto liberista sotto il braccio, si recano al lavoro. Sempre più spesso si fanno accompagnare all'aeroporto per raggiungere a Bruxelles, Parigi o Berlino i loro omologhi europei egualmente azzimati. Espletati i preliminari di rito, gli inchini, i baciamano, le riprese che li immortalano mentre, a passo deciso e su corsie rosse, oltrepassano la soglia di porte che prontamente si chiudono alle loro spalle, fatte tutte queste cose edificanti, si seggono attorno a enormi tavoli ovali per declinare le solite liturgie. L'austerità, gli ammonimenti agli stati non obbedienti, o non abbastanza obbedienti, la necessità di difendere l'euro da una crisi da loro stessi innescata. Tutto questo in un deficit di democrazia anche soltanto apparente, che lascia ai margini i così detti poteri elettivi: il Consiglio d'Europa e le Commissioni.
A decidere tutto, in regime di autoreferenzialità, sono la Merkel (anche se negli ultimi tempi ondivaga per opportunità o necessità) e il gruppo di Francoforte, costituito dai titolari della Banca Centrale e del Fondo Monetario Internazionale, dal leader dell'Eurogruppo J.Claude Junker e dai due presidenti dell'Ue, Barroso e van Rompuy. Questi personaggi privi di qualsiasi legittimità elettiva, rappresentanti di un variegato mondo di interessi privati, emettono editti, elaborano trattati come quello di Lisbona che, tra l'altro, obbliga i governi nazionali, presenti e futuri – a prescindere dal loro colore e vocazione – a rispettare i vincoli di bilancio che si pretende vengano inseriti nelle singole Costituzioni: uno schiaffo all'autonomia politico-normativa degli Stati membri, che l'Italia dell'asse Monti-Napolitano ha subito recepito.
È evidente che il fatto che l'eurozona sia ridotta a un cumulo di macerie (con una disoccupazione soprattutto giovanile drammatica e drammaticamente in crescita, con la produzione di ricchezza reale in calo o in stagnazione – in Italia il Pil è stimato in diminuzione del 2,2% – con la produzione di beni e servizi in grande sofferenza ed i consumi interni in caduta verticale) non scalfisce questi esponenti delle passioni politico-narcisistiche vissute nel chiuso dei loro ghetti, non turba questi pallidi epigoni di un continente in rapido declino, che vede aumentare in progressione geometrica i livelli di povertà anche di categorie sociali (il ceto medio) sino a qualche anno fa risparmiate.

Nessuno disturbi i conduttori

Certo Monti non ha la sfrontatezza di un Berlusconi, che, sino alla fine, ha negato la crisi (i ristoranti sono pieni – diceva – e gli aerei volano completi di viaggiatori), ma, nella sostanza, la differenza si ferma lì. Ancora alla fine di agosto, mentre tutti gli analisti e gli indicatori statistici, pubblici e privati, riportavano dati sconvolgenti sull'andamento dell'economia e sulle condizioni sociali del Paese, il duo Monti-Passera, dal pulpito a loro assai congeniale di Comunione e Liberazione, affermavano che intravedevano prossima l'uscita dal tunnel della crisi. Se gli accreditassimo la buonafede potrebbe trattarsi di un abbaglio, ma di buonafede in questo governo ce n'è davvero poca. Basti accennare alle cose che ha in programma di fare o di non fare. Ne citiamo solo alcune che sono in perfetta continuità con il governo precedente, di cui Monti stesso ha spesso rivendicato l'eredità.
La ministra Fornero, nel suo attacco puramente simbolico all'art.18, ha ripetutamente affermato che gli investitori italiani e stranieri sono scoraggiati nell'impegnare i loro capitali in Italia dall'alto costo del lavoro e dalla legislazione troppo restrittiva che ne protegge i diritti.
Questo approccio ideologico ai problemi della produzione e dell'occupazione nasconde il disegno di indicare un falso obiettivo che riesca a distrarre gli allocchi da una realtà alla quale, in armonia con il disegno berlusconiano, non vogliono mettere mano: ed è il controllo del territorio da parte della criminalità organizzata, con la complicità di ampi settori della politica e dei poteri pubblici. È evidente che con questa drammatica anomalia italiana la compagine governativa Napolitano-Monti-Passera intende convivere e prosperare. Non si spiegherebbe altrimenti come si possa abolire il reato di appoggio esterno all'organizzazione mafiosa; oppure intervenire pesantemente nel settore delle intercettazioni telefoniche e ambientali, che sono sempre state il cavallo di battaglia di Berlusconi, a tutela della sua impunità e dell'impunità dei suoi sodali collusi con la malavita. In questo senso è significativo l'affondo di Monti contro la procura di Palermo, mentre il tema del conflitto di attribuzione, sollevato da Napolitano, è all'attenzione della Corte Costituzionale. Se non fosse un nervo scoperto del sodalizio Monti-Berlusconi, il primo ministro avrebbe dovuto, per opportunità (e decenza), astenersi dall'intervenire sull'argomento.
E, a proposito della procura di Palermo, tranne una sola eccezione (Il Fatto quotidiano) è passato in un silenzio tombale lo smantellamento del pool investigativo antimafia dei carabinieri, in blocco destinato ad altri incarichi. Dubitiamo che questo avvicendamento assolutamente anomalo e senza precedenti, sia opera esclusiva dei vertici dell'Arma: è assai probabile, invece, che, su input governativo, si sia voluto smantellare il gruppo investigativo che faceva capo al sostituto procuratore Ingroia, destinato dall'ONU a combattere per un anno il cartello della droga in Guatemala. Come non immaginare la segreta speranza di tutto l'apparato di governo e del suo suggeritore Berlusconi, che quella criminalità riservi al giudice italiano la sorte che la mano mafiosa e i suoi occulti suggeritori riservarono al generale Dalla Chiesa a Palermo, nel 1982? In connessione diretta o indiretta con il settore sin qui accennato delle collusioni tra potere statale e malavita, si inscrivono la depenalizzazione del reato di concussione, per la parte che riguarda direttamente il Berlusconi del processo Ruby, il mancato ripristino del reato di falso in bilancio e il blocco della legge anticorruzione.
C'è poi la necessità che nessuno disturbi i conduttori e così ci sono in prospettiva l'approvazione di una legge-bavaglio sull'informazione, la riconsegna della Rai ad una governance di forte impronta berlusconiana e l'annunciata e mai attuata messa all'asta delle frequenze televisive, alla quale Berlusconi si oppone decisamente minacciando di togliere l'appoggio al governo.
E ancora: l'avversione di Berlusconi alla tassazione delle transazioni finanziarie e ad ogni forma di patrimoniale è ostentatamente patrimonio dell'attuale governo. Alla fine di agosto, il Grilli-parlante, titolare delle finanze, ha rassicurato gli italiani che non vi è all'orizzonte nessun progetto per la tassazione dei patrimoni: evidentemente la rassicurazione era per gli italiani ricchi e non per la stragrande maggioranza degli italiani che non hanno patrimoni da proteggere.
Resta la domanda che, purtroppo, non trova ancora risposta: come fa un intero popolo, in gran parte evoluto ed informato, ad accettare con rassegnazione questa melma istituzionale che minaccia di sommergerlo irreversibilmente?

Antonio Cardella