rivista anarchica
anno 42 n. 374
ottobre 2012


lettere


1 Maggio 2012/Una giornata importante per Torino

Quel giorno l'attenzione si è concentrata sulle contestazioni a Fassino e ai bonzi sindacali di turno o sugli scontri con la polizia davanti al comune. Merita ricordare anche P.zza San Carlo. Nel finale del corteo, quando lo spezzone del pd -reduce da una mattinata non proprio felice, il cui percorso può essere paragonato ad una via crucis come metafora del disastro di una sinistra che ha perso ogni riferimento storico-ideologico - non è stato fatto entrare in piazza. Le macerie dei terremoti possono rappresentare il presente di quest'area politica.
Abbiamo provato a ricordare quei momenti dove lo scontro non si è svolto con le forze del disordine ma con il partito dell'austerità, dei tagli responsabili, della coesione sociale, della legalità ideologica, della magistratura buona per montagne di arresti, delle coop rosse, delle guerre mascherate da missioni di pace e chi più ne ha ne metta.
Queste poche righe sono il racconto di due compagni trovatisi nel mezzo del cambiamento italiano.
Cercare strade per ritrovare la convinzione che questa società non è la migliore possibile. Grazie a tutte le persone presenti quella mattina.

Enzo e Sergio

È successo un giorno di maggio. Un giorno che ricorderò con un piacere misto alla rabbia che ha suscitato in me quell'onda di emozioni che ti prende alla gola fino alla voce trasformandola in urlo. “ANDATEVENE!!!” Le persone intorno a me sono sconosciute. Dove sono gli amici-che, i fratelli\sorelle i compagni\e? Vedo giovani insanguinati. Sento la mia bocca impastata di qualcosa che irrita. Non capisco cos'è. Lo capirò dopo. Non riesco a controllarmi. Troppo tempo che aspetto questo momento. Davanti a me uomini con pettorine con scritto qualcosa. Servizio d'ordine. Non li vogliamo far passare. Aderisco inconsciamente al mio desiderio di vedere la loro macchina da guerra incepparsi, girare a vuoto, balbettare confusa. Loro non capiscono. Un muro umano di un centinaio di persone ha deciso che loro non sono parte di noi. Anni di bombardamenti sui popoli rei di non stare agli ordini dell'occidente sono riscattati da un deciso “basta! andatevene con il vostro furgone funebre”. Ho paura per la mia sicurezza, se questi cani da guardia ricevono l'ordine di fare a botte finisce male per tutti. Non mi muovo. Un signore come me mi affronta armato di foulard e spilla di Emergency. La solita solfa che “non siamo democratici”. Non mi tengo gli dico che i furgoni non possono entrare in piazza! Vorrei dire ben di più.
La dialettica è scomparsa. La nostra arma segreta sono i i ragazzi pink. Con la musica hanno risposto agli spray al peperoncino con le rime gioiose hanno replicato agli spintoni. Grazie a loro abbiamo sentito il coraggio di serrare le fila. Abbiamo costruito quel muro che sostiene le nostre convinzioni. Sono giovani. Chissà chi sono, da dove vengono chi sono le loro famiglie. Il mio occhio vaga alla ricerca di facce amiche.
A parte Lorenzo vedo i soliti che aspettano di mettersi d'accordo per decidere dove andare a fare il pranzo del primo maggio. Sono contento che Lorenzo sia qui con me\noi. Se c'è lui vuol dire che è una cosa che va fatta, portata avanti. Non è un momento di puro delirio estremistico. Siamo la prova che è possibile fermarli. Fermarli con i nostri corpi. Ecco li abbiamo fermati. La loro arroganza è bloccata. I loro capi isterici. Ma chi sono i loro capi? Stanno festeggiando da altre parti. I fischi di un ora prima non li hanno infastiditi.
Convinti di continuare a governare all'infinito. Quali analisi fare? Non so, la felicità si mescola al dispiacere di essere incattiviti.
Oggi il partito dell'ordine non vince a Torino. piazza san Carlo è libera dalla polizia democratica.

Another brick in the wall?

Il conflitto, probabilmente, non è la mia cifra stilistica naturale, lo auspico, ma lo patisco. Se poi rifletto, in particolare, sulle azioni accese e violente di piazza, credo di non essere proprio mai riuscito a provare godimento o vanto. La vicinanza del nemico politico, con un progetto diverso dal mio, per lo più mi conduce a immaginare e pensare alle storie di uomini e donne altro da me. Debolezze occidentali?
Mi viene in mente, a questo proposito, un vecchio compagno anarchico che ebbi modo di conoscere molti anni fa e che, proprio in un Primo Maggio a cavallo fra gli anni '80 e '90, vidi discutere con un poliziotto in divisa nel tentativo di fargli cambiare lavoro. Lui - già ottuagenario, ma ancora determinato nelle sue convinzioni, di fronte a un ragazzone non ancora trentenne - che parlava del suo errore di gioventù: l'essere entrato in polizia. Immaginai lo spiazzamento dello sbirro di fronte ad una storia così insolita come quella di un uomo proletario-poliziotto che capisce di stare dalla parte sbagliata, arrivando a compiere una scelta concreta e radicale di militanza. (Mi chiedo che penserebbe il Pasolini di “Valle Giulia” di questa vicenda).
Oggi qui a Torino ci troviamo di fronte ad un servizio d'ordine di un partito che sostiene il governo Monti; un servizio d'ordine pagato, perché, parafrasando Gaber, il partito si rinnova... per evidente indebolimento, e assume con “contratti a chiamata” per mezzo di finanziamenti pubblici.
Facce spaurite, fra molti di essi, anche loro dalla parte sbagliata, giovani con pettorina neanche troppo corpulenti, grida, insulti, ordini dalle retrovie che comandano la resistenza contro i “nemici della democrazia”. Partono spinte, schiaffi, pugni, poi sangue. Una signora anziana viene portata via travolta dalla mischia. Dopo un po' ci si ferma, ma il “muro contro muro” prosegue con sguardi e parole.
Vedo una bandiera rossonera per terra che mi appresto a recuperare. Schierato dalla parte di muro giusta, la tengo stretta in mano, quando vedo un dipendente precario, in pettorina, del PD con un labbro che sanguina e che si fa beffe di noi, mostrando un'altra bandiera uguale a quella appena raccolta da me. Urlo che la pretendo indietro, ma non sta guardando me e non mi sente. Grido più forte lo stesso concetto, mi sente e risponde facendomi capire che non ne vuole sapere. Smetto di essere muro e vado a prenderla: ora sono un mattone che cammina.
Qualcuno non mi vuole far passare: spingo e lo mando a stendere. Circumnavigo l'“Enemy block”, ma nell'avvicinarmi fanno cerchio intorno al ladruncolo. Non ho paura, mi sorregge la forza della ragione e la consapevolezza che il Partito Democratico rimarrà fedele ai propri principi di facciata, senza rischiare un ulteriore sputtanamento pubblico.
Riproponendomi come sempre di non iniziare per primo, si trovano disorientati, perché si aspettano che reagisca violentemente alle loro provocazioni verbali. Il precario si distrae per un momento, allora provo a strappargliela, ma altri lo aiutano. Dirigenti più corpulenti si fanno avanti: ribadisco il motivo della mia presenza. Uso, inoltre, le loro stesse armi e chiedo loro se vogliono picchiarmi (s'intimidiscono solo per la presenza di una discreta platea). “Ti sei spinto troppo oltre”, mi spiega uno, facendo sfoggio di cultura zoologica. Curioso ma, io per loro, divento ora quello che, rivolendo la bandiera sottratta, sta invadendo il loro territorio.

Me ne torno a fare muro”

“Bandiera”- urlo ancora. La risolvono a modo loro, confabulando e decidendo di nasconderla, ma me ne accorgo. A quel punto devono portarla via e, con un colpo di genio vigliacco, il dipendente precario PD la dà ad una ragazza, dicendomi che mi spaccherà la faccia se proverò a toccare la sua fidanzata. Arriva pure uno da fuori che parteggia per loro, dicendo che siamo noi i provocatori e che ha tutta l'intenzione di pestarmi. Ci insultiamo un po', quindi dice che mi aspetterà dopo senza indicare le categorie fondamentali di luogo e tempo (mai minaccia fu meno convincente). Gli dico, stando al gioco, che va bene.
Me ne torno a fare muro, mentre nel frattempo la celere, prima impegnata a caricare davanti al Comune, arriva a fare da intercapedine di parte per evitare infiltrazioni fra i mattoni degli schieramenti. Il partito si defila di lato e tutto termina con un applauso liberatorio.
Incontro l'amico di sempre che mi racconta di lui, mentre io di me. Prima di ricomporci, cercando di fare ordine con i nostri pensieri, abbozzo un sorriso pensando al precario, stasera a casa, con la sua ragazza e la bandiera anarchica rubata.

Enzo Gregori e Sergio Gambino
Torino



A proposito delle librerie Feltrinelli/amareggiato e infastidito

Gentile Paolo,
(...) volevo sottolinearti una mia amarezza. Un'amarezza che riguarda il fatto che i circuiti librari della Feltrinelli non saranno più disponibili ad esser punto vendita di “A”.
La cosa non solo mi ha amareggiato ma mi ha profondamente infastidito. Io da abbonato sostenitore continuerò a diffondere la rivista (e qualche volta a chieder ospitalità per qualche mio piccolo scritto sulle avanguardie giovanili) e soprattutto continuerò ad invitare i miei amici, colleghi universitari, studenti e chiunque mi capiti “a tiro” (soprattutto ai credenti di una sinistra sempre più addomesticata e massacrata dalla storia) di leggere la rivista e di entrare nel vivo di un pensiero e di un agire (quello Anarchico) che oggi più che mai è un respiro di vita.
A presto.

Alfonso Amendola
Salerno



A.A.A. Estrema destra cerca idoli

Ieri fascisti, oggi fascisti del terzo millennio, cosa è cambiano durante tutti questi anni? L'estetica è la stessa, la retorica anche, i simboli e gli slogan urlati durante i loro raduni hanno tutti i sapori nostalgici del ventennio ma, i loro idoli oggi sono diversi.
In questi ultimi anni, in Italia, abbiamo assistito alla nascita di nuove organizzazioni neofasciste, fra le più note alla cronaca ricordiamo CasaPound, alla quale era iscritto Gianluca Casseri lo squilibrato che a Firenze il 13 Dicembre dello scorso anno uccise 2 senegalesi e ne ferì gravemente 3; gli atti di violenza sono un abitudine alla quale non riescono proprio a sottrarsi i camerati del terzo millennio, come il revisionismo storico che adottano per modificare a proprio piacimento la vita di personaggi illustri, per poterli infine usare nelle loro campagne propagandistiche.
Quando ha inizio questo “taglia e cuci” di notizie senza alcun fondamento storico l'impossibile diviene realtà, così una persona dapprima contestata dall' estrema destra, come Ernesto “Che” Guevara è sempre stata, vive inconsapevolmente un'altra vita e diviene così “l'altro Che” custode dei valori di una destra in calo di notorietà, la stessa triste sorte è toccata a Rino Gaetano, utilizzato come volto per numerosi manifesti affissi da estremisti di destra forse ignari delle simpatie esplicite che nutriva il giovane cantante e menefreghisti delle denuncie inviate dalla famiglia del cantautore. La falsificazione è così esplicita che lascia increduli e sbigottiti, come l'uso improprio di una frase tratta da “la locomotiva” celebre canzone del cantautore Francesco Guccini, frase che è stata dedicata, dai camerati, ai soldati di Salò e provocatoriamente riportata su numerosi manifesti in giro per le città durante il 25 Aprile, giorno nel quale cade la ricorrenza della liberazione italiana dal nazifascismo, inutile dire che Guccini, il cantautore divenuto famoso negli anni delle lotte studentesche antifasciste, ha preso prontamente le distanze da questa provocazione e condannandola ha ribadito le sua appartenenza antifascista per la quale non ha mai nutrito alcun dubbio. Altre simpatie unilaterali furono rivolte al protagonista del fumetto “Corto Maltese” disegnato da Hugo Pratt, uomo dall'animo libertario e dalle forti simpatie per le lotte studentesche antifasciste negli anni 70, anche in questo caso l'idea del “pirata camerata” non è andata giù ai suoi collaboratori Vianello e Fuga e alla figlia del disegnatore Silvia Pratt.
Il revisionismo tocca in tutti, da Peppino Impastato a Bobby Sands, perfino Mary de Rachewilt figlia di Ezra Pound, uomo dal quale prende nome l'associazione CasaPound, li ha denunciati per l'uso improprio del nome del padre, ma nulla scoraggia i camerati che per protesta decisero di cambiare per 24 ore il nome della loro associazione da CasaPound a CasaBene in ricordo dell'artista Carmelo Bene, ma la scelta risultò poco furba perché sia la figlia Salomè che la vedova Raffaella Baracchi denunceranno l'associazione per l'inopportuna idea.
Cosa hanno trovato in Carmelo Bene di fascista, forse il rifiuto per lo Stato, per la famiglia e per la religione? Questo non ci è dato sapere, ma qualcosa invece è più che chiara, l'estrema destra soffre la carenza di “eroi” e personaggi da idolatrare e questa “goliardia” opportunistica con la quale giustificano ogni loro provocazione è la constatazione che dietro ogni slogan frase fatta dell'estrema destra si nasconde una abissale mancanza di cultura.

Giuseppe Di Giulio
Potenza



Botta.../Ma Brassens non era «reazionario e moralista»

Spett. A,
non sono una abbonata alla vostra rivista ma la conosco, la apprezzo e la compro occasionalmente.
Ho apprezzato il dossier su Georges Brassens (“A” 371, maggio 2012), non voglio fare le pulci ad alcune imprecisioni non determinanti. Quello che mi ha lasciata veramente perplessa è il contributo di Alessio Lega, un autore che stimo. Cose come Brassens «reazionario e moralista» nella canzone Le mouton de Panurge? C'è qualcosa di moralistico nel dire che l'amore si può fare per amore, per soldi o per piacere, come pare e piace, come la canzone (e non solo questa, anche altre) racconta? Brassens non è forse il cantore della libertà? C'è forse qualche forma di libertà di pensiero nel seguire la moda senza nemmeno provare un piacere qualsiasi nel farlo? Nessuna delle strofe di Brassens va isolata dalle altre, Lega dovrebbe ben saperlo! Anche l'ultima strofa è l'ironia al massimo grado: la ragazza si innamorerà quando tornerà di moda il romanticismo. Una canzone può piacere oppure no, ci mancherebbe, ma va comunque letta con onestà.
Ancora più grave, il falso riporto di Les deux oncles. Non «le idee fanno tre giretti, tre piccoli morti e poi se ne vanno», ma è «è folle morire per delle idee che fanno tre giretti, tre piccoli morti e poi se ne vanno», mi sembra che la differenza non sia da poco. I morti in guerra, si parla di quella del '40, non sono morti per l'idea della libertà, come si racconta, ma per le idee insensate, balorde di Adolf Hitler. È forse rimasto qualcosa di quelle idee, oltre ai morti e all'eredità lasciata ai naziskin, ancora più stupidi e pericolosi del loro maestro?
Quanto a Mourir pour des idées, De André ci teneva tanto ai garrotati spagnoli che non ha pensato a scrivere una canzone sua sponte. Detto questo, la rima con falce si fa solo con alce (escluso a priori), calce o salce, variante di salice. Da qui, la scelta di una rima mancata falce/pace. Volendo, poteva trasformare la falce in una ranza, ottenendo qualcosa come: «La morte non ha bisogno che le si tenga la ranza, / basta intorno ai patiboli far la danza». Rima comunque imperfetta, una delle z è dura e l'altra dolce.

Daniela Vighesso
Agrate Conturbia (No)

Georges Brassens


...e risposta/Brassens qualche caduta di stile, secondo me, ce l'ha

Cara Daniela,
mi perdonerai ma, nel risponderti più che volentieri, mi prendo la libertà di darti del tu.
Premetto che Brassens è uno dei dei miei più irrinunciabili punti di riferimento, proprio e soprattutto perché la sua opera porosa e aperta ben tollera la discussione, l'analisi acuta. Malissimo invece quell'opera si dispone ai “guardiani del tempio”, soprattutto se autonominatisi. Brassens, fra le molte cose che è, è anche un grande provocatore, e il non lasciarci a-criticamente a bocca aperta, ma disporci al contempo all'ammirazione come al dissenso, è di certo uno dei suoi scopi.
Brassens è un “moralista”, temperato dal fatto di non voler imporre la sua morale ad alcuno. D'altronde anch'io sarei fiero di esser considerato tale.
Nello specifico mi pare che quando canta un inno alla fedeltà di coppia in un capolavoro assoluto quale “Saturne” o nella bellissima “La princesse et le croque-notes”, sia del tutto condivisibile proprio perché è lui stesso coi suoi sentimenti al centro della questione. “Le mouton de Panurge” invece, nella quale bistratta la riappropriazione del corpo femminile attraverso l'uso strumentale del sesso, continua a parermi una canzone bacchettona. Terribilmente ben scritta e raffinata, ma bacchettona nella sostanza. Ribadisco che la sua tirata a favore delle “veneri della vecchia scuola” e il suo evidente disprezzo per quelle della “nuova” - che fanno l'amore solo perché è di moda farlo - è un atteggiamento da vecchio signore, che rimpiange i “sani” bordelli di una volta, quando le puttane erano delle professioniste di buon cuore. È un topos brassensiano ripreso in un altro bozzetto a mio avviso piuttosto mediocre: “Concurrence Déloyale”. Queste canzoni sono delle piccole cadute di stile del “vecchio leone”, che nulla tolgono alla sua immensa vena, alla sua poesia fresca e minuziosa, al suo rigore impareggiabile. A te poi queste canzoni potranno anche piacere e ci potrai leggere tutto il contrario di quello che ci leggo io (la grande poesia è sempre suscettibile di punti di vista alternativi), ma è nel tacciare di disonestà la mia lettura critica che fai un grande dispetto, non tanto a me, quanto al menestrello libertario del quale ti ergi ad avvocato d'ufficio.
Stendiamo pure un velo sull'altra canzone di Brassens che citi “Les deux oncles”, forse la sua più ambigua, dove si arriva a mettere a paragone non i morti sui due fronti del 1940, bensì quelli del '43/'45, ovvero a dire che paiono indifferentemente biasimabili i collaborazionisti e i resistenti (“De vos épurations, vos collaborations/Vos abominations et vos désolations”). Io penso ancor oggi, che quando mi si propone di mettere sullo stesso piano i “ragazzi di Salò” e “la meglio gioventù” resistente, faccio le barricate e mi stringo grato alla memoria partigiana.
Temo di non aver per nulla capito i tuoi rilievi in merito a “Morire per delle idee”. Lì, senza entrare nel merito né della canzone di Brassens (precedente al garrotaggio di Puig Antich) né della traduzione deandreiana, mi limitavo a proporre quell'ipotesi intrigante, che ci racconta solo come ogni traduzione sia un lavoro creativo, a volte più creativo della critica propriamente detta.
Ti saluto e spero di aver confutato le tue posizioni senza minare la stima che professi per me all'inizio della tua lettera.

Alessio Lega



Ma io sono andato a vedere il film di Giordana

A differenza di Carlo Oliva (Ma io il film di Giordana non lo andrò a vedere,“A“ 372, giugno 2012), le cui bellissime parole condivido dalla prima all'ultima, io il film di Giordana l'ho visto. Perché mi hanno invitato all'anteprima. E' stata la prima volta della mia lunga vita, non mi era mai capitato, il mondo cinematografico mi è estraneo (anche se, negli anni '70, avevamo parlato a lungo, io e altri avvocati, con Giuliano Montaldo che voleva fare un film su Valpreda e Pinelli) e ne sono meravigliato ancora adesso. Devo essere nella mailing list di qualcuno che c'entra col film.
O forse, ho pensato, a qualcuno è venuto in mente quel Comitato di Difesa e di Lotta contro la Repressione che il gruppo di giovani avvocati di cui facevo parte (e che non era il “Soccorso Rosso” con cui talvolta viene confuso, altra parrocchia) aveva costituito per far fronte in modo organizzato alle continue richieste di intervento di ragazzi (“compagni”, si diceva allora), delle loro famiglie, o di organizzazioni politiche (in particolare il Movimento Studentesco, ma non solo) fermati, arrestati, processati a séguito di manifestazioni di piazza che, all'epoca, erano all'ordine del giorno: persone per lo più sconosciute che sapevano di poter chiamare gli avvocati del Comitato, e avrebbero avuto assistenza, assolutamente gratuita.
Io allora ero radicale, da quando avevo 16 anni, e ho continuato a esserlo, con variazioni di intensità, anche quando seguivo il Movimento studentesco di Mario Capanna o quando frequentavo gli anarchici (che avevo conosciuto alle marce antimilitariste Milano-Vicenza organizzate dal Partito Radicale a metà degli anni '60) o i situazionisti e altri ancora. L'idea del Comitato mi era venuta da lì, al Partito, ne avevo parlato con amici di diverse estrazioni, e il Comitato era nato.
Nel film, naturalmente, di questo Comitato non si parla, eppure ha avuto un ruolo molto importante su piazza Fontana, nell'aprire gli occhi di chi non voleva chiuderli: emettavamo comunicati su comunicati ed eravamo un punto di riferimento anche per i giornalisti più attenti.
Tra marce antimilitariste, Comitato di Difesa e di Lotta e conoscenze personali, ero venuto in contatto con Pino Pinelli che mi aveva chiesto di assistere Paolo Braschi per le bombe del 25 aprile alla Fiera e alla stazione centrale di Milano: innocente accusato insieme ad altri cinque anarchici in quel terribile 1969, ragazzo mite e un po' spaesato, che sono andato a trovare a S. Vittore proprio la mattina del 13 dicembre: “e adesso cosa ci succederà?” era stata la sua domanda (la sua recente, tragica scomparsa mi ha molto colpito: non l'avevo più rivisto da allora, anche lui avrebbe avuto molto da raccontare).
E al Comitato si era rivolto anche Pietro Valpreda: aveva un'imputazione per stampa clandestina e offesa al Pontefice, ed era stato convocato dal Giudice Istruttore di Milano al quale avrebbe dovuto presentarsi il 12 dicembre. Valpreda non aveva capito il perché della convocazione, pensava alle offese al Pontefice, ma in realtà doveva solo essere sentito come testimone nel processo per le bombe del 25 aprile; senonché, a causa della febbre e di uno stato di salute assolutamente non consono a una deposizione davanti a un magistrato, il mio collega di studio Luigi Mariani (che aveva assunto la difesa di Pietro per l'imputazione di stampa clandestina e di offese al Pontefice), constatate di persona le sue precarie condizioni (era venuto, febbricitante, nel nostro studio la mattina del 12 dicembre per essere accompagnato in Tribunale), gli aveva spostato l'udienza prima al 13 e poi al 15 dicembre, lunedì, d'accordo con la cancelleria del Giudice. E' per questo che Valpreda era a Milano il 12, ed è uscendo dall'ufficio del Giudice il 15 che è stato prelevato da due figuri in grigio che senza spiegazioni lo hanno trascinato via (racconto della nonna Olimpia, che l'ha accompagnato prima in studio da noi e poi al Palazzo di Giustizia).
Di tutto questo, che è un passaggio fondamentale nella storia di Pietro Valpreda [non si dimentichi: portato dal Tribunale in Questura, poi a Roma in auto, poi in carcere e sottoposto al famoso riconoscimento da parte di Rolandi (anch'egli portato da Milano a Roma) tra quattro azzimati poliziotti in giacca e cravatta (la fotografia del “confronto all'americana” è un piccolo capolavoro), lui che veniva da una brutta influenza e da uno sballottamento del genere, senza riposo, senza cambi d'abito, senza essersi potuto lavare] e delle manipolazioni sulla strage di piazza Fontana [la magistratura di Milano, “inaffidabile” perché garantista, scavalcata e spogliata di un processo che era suo a favore di quella romana che poi, riconosciuta la propria incompetenza, nel 1972 restituirà il processo a Milano, che lo perderà nuovamente grazie al Prefetto di Milano e alla Corte di Cassazione che, per “legittima suspicione”, lo sposterà a Catanzaro: anche la città di Milano era “inaffidabile”. Kafka non avrebbe saputo inventare di meglio] nel film c'è poco più di una battuta, fatta dire da Valpreda a una delle “spie” del Circolo XXII marzo mentre sale in macchina per partire verso Milano.
Non faccio il critico cinematografico, ma quando si sceglie di far impersonare da attori “somiglianti” ai protagonisti una sceneggiatura che si vuole “somigliante” alla verità, si avrebbe il dovere di rispettarla, la verità, e non di farne l'ennesima versione superficiale (e di superficialità, nel film, ce n'è davvero tanta, forse troppa, a cominciare dalla bibliografia).
Con questo non mi riferisco alla seconda parte del film, pura fantasia, forse “sogno” del commissario Calabresi se non ho interpretato male un passaggio: ma come si fa, mi chiedo, a costruire un film che vuole essere “verosimile” e poi ad appiccicarci una parte senza riscontri, che a me è parsa di puro comodo per rendere credibile il salvataggio della figura del commissario, che nel 2012 non ne aveva neppure bisogno, e che ad ogni modo, come scrive Carlo Oliva, “nessuno mi farà mai cambiare idea sulle responsabilità e le colpe di quel personaggio”.
Non è soltanto questo (e sarebbe abbastanza), ma anche la ricostruzione del processo al commissario Calabresi, anzi, scusate, al direttore responsabile di Lotta Continua Pio Baldelli è molto, molto lontana dalla realtà. L'aula del Tribunale era gonfia di pubblico, di avvocati, di giornalisti, l'emozione era tangibile, in certe udienze si faceva fatica a muoversi, ci sono stati interventi della polizia per sgomberare la folla che si accalcava alle porte dell'aula già stracolma (nel film c'è solo un applausino del pubblico, subito represso dal Presidente Biotti). Bastava dare una scorsa ai giornali dell'epoca, ottobre/novembre 1970: le fotografie parlano da sole, il film no.
Ancora, le piantine dei locali della Questura fornite ai giudici erano fuori scala, per cui l'ufficio dell'interrogatorio di Pinelli sembrava una stanza grande (come è poi rappresentata nel film), la scrivania aveva le dimensioni di un tavolino e le sedie bastavano a stento per un gatto. Durante il sopralluogo in Questura la realtà venne a galla: sei persone o quante erano la riempivano tutta, seduti o in piedi e con dei mobili di dimensioni normali [prendo il più “di destra” dei giornali dell'epoca: La Notte, 6 novembre 1970, la cui cronaca apre così: “La stanza è piccola, ci si muove a fatica. Una scrivania al centro, un paio di scaffali per i fascicoli, le scartoffie, qualche sedia e una poltroncina. E' la stanzetta del quarto piano...dalla finestra della quale la notte tra il 15 e il 16 dicembre dello scorso anno si buttò il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli”].
Anche di questo nel film non c'è traccia, eppure è stato uno dei momenti davvero significativi di quell'allucinante processo, ed è anche lì, oltre che nelle clamorose contraddizioni dei testimoni-poliziotti presenti al fatto, che a una persona normale non potevano non sorgere dei dubbi che, sempre per cercare di essere non faziosi, posso riassumere così: “ma che cosa si vuole nascondere?”.
Senza contare tutto il resto, a partire dal fermo illegale di Pinelli, non comunicato alla Procura della Repubblica nella data in cui era avvenuto, ma solo il 15 dicembre con la falsa indicazione che era stato fermato il 14 dicembre: e nessun fermo era stato convalidato dalla Procura di Milano.
Si, nel film tutto questo non c'è, come non c'è molto altro. Non c'è il “clima”, non c'è l'emozione, non c'è il pathos di una vicenda che ha segnato e stravolto storie individuali e la storia del paese.

Milano, 16 giugno 1980. L'avv. Luca Boneschi
(foto Giovanna Borgese)

E adesso mi arrogo il diritto di fare un po' il critico cinematografico: non è un bel film, anche se è stato premiato dal successo di critica e, immagino, di pubblico così come non è un bel libro quello cui il film si ispira (anche se, e questo è uno dei misteri del giornalismo italiano, di tanti bei libri su piazza Fontana è il solo, che io ricordi, a essere stato presentato e recensito in pompa magna dal Corriere della Sera e da un suo notissimo editorialista: forse perché semina il dubbio? è questa la chiave del successo? forse perché raddoppia i personaggi, non rispetta fatti veri e tende a dire che tutto è possibile? o che la verità non esiste?): andarlo a vedere o meno è, come scrive Carlo Oliva, una scelta personale, per noi che quella storia abbiamo vissuto. Forse se non mi avessero invitato non l'avrei visto neanch'io, come non ho mai letto il libro del figlio di Calabresi.
Ma il vederlo mi ha scosso: non mi ha emozionato, per nulla; non mi ha commosso (l'ho già detto, è senza pathos), ma mi ha fatto tornare la voglia di parlare di quei fatti che spesso rimuovo perché troppo lontani e perché me li porto dietro da troppo tempo, di rimettere in discussione figure ormai intoccabili, di ricordare i particolari, di raccontare a chi non le sa le vicende di una storia che, a ricordarla, è ancora oggi sconvolgente. Ecco, il punto è questo: l'unica cosa da non fare, di fronte a quelle che si ritengono manipolazioni della storia, è tacere.

Luca Boneschi
Milano



Ergastolo ostativo/Un libro per una battaglia di civiltà

Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e finepenamai, edito da Stampalternativa, e curato da Francesca de Carolis, con prefazione di Don Luigi Ciotti, è un libro importante e necessario. “Ci costringe ad aprire gli occhi di fronte a una realtà che non ci piace. Ci obbliga a conoscere ciò che non vorremmo sapere, realtà che vorremmo tenere distanti dalla nostra vita e che - di fatto - ci riguardano” così Don Luigi Ciotti nella prefazione al libro. Si tratta di una raccolta di interventi di 36 ergastolani ostativi, quasi tutti passati per il 41 bis, sparsi un po' in tutte le carceri italiane, nei circuiti AS1. Per loro, dopo le leggi emergenziali in vigore a partire dagli anni '90, e per via del meccanismo che ne deriva, scatta quello che viene chiamato “ergastolo ostativo”, perché non sono collaboratori di giustizia: la loro situazione, insomma “osta” a che, anche dopo lunghi anni di carcere (e c'è chi ne ha trascorsi in carcere trenta), possano ottenere benefici normalmente previsti dalla legge. In pratica dal carcere non escono né usciranno mai.
In questo libro parlano della loro condizione, di quello che pensano, di quello che chiedono. Parole che aprono uno squarcio su un mondo complesso e contraddittorio e pongono un interrogativo: è giusto, qualsiasi cosa sia stata commessa (e qualcuno comunque qui si dichiara innocente) essere “condannati” per sempre? Perché, almeno in teoria, per chiunque è ammessa “la redenzione” e per loro no? E non è questo in contrasto evidente con il principio, contenuto nella nostra Costituzione, del fine rieducativo della pena? Si tratta delle stesse persone che hanno provocatoriamente chiesto a Napolitano di tramutare la loro condanna in pena di morte perché, dicono, “di morte viva si tratta”.

Il libro, a distanza di vent'anni dall'inasprimento delle leggi introdotte per combattere la criminalità organizzata, pone una questione di diritto e di diritti, e apre a molti interrogativi sul senso della pena. Una questione forse da non accantonare, pur in un momento di tante polemiche a proposito di 41 bis e dintorni, o forse proprio per questo. È un tema di cui si parla grazie ad organizzazioni che si occupano di diritti umani, della condizione dei carcerati, all'interno del mondo carcerario, ma che trova una grande chiusura nella società.

Don Luigi Ciotti è firmatario dell'appello contro l'ergastolo, iniziativa di Carmelo Musumeci, che dal carcere di Spoleto, due anni fa, aveva lanciato l'idea da cui è poi nato “Urla a bassa voce”. Fra gli aderenti alla campagna contro l'ergastolo, anche Umberto Veronesi che, sostenitore dell'origine ambientale del male, afferma che “l'ergastolo equivale alla morte cerebrale”, mentre oggi sappiamo che il nostro cervello può rinnovarsi, premessa che può avere forti implicazioni sul piano della giustizia.

Per info: francesca.deca@virgilio.it; ufficiostampa@stampalternativa.it.





I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Katia Attiani (Roma) 6,00; Piero Torelli (Sermoneta – Lt) 20,00; Angelo Roveda (Milano) 5,00; Frigerio-Gilio (Lecco) 20,00; Alessandro Fico (Godega di Sant'Urbano – Tv) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Roberto Ceruti (Albisola Marina – Sv) 20,00; Gaetano Ricciardo (Vigevano – Pv) 40,00; Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) 20,00; a/m G.B. Albani, Spazio “Sole e Baleno“ (Cesena) 30,00; Antonella Trinci (Montecatini Terme – Pt) 10,00; Mario Carleschi (Calcinato – Bs) 20,00; Egidio Colombo (Quartu Sant'Elena – Ca) 20,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri Ponente) 22,50; Andrea Babini (Forlì) 30,00; Marco Sommariva (Genova) 30,00; Raimondo Aleddu Salaris (San Vero Milis – Or) 20,00; Andrea Cassol (Cesio Maggiore – Bl) 30,00; Rosanna Poi (Milano) 5,00; Remo Ritucci (San Giovanni in Persiceto – Bo) 20,00; Gianandrea Ferrari (Reggio Emilia) 70,00; ricavato dalla cena di sottoscrizione per “A“ tenutasi il 13 luglio presso l'Archivio-Biblioteca della Federazione Anarchica (FAI) di Reggio Emilia, 300,00; Andrea Cardin (Mira – Ve) 20,00; Claudio Venza (Muggia – Ts) saluti fraterni a Paolo, Aurora, Alba, 200,00; Ivano (Milano) 30,00; Firmino Ermanno Gaiardelli (Novara) 27,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 20,00; Enrico Moroni (Settimo Milanese – Mi) 10,00; Settimio Pretelli (Rimini) 20,00; Valentino Giorgio Vettore (Monselice – Pd) 10,00; Massimiliano Leombruni (Faloppio – Co) 5,00; Giorgio Pittaluga (Recco – Ge) 10,00; Patrizia Di Nasi (Caposele – Av) 5,00; Davide Andrusiani (Castelverde – Cr) 20,00; Alessandro Spinazzi (Marghera – Ve) 50,00; Enzo Francia (Imola – Bo) 10,00; Ugo Fortunu (Signa – Fi) ricordando Milena e Gasperina, 30,00; Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) 50,00. Totale € 1.765,50.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Claudia Pinelli (Milano); Francesco Alfano (Milano): Renato Girometta (Vicobarone – Pc); Rodolfo Altobelli (Canale Monterano – Rm); Attilio A. Aleotti (Pavullo nel Frignano – Mo); Giulio Abram (Trento); Alfonso Amendola (Salerno); Marcella Caravaglios (Messina); Luigi Balsamini (Urbino); Andrea Della Bosca (Morbegno); Patrizio Quadernucci (Bobbio – Pc).; Marco Buraschi (Roma); Fabrizia Golinelli (Carpi – Re); Giulio Zen (Gualdo Tadino) 250,00. Totale € 1.550,00