rivista anarchica
anno 42 n. 374
ottobre 2012


storia
Gli anarchici in età giolittiana
di Giampietro Nico Berti


Con questo titolo è uscito l'ultimo volume di Fabrizio Giulietti (ed. Franco Angeli, Milano 2012, pagg. 360, e 44,00).
Ne pubblichiamo la prefazione di un nostro collaboratore.



Con questo lavoro di Fabrizio Giulietti la storiografia sull'anarchismo italiano registra un punto molto positivo e importante. Viene colmato un vuoto rilevante relativo al primo quindicennio del Novecento perché l'autore ci offre la prima monografia completa attinente al movimento anarchico nell'età giolittiana. Non che mancassero, ovviamente, specifiche incursioni sul tema, ma esse concernevano singole e settoriali questioni quali il sindacalismo, l'educazionismo, l'antimilitarismo, l'individualismo, la settimana rossa; difettava, invece, una sintesi d'insieme capace di comprendere, con uno sguardo generale, tutta la complessità storica emersa dopo il regicidio da parte di Gaetano Bresci – Monza, 29 luglio 1900 – e il successivo indirizzo liberale impresso alla politica italiana da Giolitti. Va precisato, tuttavia, che questo lavoro di Giulietti è molto di più di una sintesi. Siamo in presenza, infatti, di un notevole scavo archivistico e bibliografico del tutto nuovo, che porta alla luce pezzi importanti non solo del movimento anarchico ma anche dei conflitti sociali e politici che hanno caratterizzato la storia italiana dalla svolta di fine secolo alla Grande Guerra.
Nell'età giolittiana l'anarchismo italiano presenta un'accentuata proliferazione di tendenze delineanti un vero e proprio arcipelago politico-ideologico, identificabile persino nelle diverse aree geografiche del Paese. Sono orientamenti eterogenei che richiedono di essere analizzati volta per volta, se si vuole dar conto della loro specificità e del loro rapporto con il tutto. Possiamo delineare questo insieme richiamando qui, in modo molto generale, i principali esponenti di questi vari indirizzi di pensiero e di azione.

Comportamenti militanti

Pietro Gori risente in modo determinante dell'influenza positivistica perché egli assegna alla scienza il conseguimento della verità, sia essa sociale, politica, economica o filosofica. Luigi Fabbri rappresenta a pieno titolo l'apertura dell'ideologia anarchica primo-novecentesca verso una sua traduzione libertaria, manifestatasi soprattutto come tentativo di agganciare e valorizzare tutte le possibili valenze ad essa simpatetiche, presenti nella cultura contemporanea e in alcuni atteggiamenti pratici del mondo progressista. Luigi Molinari, principale esponente dell'educazionismo anarchico, raffigura il tentativo maggiore avviato dall'anarchismo italiano di propagandare i propri ideali attraverso la diffusione dell'istruzione popolare.
Una realtà anarchica schiettamente operaia e popolare è invece rappresentata dall'attività propagandistica e organizzativa di Pasquale Binazzi, Carlotta Zelmira Peroni e del gruppo dei militanti raccolti attorno a “Il Libertario”. Giovanni Gavilli esprime uno degli aspetti più caratteristici dell'individualismo anarchico italiano, che scaturisce quale reazione di rigetto alla possibile deriva “riformista” e “legalitaria” della tendenza organizzatrice e socialista. Un altro momento emblematico è costituito da Ettore Molinari e Nella Giacomelli, i maggiori promotori e sostenitori de “Il Grido della Folla” e de “La Protesta Umana”, il cui carattere estremista e violento si dimostra insofferente all'apriorismo dottrinale e perciò sensibile al richiamo della lotta condotta in prima persona contro le istituzioni vigenti. Infine vi è lo stirnerismo dottrinario dei fratelli Ludovico e Attilio Corbella, Oberdan Gigli e altri; il ribellismo estetizzante ed “esistenzialista” di Leda Rafanelli e Giuseppe Monanni; il neopaganesimo di Libero Tancredi, alias Massimo Rocca, e dei suoi seguaci. Complessivamente questo stirnerismo-individualismo attinge a molteplici fonti e soggiace a numerose suggestioni culturali, comuni anche ad altre tendenze ideologiche coeve; una miscela di vitalismo, irrazionalismo, nichilismo, futurismo, violentismo.
La traduzione pratica di tutti questi orientamenti si può schematizzare nei seguenti comportamenti militanti. Il primo rinvia alla linea di Errico Malatesta, essendo ampiamente favorevole all'unificazione organizzativa delle forze sulla base di un programma comune. Il secondo è avverso al principio organizzativo perché considerato un mezzo subdolo di corruzione della spontaneità ribellistica delle masse e degli individui. Il terzo è dato dal sorgere di un enfatico individualismo, per molti versi del tutto inedito rispetto ai decenni precedenti. In generale, la corrente organizzativa e quella anti-organizzativa sono accomunate dalla medesima visione economica della società, riassumibile nella concezione socialista o comunista. La corrente individualista, al contrario, è molto meno propensa ad accettare tale solidarismo e perciò mantiene un atteggiamento più “duttile” e “laico”. Anzi, essa finirà per esprimersi in un effettivo anti-socialismo, che porterà alla fine molti suoi esponenti fuori dal movimento.

Organizzazione e sindacalismo

Giulietti ricostruisce queste divisioni ideologiche collocandole lungo una linea temporale punteggiata da tre momenti fondamentali: la ripresa dell'anarchismo dopo la “crisi di fine secolo”, il suo consolidamento organizzativo, la radicalizzazione del conflitto sociale. Egli prende in esame la tendenza favorevole all'organizzazione e quella contraria, il congresso anarchico italiano del 1907, l'ingarbugliato fenomeno individualista, i rapporti tra movimento anarchico e movimento operaio, le conseguenti teorie di un anarchismo “puro” e di un anarchismo intrecciato al sindacalismo, la nascita dell'Unione Sindacale Italiana, l'individualismo e le sue manifestazioni estetizzanti ed esistenzialiste, l'educazionismo libertario, la simbiosi culturale con il laicismo, il razionalismo e il positivismo propugnatori del “libero pensiero”, l'anticlericalismo, l'antimilitarismo, la campagna contro la guerra di Libia, la settimana rossa. A questa complessa e articolata ricostruzione l'autore aggiunge un'appendice di documenti archivistici inediti, relativi a rapporti della polizia sul movimento anarchico e su alcune sue singole manifestazioni dal 1904 al 1913.
La difficoltà di una ricostruzione storica dell'anarchismo italiano nell'età giolittiana è dovuta, prima di tutto, al fatto che l'indirizzo liberale impresso da Giolitti all'azione governativa “spiazza”, in un certo senso, la spinta rivoluzionaria che fino ad allora aveva caratterizzato pressoché tutto il movimento. Gli anarchici, abituati alla semi-clandestinità, possono ora agire alla luce del sole; e questo, se da un lato li rende meno pericolosi, dall'altro li snatura. Avanza, in generale, una concezione meno insurrezionale dell'anarchismo perché fondata sull'importanza del lavoro culturale, quale veicolo peculiare per la formazione di una diffusa coscienza laica e razionalista; una concezione che crede molto al valore della propaganda di segno educativo e, ancor più, che pensa alla necessità di agire in tutti i campi della società, corrodendo “ai fianchi”, da più punti, il potere repressivo dello Stato, della Chiesa, dell'apparato economico, amministrativo, giudiziario, militare e politico del blocco dominante. Si tratta, in conclusione, dell'affermarsi di una visione che in qualche modo nega il precedente percorso storico fondato sulla preminenza dello scontro economico-sociale fra il regime proprietario e le classi nullatenenti di marca classicamente socialista e antiborghese. Naturalmente questa dicotomia non viene meno; ora, però, è arricchita - e quindi per altri versi in parte anche declassata - dalla presenza di altre contrapposizioni che tendono ad articolarsi su settori specifici della “questione sociale”. L'anarchismo trapassa quindi in una concezione più “generica” riassumibile con il termine libertario.
Ciò spiega perché una parte dei militanti, avvertendo il possibile pericolo di una perdita d'identità, finisca per teorizzare una sorta di estremismo individualistico, del tutto estraneo alla questione operaia. In tutti i casi la svolta liberale che caratterizza l'età giolittiana, mentre favorisce tali elementi di sviluppo e di mutamento, spinge involontariamente l'insieme del movimento verso una netta predilezione per la lotta politica, anche a causa dell'assenza obiettiva di uno scontro sociale. Gli scioperi del 1904, del 1906 e del 1908 e altri simili momenti - eventi dove i libertari non ebbero alcun ruolo rilevante - sono infatti brevi interruzioni di una lunga e sostanziale pace sociale che si concluderà solo nelle giornate di giugno del 1914. Il risultato definitivo di questo processo è infatti rappresentato dalla settimana rossa, fatto preminentemente politico che, non a caso, vedrà gli anarchici tra i suoi protagonisti maggiori.
Giulietti dà conto di questo ampliamento generale dell'incidenza anarchica nella società italiana, però la sua attenzione maggiore la riserva a quei momenti del conflitto sociale dove i libertari risultano in primo piano o che sono comunque determinanti nello svolgimento delle lotte, siano esse politiche o sindacali. In questo senso le sue ricerche gettano nuova luce sulla storia complessiva dell'anarchismo, come è confermato, ad esempio, dalla ricostruzione delle manifestazione avvenute in varie parti d'Italia dopo la fucilazione dell'educatore anarchico Francisco Ferrer avvenuta in terra iberica nel 1909 per volontà del governo spagnolo.
Non va dimenticato che nell'età giolittiana gli anarchici italiani di orientamento “partitico” non costituivano la parte maggioritaria del movimento. Per di più, come abbiamo accennato, chi era favorevole alla prospettiva organizzativa era anche quasi sempre attratto dall'ottica sindacalista, la quale prospettava un inserimento organico nelle maglie del movimento operaio. E ciò costituiva indubbiamente una tentazione non indifferente, dal momento che veniva data la possibilità di usufruire di una struttura già esistente costituita dalla rete organizzativa delle Cdl e delle Leghe di resistenza, in generale da tutte le strutture create autonomamente dal movimento operaio. Una possibilità, ovviamente, che relegava in secondo piano la necessità di formare un organismo anarchico specifico. La ricerca travagliata di un'identità organizzativa nasce dunque da queste condizioni che spiegano anche il continuo intreccio operativo esistente fra anarchici organizzatori e anarchici filosindacalisti. I poli di questo svolgimento, quello politico e quello sindacale, vanno perciò considerati dialetticamente.
Un altro momento importante della ricostruzione di Giulietti è dato dal nodo centrale del congresso nazionale tenuto a Roma nel 1907: qui, infatti, emergono temi, problemi e conflitti che attraversano tutto il periodo considerato, in modo particolare lo scontro fra diverse concezioni organizzative. La partecipazione maggiore fu quella degli organizzatori, ma non mancarono anche alcuni anti-organizzatori. La rappresentanza nazionale dei vari delegati, confluiti nella capitale, non esprimeva la realtà effettiva del movimento, che certo era più ricco e complesso. Secondo una stima governativa ufficiale di qualche anno dopo – fine 1913, inizio 1914 – gli anarchici italiani militanti risultavano 4.968, mentre i “biografati” raggiungevano il numero di 9.198. Si tratta di una forza non secondaria, qualora si consideri che nello stesso arco di tempo i socialisti erano valutati intorno alle cinquantamila unità e i repubblicani intorno alle ventimila.

Giampietro Nico Berti