rivista anarchica
anno 42 n. 375
novembre 2012


attenzione sociale


a cura di Felice Accame


Il partito
e il marito



1. Nei suoi famosi Miti d'oggi – scritti tra il 1954 e il 1956 e tradotti in italiano nel 1962 –, il semiologo francese Roland Barthes battezza un tipo di critica come quella del “né-né”. Un “né questo né quello” che serve a mantenere accorte equidistanze – un sotterfugio retorico ben funzionale alla strategia politica del vile in genere. Barthes si riferiva essenzialmente ad una critica letteraria secondo la quale l'esercizio del proprio mestiere non avrebbe dovuto essere “né un gioco da salotto, né un servizio municipale”, ovvero – in altre e più esplicite parole – “né reazionaria, né comunista, né gratuita, né politica”. A suo avviso, a monte di questa “meccanica della duplice esclusione” stava tutta quella pavidità piccolo-borghese con cui, senza darlo a veder troppo, ci si erge ad “arbitri imponderabili, dotati di una spiritualità ideale, e perciò stesso giusta, come l'asta che giudica la pesata”.

Foto di Anna Rocco


2. Non occorre approfondire il pensiero anarchico per far emergere alcune connotazioni negative della nozione di “partito”. Per sua natura, per il fatto stesso di unire in nome di un criterio dirimente, il partito, al contempo, divide. Ci si fa “parte” e si tiene fuori il resto. Nel mettersi assieme ci si contrappone ad altro e, spesso, la difesa di quanto unito fa perdere di vista le buone ragioni che potrebbero essere avanzate da chi ne sta fuori. Sulle modalità stesse con cui deve poi funzionare questo partito ci si 

può dividere ulteriormente. Non a caso un valido argomento contro un partito è stato quello di chi faceva notare che, tra modalità del suo funzionamento interno e obiettivi di trasformazione sociale dichiarati, dovesse esserci piena compatibilità – che un partito sorto per trasformare una società in senso libertario – lo dico per essere ancora più chiaro – non potesse governarsi tramite il cosiddetto “centralismo democratico”, né tramite strutture decisamente autoritarie. Si potrebbe essere portati a pensare, allora, tutto il contrario di quel che, sul finire degli anni sessanta del secolo scorso, sosteneva uno slogan come “senza partito niente rivoluzione”.
A questo male palese – dico al male del partito in genere –, d'altronde, non è neppure facile porre rimedio. Non è cambiandogli il nome che si cambia la natura della cosa. In molti casi, mera ipocrisia e convenienza hanno fatto sì che un partito venisse chiamato “movimento” – quando non “associazione”, sia essa “politica” o “culturale” – senza per questo mutarne la funzione, mentre, in determinate circostanze, il mancato conferimento del nome ha semplicemente significato gestioni verticistiche del tutto sottratte al controllo della base degli aderenti. È così che, anche all'epoca che stiamo vivendo, non senza angoscia assistiamo al venir meno di una garanzia fondamentale come quella che prevede almeno la piena esplicitezza dei criteri in virtù dei quali ci si riunisce in un partito piuttosto che in un altro, includendo e, di converso, escludendo.


3. Occorre invece approfondire il pensiero antiautoritario (qui la categoria di “anarchico” mi va un po' stretta) per far emergere alcune connotazioni negative della nozione di “marito”. Il termine ci deriva dal latino e designa innanzitutto la maschilità, ma non solo, perché – da un certo momento in poi – questa maschilità è diventata relazionale, designante quindi un preciso ruolo nell'istituzione matrimoniale. Non si tratta più, allora, del maschio in quanto tale, ma di una figura storica investita – autoinvestita – di potere; una figura che ha segnato l'intera storia umana di una asimmetria sociale doverosamente quanto difficilmente riducibile. Una critica dell'asimmetria di genere, dunque, non può prescindere dai requisiti ideologici assegnati al “marito” a tutto danno della “moglie” – nella divisione del lavoro, nelle competenze familiari e sessuali, nella realizzazione di ambiti di creatività, nella pratica generalizzata della quotidianità. Il “marito”, insomma, è una costruzione sociale di cui dobbiamo liberarci affinché le sue prerogative storiche non agiscano inesorabilmente nella sottomissione della donna. La ripulitura del “maschio” dalle sue incrostazioni ideologiche passa anche da lì.



4. Un particolare tipo di critica, allora – non della letteratura, ma soprattutto degli usi e dei costumi sociali – è quella espressa su un muro di Milano verso la fine di settembre di questo 2012: “Né partito Né marito” firmato da una A cerchiata in simbiosi con il segno della sessualità femminile. In essa, il “né-né” sarà anche il risultato di una “retorica bilanciata” – come avrebbe voluto Barthes –, ma vi è anche consegnato il risultato di un'analisi radicale del meccanismo del consenso colto nei due ambiti fondamentali della “politica” e delle “mura domestiche” – ambiti la cui sinergicità, per una volta, viene finalmente svelata.

Felice Accame

Nota
La simbiosi tra il simbolo dell'anarchia e quello della sessualità femminile piacerebbe a Giorgio Galli che, da storico, ha visto nella caccia alle streghe ed in altre analoghe manifestazioni degli apparati di potere la repressione del pensiero oppositivo in genere. Tuttavia, come tale, pone anche dei “problemi” – forse gli stessi che Barthes avrebbe ascritto alla matrice piccolo-borghese della critica del “né-né”. La progettazione sociale anarchica, infatti, non può passare attraverso nessuna discriminazione, pena il venir meno della correttezza del rapporto fra mezzo e scopo – nemmeno può passare, dunque, dal semplice rovesciamento di un rapporto di forze tra i suoi soggetti storici.