rivista anarchica
anno 42 n. 375
novembre 2012


dossier Piazza Fontana & dintorni

1. La strage e la nebbia

«Erano le 16.30 circa di venerdì 12 dicembre 1969.
Nel salone centrale della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano si stavano svolgendo per antica consuetudine le contrattazioni dei fittavoli, dei coltivatori diretti e dei vari imprenditori agricoli ivi convenuti dalla provincia per discutere i loro affari commerciali ed attendere al compimento delle operazioni bancarie presso gli sportelli, allorché vi echeggiava il fragore dell'esplosione di un ordigno di elevata potenza.
Ai primi accorsi da Piazza Fontana, che dà accesso al salone, l'interno della Banca offriva subito dopo un raccapricciante spettacolo: sul pavimento del salone, che recava al centro un ampio squarcio, giacevano, fra calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita ed orrendamente mutilati, mentre persone sanguinanti urlavano il loro terrore [...]. Quattordici erano i morti (aumentati a sedici entro il 2 gennaio con il decesso dei feriti Scaglia Angelo e Galatioto Calogero, morti per le gravi ferite riportate) [...]. Gravemente feriti restavano all'interno della sede bancaria altri quarantacinque clienti.
Vari feriti contava anche il personale della banca: tredici elementi che lavoravano al pianterreno nel salone; quattordici al primo piano, cinque al secondo piano; uno al terzo.
Gli effetti dell'esplosione riguardavano anche l'esterno dell'istituto. Riportavano, infatti, lesioni personali sette persone che si trovavano sul marciapiede di Piazza Fontana e due persone nell'interno del ristorante “L'Angelo” sito dietro l'edificio bancario».
Così i giudici della Corte d'Assise di Catanzaro, nella sentenza del 23 febbraio 1979, descrissero lo scenario di quella sera del 1969, che ci sembra oggi così lontana. Dal 1979 al 2005 si sono svolti ben nove processi per tentare di giungere alla verità, ma non si è arrivati a una verità giudiziaria.
Era dalla fine della seconda guerra mondiale che non accadeva un simile massacro di cittadini inermi, intenti in una normale attività quotidiana nella seconda città del paese.
Il 15 dicembre, quattordici bare sfilarono tra le vie di Milano per dare l'ultimo saluto a familiari, amici e cittadini accorsi in Piazza Duomo. Tutta la città si tolse il cappello man mano che il corteo funebre avanzava. C'erano studenti, pensionati, impiegati, operai usciti in anticipo dalle fabbriche e donne pie che veloci si facevano il segno della croce.
A organizzare la strage ed altri attentati fu una cellula veneta, operante a Padova, di «Ordine Nuovo», un'organizzazione estremista di stampo neonazista. Franco Freda e Giovanni Ventura, appartenenti alla cellula terroristica padovana, non vennero condannati per la strage di Piazza Fontana, nonostante l'inchiesta del giudice Salvini, negli anni Novanta, abbia portato alla luce nuove prove a loro carico. I due imputati erano stati dichiarati responsabili della strage e condannati all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Catanzaro nel 1979. Tale verdetto venne ribaltato in appello nel 1981: Freda e Ventura furono assolti per insufficienza di prove dall'accusa di strage. Il 10 giugno 1982 la Corte di Cassazione annullò la sentenza ma nel 1985 a Bari la Corte d'Assise d'Appello dichiarò nuovamente l'assoluzione degli imputati per insufficienza di prove. Questa sentenza fu confermata definitivamente nel 1987 dalla Cassazione.
Il principio ne bis in idem, ovvero che le stesse persone non possono essere giudicate due volte per lo stesso reato quando sono state assolte con una sentenza passata in giudicato, ha consentito a Freda e Ventura di rimanere impuniti.
Vennero accertati i depistaggi portati avanti da alcuni membri dei servizi segreti. Furono condannati Gianadelio Maletti, dal 1971 al 1975 capo dell'ufficio D del Sid (Servizio Informazioni della Difesa) e Antonio Labruna, ufficiale dei carabinieri in forza al Sid, per l'azione di depistaggio e occultamento di prove.
La strada per la verità fu ulteriormente intralciata dal continuo spostamento del processo che riguardava la strage milanese tra le varie procure italiane e la mancata unificazione con processi che interessavano questioni ad essa collegate causando un continuo andirivieni di materiale che dilaterà i tempi dei processi.
L'espressione «strage di stato», utilizzata per indicare l'attentato del 12 dicembre 1969, deriva dal fatto che ci fu una collusione tra alcuni settori degli apparati statali e gli attentatori.
L'obbiettivo di coloro che compirono la strage era cercare di sovvertire l'ordine pubblico, in modo da creare le condizioni per una involuzione autoritaria della politica italiana. A tale scopo bisognava fare attribuire la strage all'estrema sinistra in modo che l'opinione pubblica accettasse una vasta azione repressiva.
La nebbia di Milano non ha ancora restituito la pace a quelle famiglie che aspettano di sentire i nomi di coloro che progettarono e attuarono questa carneficina che si portò via i loro cari. Forse nomi sentiti troppe volte, ma mai accompagnati dall'aggettivo «colpevole».