rivista anarchica
anno 42 n. 375
novembre 2012


dossier Piazza Fontana & dintorni

2. La stagione della contestazione

La strage di Piazza Fontana avvenne in un contesto particolare.
Dopo il secondo conflitto mondiale il mondo finì per dividersi in due aree di influenza: gli stati del blocco occidentale sostenevano la politica americana e quelli appartenenti al blocco orientale erano filosovietici. Il conflitto riguardava anche i modelli politici, economici e sociali che i due Paesi incarnavano: la liberaldemocrazia capitalista americana contrapposta al totalitarismo comunista sovietico. Si entrava in quella fase storica chiamata guerra fredda perché le due potenze in grado di giocare una partita sul piano mondiale, Usa e Urss, non si fronteggiarono mai direttamente con l'impiego delle forze armate.
L'Italia aderiva al blocco occidentale, ma al suo interno aveva il partito comunista più grande di tutta l'Europa occidentale. Gli anticomunisti temevano che in caso di una vittoria elettorale comunista si potesse instaurare un regime simile a quello sovietico. In molte parti del mondo la risposta al rischio di una presa del potere da parte dei comunisti non fu democratica, ma consistette nell'instaurazione di regimi autoritari.
La politica dei blocchi continuò fino al 1989, anche se in precedenza si erano avuti dei periodi di distensione, soprattutto dopo la «destalinizzazione» voluta da Chrušˇcëv con il ventesimo congresso del Pcus (Partito Comunista dell'Unione Sovietica) nel 1956. Nello stesso anno in Ungheria scoppiò una rivolta contro il regime stalinista; le truppe sovietiche intervennero per bloccare l'insurrezione, ma il Partito comunista italiano, sulle pagine de «l'Unità», parlò dei disordini ungheresi come di una controrivoluzione mossa dai reazionari. Tesi in contrasto con le notizie che arrivavano dalla capitale ungherese: persino la Cgil sconfessò la tesi de «l'Unità». Questo episodio fece perdere consensi al Pci, ma soprattutto provocò una profonda frattura tra comunisti e socialisti, che condannarono senza reticenze l'intervento sovietico e modificarono la loro politica nei confronti dello stato e della sociètà italiana.
Dopo questo fatto si cominciò a parlare della cosiddetta «apertura a sinistra», cioè di una collaborazione di governo tra Dc e Psi. Nel febbraio 1962 i parlamentari socialisti si astennero nel voto di fiducia al quarto governo Fanfani e infine i socialisti entrarono nel primo governo presieduto da Aldo Moro, insediatosi il 4 dicembre 1963. La creazione del centrosinistra apparve allora come l'unica soluzione per sbloccare senza pericoli il quadro politico italiano.

Il primo governo di centrosinistra non durò però a lungo: nel giugno 1964 Aldo Moro dovette presentare le dimissioni perché il Psi votò contro un provvedimento che prevedeva l'aumento dei contributi statali alla scuola privata. Questo fu solo un pretesto: il malcontento socialista era dovuto alla sospensione dell'attuazione dei provvedimenti riformisti del programma governativo.
Attraverso la mediazione di Moro la rottura si ricompose e il Psi tornò al governo rimandando però le riforme a periodi più favorevoli. Alcuni anni dopo emerse che sullo sfondo della crisi di governo dell'estate 1964 si era profilato il cosiddetto «Piano Solo», che in caso di turbamenti dell'ordine pubblico prevedeva misure straordinarie attuate dalla sola Arma dei carabinieri, quali arresti di oppositori e occupazione di obiettivi sensibili tipo prefetture e sedi della Rai. L'esistenza del «Piano Solo» rivelava la disponibilità di alcuni settori dello Stato ad agire fuori dalla legalità pur di condizionare lo sviluppo democratico del Paese. In ogni caso Aldo Moro presiedette altri due governi di centrosinistra che durarono fino a dopo le elezioni politiche del 1968. Seguì un governo monocolore di transizione guidato da Giovanni Leone e alla fine del 1968 fu varato un nuovo governo di centrosinistra, capeggiato da Mariano Rumor, che però durò solo fino all'agosto 1969. Dopo l'ennesima crisi l'incaricò passò nuovamente a Rumor che diede vita ad un governo monocolore democristiano, l'unica soluzione che parve allora praticabile in attesa che maturassero le condizioni programmatiche e politiche per un nuovo esecutivo di centrosinistra.
L'instabilità delle istituzioni e l'incapacità di governare dei diversi schieramenti, che il più delle volte procedevano ad un semplice rimpasto più che ad un vero rinnovamento, rivelavano una classe politica incapace di affrontare i grandi mutamenti che stavano trasformando il paese.

Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta ci fu il «miracolo economico», il più impetuoso sviluppo produttivo che l'Italia avesse conosciuto. Si erano alimentate aspettattive di benessere più diffuso, ma il centrosinistra, creato in teoria per non deludere tali aspettative, non era riuscito a realizzare nessuna ridistribuzione della ricchezza. Le strutture sociali, le condizioni di vita e lavorative rimanevano immutate. Alla crisi dei partiti e alla loro incapacità di far fronte ai bisogni sociali, si aggiunsero, a movimentare il quadro italiano tra il 1968 e il 1969, la protesta degli studenti e quella degli operai.
La società italiana si ritrovò in subbuglio, molte categorie sociali espressero il proprio malcontento con scioperi e manifestazioni di piazza. Un sintomatico momento di tensione si ebbe in occasione dello sciopero generale indetto per il 19 novembre 1969. Allo sciopero aderì quasi il 95 per cento dei lavoratori e centinaia di migliaia di persone parteciparono ai cortei e ai comizi che si tennero nelle principali città italiane. A Milano tra polizia e manifestanti si registrarono gravi scontri che culminarono con la morte dell'agente Antonio Annarumma: la versione ufficiale parlò di un colpo inferto dai manifestanti con un tubo metallico che aveva causato lo sfondamento della scatola cranica, mentre le sinistre e i sindacati sostennero che il poliziotto aveva sbattuto la testa contro il montante della jeep che stava guidando dopo un urto con un altro mezzo della polizia. La tensione era destinata a crescere nelle settimane successive.

I grandi imprenditori manifestarono il proprio malcontento nei confronti di un governo all'apparenza troppo aperto alle istanze sindacali. Nell'immaginario della sinistra iniziò a crescere l'idea che una soluzione di tipo fascista stesse diventando la scelta della grande borghesia. I timori di uno sbocco autoritario si fondavano sul fatto che i meccanismi di mediazione sociale erano bloccati e di conseguenza le dinamiche dello scontro potevano sfuggire di mano da un momento all'altro.
Questa situazione favorì il nascere di preoccupazioni in tutte le aree politiche: a destra si immaginava che l'unica via di scampo fosse un regime autoritario, all'opposto l'estrema sinistra credeva che la rivoluzione socialista fosse l'unico orizzonte possibile, mentre i moderati vedevano un attacco simultaneo da destra e da sinistra che avrebbe posto fine alla democrazia.
Sotto la spinta del movimento operaio si assistette a nuove conquiste sul piano dei salari industriali, che continuarono a crescere negli anni Settanta, e all'approvazione dello Statuto dei lavoratori, che conteneva nuove e importanti norme a difesa del lavoratore.
Non tardarono però a manifestarsi gli effetti negativi della mobilitazione operaia: sul piano economico si vide la diminuzione della produzione industriale in conseguenza delle lunghe azioni di sciopero; sul piano psicologico fu ribadita la sfiducia imprenditoriale nelle istituzioni e la contestazione sempre più aspra dei lavoratori nei confronti della figura dell'imprenditore; a livello politico, come già accennato, cresceva la paura che il movimento, che era riuscito a coinvolgere milioni di lavoratori, potesse sovvertire le istituzioni democratiche.
In tale clima si riaffacciarono sulla scena italiana le organizzazioni e i partiti neofascisti. Alla testa del Movimento sociale italiano, nel 1969, alla gestione moderata di Arturo Michelini si era sostituita quella più dinamica di Giorgio Almirante, che tentò di fare del partito il punto di riferimento di tutte le forze conservatrici. Il fine politico era quello di dimostrare all'elettorato conservatore la capacità dell'Msi di rispondere con le stesse armi all'azione dell'estrema sinistra: per questo l'istigazione alla violenza conviveva con l'immagine di un partito d'ordine istituzionale e democratico.
Per le forze democratiche un fattore di preoccupazione era stato il colpo di stato militare attuato in Grecia il 21 aprile 1967: le elezioni furono cancellate, la costituzione sospesa, migliaia di persone che avevano mostrato simpatie per la sinistra vennero arrestate, tra cui anche il Primo Ministro e vari dirigenti politici.
Si temeva che qualcosa dei simile potesse accadere anche in Italia, viste le apparenti analogie tra i due paesi: la persistenza di aree arretrate, la presenza di dirigenti di formazione fascista nella polizia e nelle forze armate, l'esistenza di un partito neofascista; inoltre entrambi i paesi occupavano una posizione di congiunzione tra il blocco orientale e quello occidentale.

Milano, il commissario Luigi Calabresi (al centro)

I movimenti di protesta della fine degli anni Sessanta avevano creato, a sinistra del Pci, una vasta area che puntava alla creazione di un nuovo tipo di socialismo ideale e alla realizzazione di condizioni sociali e individuali utopiche.
La strage di piazza Fontana lasciò una traccia indelebile specialmente sull'immaginario dei militanti di Lotta Continua, il più celebre e il più numeroso fra tutti i gruppi dell'estrema sinistra italiana di allora, formatosi nell'autunno del 1969 dalla fusione di alcuni esponenti del Movimento studentesco con circoli dell'area operaista. La sua cultura politica, un incrocio tra marxismo e anarcosindacalismo, privilegiava l'intervento politico diretto, l'uso dell'inchiesta militante, un lavoro connotato da una forte emotività e dall'utilizzo delle più diverse forme espressive. Oltre che nelle fabbriche e nelle università si diffuse nei licei, fra i detenuti, fra i soldati di leva, fra i pescatori di San Benedetto del Tronto, tra i disoccupati, i contrabbandieri e gli occupanti delle case di Milano.
Il proliferare di questi movimenti con una linea autonoma da qualsiasi partito, quindi ingovernabili da una dirigenza istituzionale, e che portavano critiche forti all'organizzazione statale e alla sua funzione di strumento di oppressione di classe, suscitò forti timori nell'opinione pubblica moderata. Per alcuni la stagione delle manifestazioni e della contestazione doveva essere chiusa al più presto e spesso la stampa neofascista inneggiava ad un colpo di stato ritenuto gradito dalla maggioranza dei cittadini.