rivista anarchica
anno 43 n. 380
maggio 2013


 

Dopo il voto/Lo Stato dei grilli

Ha ragione Roberta Lombardi, capogruppo dei deputati del Movimento 5 stelle, quando scrive che “Il fascismo aveva un altissimo senso dello Stato, prima che degenerasse” (sul suo blog, il 21 gennaio). Il punto è stabilire quando è che il fascismo sarebbe “degenerato”; ma è vero che il fascismo si inserisce in una tradizione di alto e coerente senso dello Stato: lo Stato del 1915-18, che aveva mandato una generazione al macello della guerra; lo Stato del 1920-21, della sua polizia che spalleggiava le squadracce contro braccianti e operai in sciopero; lo Stato delle violenze e della repressione contro gli oppositori, denunciate per esempio da Matteotti nel 1924; lo Stato dei massacri in Africa e nei Balcani; lo Stato delle leggi razziali e dei lager. E più di recente, con il fascismo storico sconfitto ma con i suoi nostalgici ed eredi, di nome o di fatto, ancora presenti negli apparati di potere, lo Stato di Piazza Fontana, quello delle leggi speciali e dell'assassinio di Giorgiana Masi, quello di Genova 2001, di Bolzaneto e della Diaz.
La cosa si risolverebbe solo parzialmente regalando un libro di storia alla capogruppo Lombardi; si tratta in realtà di una questione più generale, che riguarda il presente più che il passato: qual è l'idea di Stato oggi prevalente, non solo fra i vecchi partiti, ma anche fra i nuovi movimenti che si apprestano a sostituirli? Si è fatta strada in questi anni una salutare insofferenza verso i politici di professione, la loro scarsa credibilità, i loro privilegi di casta; si praticano forme inedite di partecipazione diretta, grazie all'impiego delle nuove tecnologie. Riguardo al ruolo dello Stato come strumento in sé, invece, il senso critico e la fantasia non han fatto grandi progressi: appare più che mai incontestata l'ideologia (propria, del resto, della tradizione di una certa sinistra, almeno quanto di quella della destra) dello Stato come strumento principe dell'azione sociale; è più che mai diffusa la speranza salvifica in uno Stato forte, capace di rappresentare la volontà dei cittadini, ma anche di imporre le sue decisioni alla società. Uno Stato, oltretutto, pensato ancora come coincidente con l'entità nazionale di origine ottocentesca, con i suoi bei confini a separare quelle figurine colorate chiamate Italia, Francia, Svizzera.
Pur non avendo votato per loro, io sono fra quanti pensano che l'impatto dei grillini sul quadro politico attuale sia almeno in parte positivo: mette in discussione un intero blocco di interessi fra poteri pubblici e affari privati, e favorisce, si spera, una svolta su temi cruciali che ci toccano concretamente, come l'ambiente e i beni comuni, le “grandi opere” e le spese militari, in direzione di una risposta sostenibile all'epocale crisi ecologica ed economica (il M5s si dichiara vicino alla decrescita, seppure in termini generici e non certo libertari). Ma è importante che si cominci a pensare più creativamente anche alle forme, agli strumenti politici e istituzionali, con i quali quegli obiettivi vanno perseguiti. E nell'eventualità di ritrovarci domani una Lombardi o affini come ministro, per dire, dell'Interno, è più che mai importante coltivare gli anticorpi sociali, politici, culturali contro fascismi, nazionalismi, populismi, caudillismi, autoritarismo, demagogia, di destra e di sinistra, vecchi e nuovi.

Matteo Podrecca
Roma

Fedeli a noi stesse

Rispondo brevemente alla lettera di Monica Giorgi apparsa sul n. 378 (marzo 2013), che ringrazio per le sue gentili parole. Quando ho letto Un gioco da ragazze di Marina Terragni, la scorsa primavera, ho pensato che il suo appello a salvare il salvabile fosse più che ragionevole. Ho però voluto rifletterci andando a rileggermi i testi su cui la nostra generazione si è formata, e mi è sembrato che quanto le donne hanno elaborato sia prezioso e soprattutto nuovo, altro rispetto alla teoria e pratica degli uomini. Capisco quindi bene la contraddizione di Marina che si rifiuta di entrare nei palazzi del potere; del resto, se la scelta fosse facile, non dovremmo neanche porci il problema.
Ecco perché il titolo dell'articolo (mio, non redazionale) porta un punto interrogativo. In queste situazioni, ma direi in tutte, bisogna valutare caso per caso; per esempio penso che Anita Sonego abbia fatto bene a candidarsi a Milano, sia pure nelle liste di un partito stalinista e molto maschilista, perché la giunta Pisapia (che io ho votato con convinzione) fornisce il contesto adatto ad una politica femminista. Il mio “staremo a vedere” si riferiva all'essere fagocitate o meno delle donne che hanno deciso di giocare la carta della rappresentanza democratica; saranno loro stesse a dirci come sono andate le cose. Per quanto mi riguarda, con la mia formazione e il mio carattere poco propenso alla diplomazia, non credo potrei resistere in certi ambienti più di tanto, e se anche ci riuscissi, mi butterebbero fuori; e poi nei partiti si respira una sgradevole aria da oratorio. Circa trent'anni fa ho contribuito a fondare un sindacato di base, la RdR, nell'ente pubblico in cui lavoravo; sono stata responsabile della sede di Milano e poi della regione Lombardia, nonché consigliera nazionale. Ma le dinamiche erano le stesse di un partito e così me ne sono andata. Una cosa importante ho imparato da questa esperienza: il potere, anche se non lo vuoi, ti viene rimesso spontaneamente, perché la stragrande maggioranza della gente vuole vivere in santa pace, mentre la partecipazione diretta costa tempo, rinunce, un impegno che sul lungo periodo diventa faticoso. Penso che su questo punto gli anarchici dovrebbero riflettere molto, visto che l'autogestione si fonda sulla responsabilità personale. Di cose da dire ce ne sarebbero tante, ma mi fermo qui, per dare voce alle lettrici e ai lettori che volessero intervenire su queste problematiche. La mia e-mail è: dalessandra@hotmail.it.

Sandra D'Alessandro
Milano

Habemus Papam/Amen

Proprio quello che serviva. Faccia simpatica, sorriso rassicurante, inflessione gradevole, niente fronzoli e un'ostentata umiltà. La Chiesa Cattolica ha trovato in Jorge Mario Bergoglio il nuovo rappresentante con il quale sostituire, pubblicamente, il papa dimissionario Joseph Ratzinger.
In effetti, da un punto di vista mediatico, è stata una mossa vincente. Addirittura, prima di augurare la buona notte come il più gioviale dei parroci di provincia, il nuovo papa si è inchinato davanti ai fedeli chiedendo loro una preghiera. Ed è stato amore a prima vista.
Si farà chiamare Francesco, con evidente riferimento alla semplicità e alla sobrietà che da più parti si richiedono per fare pulizia nei sordidi ambienti vaticani. Come non amarlo?
Mentre tutti i mezzi di comunicazione sono letteralmente impazziti nell'esaltare il nuovo papa e nell'alimentare le aspettative dell'opinione pubblica, vogliamo tenere alta l'attenzione su questioni meno consolatorie ma certamente più oggettive.
Jorge Mario Bergoglio, classe 1936, viene da Buenos Aires, Argentina. Nel 1972, a soli 36 anni, fu nominato superiore provinciale della Compagnia di Gesù. Era, cioè, il capo dei gesuiti argentini. Di lì a poco, nel 1976, l'Argentina precipitò nell'incubo del colpo di stato e della dittatura dei colonnelli fascisti appoggiati dalla Cia. In sette anni, furono ammazzate almeno trentamila persone, gran parte delle quali furono fatte letteralmente sparire: i desaparecidos.
Documenti ufficiali e tante inchieste hanno dimostrato le collusioni delle alte gerarchie cattoliche argentine e vaticane nei confronti di quella orribile dittatura. Un atteggiamento che ricorre più volte nella storia di Santa Romana Chiesa: dall'appoggio al fascismo italiano e al franchismo spagnolo, passando per i silenzi sullo sterminio nazista degli ebrei, fino alle dittature argentina e cilena.
In un documentato libro del 2006, L'isola del Silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, il giornalista Horacio Verbitsky parla di Bergoglio, della sua affiliazione all'organizzazione di estrema destra Guardia di ferro, e di quanto fosse perfettamente in sintonia con la giunta militare.
Da parte sua, l'interessato ha sempre respinto ogni accusa, e oggi c'è chi è pronto a sollevare Bergoglio da qualunque responsabilità.
I Gesuiti non sono famosi per la loro sincerità, ma per la loro astuzia politica. In ogni caso, non ci aspettiamo nulla di buono: le sue attuali posizioni sulle questioni etiche e sociali più urgenti (contraccezione, eutanasia, diritto di aborto, omosessualità) sono in linea con il retrivo conservatorismo dei suoi predecessori.
Ma oltre alle inquietanti ombre nel passato di Bergoglio, in mezzo all'euforia irrazionale e fideistica di questi giorni, noi non dimentichiamo le caratteristiche strutturali del potere religioso e politico della Chiesa di Roma. E teniamo accesa, contro ogni oscurantismo, la fiaccola del libero pensiero.

Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo”
Trapani

Software libero e armamenti

Sfogliando il numero di marzo della rivista GNU Linux Magazine, tra i vari articoli sulle ultime novità tecnologiche, si legge: “GNU/Linux anche nelle armi! – Prodotti i primi fucili 'guidati' dal sistema operativo Open Source”. La novità è un prodotto dell'azienda texana TrackingPoint. Si tratta di fucili “equipaggiati con mirino automatico basato su GNU/Linux”. L'articolo prosegue specificando che “il mirino fornirà moltissime informazioni utili sul bersaglio e sull'ambiente circostante, rendendo la caccia molto più simile ad un videogioco. Grazie alle funzionalità messe a disposizione, sarà addirittura possibile agganciare il bersaglio senza così perderlo di vista”.
Il prodotto è presentato come un gadget tecnologico tra gli altri. Si accenna in poche righe “alle numerose discussioni sul Web”, che questo prodotto (per fortuna!) sembra aver provocato, ma nient'altro. Il tono rimane il solito: entusiastico! Il sistema Linux dimostra ancora una volta di essere il migliore! La conquista del mercato dei sistemi operativi continua!
Per non pochi utenti Linux, quindi, l'accoppiata software libero e armamenti è in pratica nell'ordine delle cose. In fondo, “se una cosa è libera, ognuno la può usare come gli pare”! Basta fare una breve ricerca su Google per rendersi conto di quanto questa opinione sia diffusa. Per molti, l'inserimento di Linux in mirini automatici è una mera questione tecnologica. Nulla di più.
Eppure una domanda mi ronza nella testa. Il movimento del free software non ha sempre sostenuto che il software è un bene sociale, un bene comune, come l'informazione, come la conoscenza?
Richard Stallman, ideatore del sistema operativo GNU (da cui è sorto Linux – ovvero GNU/Linux) ha continuamente asserito che il movimento del free software non è solo un movimento “tecnologico” ma un movimento che “si occupa prima di tutto del valore della libertà e della solidarietà sociale”1.
Come è possibile, quindi, che un software libero, ovvero un software realizzato a partire dai valori di libertà e solidarietà, venga utilizzato, senza particolari contrasti (anzi, con accoglienze perfino entusiastiche) per realizzare armi?
Tra l'altro non è nemmeno vero che le licenze free software permettano ad un utente di fare “quello che gli pare”. Se si accetta una licenza free, come ad esempio la celebre GNU GPL introdotta proprio dalla Free Software Foundation di Richard Stallman, non è possibile “chiudere” il software. Quest'ultimo deve restare “aperto”, ovvero “open source”: deve continuare a mettere a disposizione per ogni nuovo utente il sorgente del programma, ossia la possibilità di modificarlo, adattarlo, distribuirlo. In pratica un software libero è di tutti, è un software comunitario, nessuno può privatizzarlo togliendo agli altri la possibilità di utilizzarlo e quindi modificarlo in base alle proprie esigenze. Il software libero è tale non solo per chi inizialmente lo ha creato, ma anche per tutti i futuri utenti.
I fucili equipaggiati con Linux non hanno ovviamente nulla a che fare con la libertà, ma piuttosto con l'esatto opposto. Con l'etica o la solidarietà sociale poi...
Il software libero sembra così ridotto ad un semplice componente tecnologicamente sofisticato come tanti altri, con cui è possibile realizzare sistemi elettronici, tra cui, d'ora in poi, anche armi automatiche.
Le tendenze, contro cui lo stesso Richard Stallman ha sempre lottato accanitamente, tese a trasformare il movimento del free software in un mero movimento tecnologico sono quindi oggi, evidentemente, dominanti. Del resto l'etichetta di software libero è oggi spesso sostituita con quella, eticamente anonima, di “open source”; ma, come Stallman ha con ragione evidenziato: non è affatto indifferente definire un software come free o open source.
Chi si ferma a considerare il software libero semplicemente come un programma distribuito con il suo codice sorgente (open source appunto), o peggio ancora come software semplicemente “gratuito”, smarrisce la questione principale e fondante del movimento per il free software. “Il movimento del software libero si occupa prima di tutto del valore della libertà e della solidarietà sociale [...] distribuire un software non libero crea un ingiustizia ed è sbagliato farlo. L'idea di open source fu diffusa da gente che non parla di queste cose e che ha scelto di associarla solo a valori pratici: nel caso fare software potente e affidabile. Loro dicono che il loro metodo di sviluppo è probabile che produca buon software, buono solo in senso pratico. Loro non dicono che un programma calpesta la tua libertà se non è open source. Loro non dicono che renderlo open source è un imperativo etico”.
Oggi il software libero, o meglio “open source” è in effetti compatibile con un preciso modello di business, che vede in Google il suo più imponente alfiere. Google, il gigante di internet, l'azienda che sta rivoluzionando il sistema dei media, è certamente sostenitore di un modello “aperto”, o per lo meno più aperto rispetto ad altri giganti dell'informatica come Apple o Microsoft, ma, chiaramente, perché ha tutti gli interessi economici per sostenerlo: Google non vende licenze, ma offre servizi gratuiti in cambio di informazioni da convertire in fatturato pubblicitario.
Per ritornare alla questione dei fabbricanti di fucili; è vero che un fucile è uno strumento di morte anche senza software libero. È vero che è in ogni caso una schifezza che la dice lunga sul non ruolo che l'etica ricopre nel nostro mondo (a differenza del soldo). Questo però non toglie che considerare come inevitabile l'uso di un software comunitario per la realizzazione di strumenti di dominio e di morte, significa accettare che le motivazioni etiche che sono state, e che certamente, come per il sottoscritto, sono tutt'ora alla base dell'esperienza del free software, sono parole al vento, da lasciare a pochi ingenui da raggirare facilmente.
Come arginare questa deriva? È poi così insensato introdurre licenze libere che oltre a permettere la libera modifica e distribuzione del software, ne impediscano l'uso in ambito militare, così come nella costruzione di qualsiasi forma d'armamento? Il software sarebbe per questo meno libero?
Forse alla fine il problema non è nemmeno quello di migliorare le licenze del software, ma, come sosteneva il vecchio Kropotkin, di ricordarci che la libertà è un valore irrinunciabile che comporta la responsabilità della comunità, di vegliare e reagire di fronte a prevaricazioni. Tocca ai sostenitori del software libero non restare indifferenti.

Luca Cartolari
Perosa Canavese (To)

  1. Richard Stallman – Software libero pensiero libero (Vol I e Vol II) – Stampa Alternativa (2003). Molti sono i siti da cui è possibile trarre informazioni o leggere articoli e saggi di R. Stallman, (a partire dal fondamentale http://www.gnu.org).

Prosegue il dibattito su
Libertà senza Rivoluzione”

Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione di Giampietro ”Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sui numeri successivi sono intervenuti Franco Melandri e Domenico Letizia (”A” 378, marzo), Luciano Lanza e Andrea Papi (“A” 379, aprile) e ora Luigi Corvaglia e Alberto Ciampi.
Sul prossimo numero (“A” 381, giugno) sarà la volta di Marco Cossutta e Salvo Vaccaro. Sul numero(ne) estivo (“A” 382, luglio/settembre) Persio Tincani e Fabio Massimo Nicosia e forse qualche altro ancora.
Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi.



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/5

Luigi Corvaglia/Un dubbio sensato e una domanda ineludibile

Liberi. Sì, i degenti dell'ospedale di Qualcuno volò sul nido del cuculo erano liberi di andarsene. Quando McMurphy, il personaggio interpretato da Jack Nicholson, scoprì che la maggior parte dei degenti era in regime di ricovero volontario, ma non lasciava l'istituzione, comprese la lezione di Etienne de La Boétie: gli uomini si sottopongono volontariamente al potere. Jean-Paul Sartre e Albert Camus lo avevano detto che, pur in una istituzione diluita quale è la nostra società, gli uomini sono sempre liberi. Se così non fosse, nota Nico Berti nel suo ultimo libro, se insomma “gli uomini non fossero radicalmente liberi – cioè liberi alla radice – ogni idea di emancipazione umana sarebbe una semplice assurdità e l'anarchia, naturalmente, sarebbe la massima assurdità possibile e immaginabile”. Non è un caso che al battesimo della modernità un campione della reazione quale fu de Maistre si scagliasse proprio contro “la pazza asserzione: l'uomo è nato libero!”. È infatti questa idea, espressione di ciò che Max Weber definì il “disincanto”, a fondare il concetto di responsabilità individuale. Il lavoro di Berti parte appunto da questo presupposto per arrivare a cantare il requiem per la prospettiva rivoluzionaria quale mezzo per l'emancipazione umana. Le masse, infatti, non sono rivoluzionarie, perché hanno liberamente scelto di non esserlo. “Chi dà, allora, il diritto ai rivoluzionari di insorgere contro il volere della maggioranza delle persone?” Nessuno. Certo, qualcuno, come fece Giovanna D'Arco con la voce di Dio, può sempre ascoltare la Storia che gli sussurra nell'orecchio, perché “ogni pensare rivoluzionario è un pensare storicistico”. È quindi una forma di costruttivismo utopico che incarna un'anima totalitaria. Il problema, infatti, non è il metodo. Il problema è la forma della “società futura”. Se, infatti, si vagheggia una società nuova che universalizzi il bene supremo della libertà e si strutturi staticamente come luogo senza frizioni, è evidente che ci troviamo nell'ambito della prescrittività tipica della concezione democratico-giacobina. Questa si svolge sotto l'angosciante ombra di quella libertà positiva tesa alla realizzazione della pienezza delle potenzialità umane. È la secolarizzazione della tesi teologica di Agostino per cui l'uomo diviene veramente libero quando riesce a volere solo il Bene. Ma, come scriveva Berdjaev: “Ogni confusione e identificazione della libertà con il bene stesso e la perfezione equivale a negare la libertà, a riconoscere la via della violenza e della costrizione”. Anni fa, Thomas Ibanez aveva descritto un simile cortocircuito logico. “Volendo essere una teoria centrata sulla libertà – aveva scritto Ibanez –, l'anarchismo apre su una cultura che esige l'adesione di ognuno per poter esistere e che contesta la legittimità di tutto ciò che non è sé stessa”. L'anarchismo, in altre parole, sembra negare se stesso ed esitare in una cultura totalitaria. Vero, ma ad una condizione: che lo si faccia coincidere proprio con questa reductio ad unum, cioè con un progetto che, in nome del Bene, finisce col sacrificare il molteplice (cioè tutti gli spazi di libertas minor, come direbbe Agostino) al singolare (libertas maior). Monoteismo etico. Per molto tempo la libertas maior degli anarchici è stata il socialismo, nelle sue varie declinazioni. Il dilemma di Ibanez, altrimenti irrisolvibile, appare però illusorio se sostituiamo alla collettiva libertà democratica l'individuale autodeterminazione liberale. Immaginiamo una società che ricerchi solo la mancanza di costrizione, che risponda, cioè, ai criteri per la “società aperta” come descritta da Popper. Questa prevede una inversione di quello che Rawls definirebbe l'“ordine lessicale”, cioè la subordinazione dell'anticapitalismo ad un principio guida, la libertà. Che in tal caso sia facile uscire fuori dal paradosso di Ibanez lo dimostra chiaramente lo stesso Berti quando, a pag. 229, risponde ai critici della cultura liberale entro la quale egli ritiene si debba partire per attualizzare l'anarchismo. Per i detrattori del liberalismo anche questo è una forma di pensiero unico che finisce per creare una sorta di totalitarismo. “Come dire: anche il liberalismo ha un fondo antiliberale”. Ora, quando anche si desse l'improbabile condizione di una completa comunione di vedute, ciò non comporterebbe alcun totalitarismo, perché esso consiste, piuttosto, “in una uniformità coatta di vedute”. La libertà liberale, che è negativa, semplice mancanza di coercizione e, quindi, non prescrive, non può produrre esiti totalitari. Ce lo ricordava Rudolf Rocker: “molte strade portano alla dittatura dalla democrazia, nessuna dal liberalismo”. Insomma, qualcuno potrà ovviamente essere libero di essere socialista o mussulmano, “ma si è sempre nella più perfetta libertà anche di negare a questo qualcuno la libertà – la sua – di imporre coattivamente ad altri la sua fede.” Non più utopia, questa è, per dirla con Nozick, una “impalcatura per utopie” (cioè, politeismo etico). Insomma, visto in questi termini, il paradosso di Ibanez viene degradato a “gioco di parole”. Altrimenti torna Agostino. Poco importa, quindi, che leggendo il suo libro si abbia talvolta l'impressione che il critico dello storicismo descriva un andamento obbligato della storia (“Kant e McDonald's prima o poi arrivano dappertutto”) o che dalle pagine possa trasparire una fin troppo gioiosa “resa” alla razionalità strumentale del “capitalismo”. Chiunque fissasse la sua attenzione su questi aspetti si dimostrerebbe simile al tizio che guarda il dito piuttosto che la luna. Nell'analisi di Berti è presente un dubbio sensato e una domanda ineludibile: consegnato al cimitero delle idee l'agostinismo libertario, l'anarchismo può essere solo inveramento del liberalismo?

Luigi Corvaglia
Casarano (Le)



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/5

Alberto Ciampi/Cu-cu! Chi è Stato?

Quando la destra liberale attacca i comunisti mi irrito perché penso a mio nonno, che nel dopoguerra, con Pier Carlo Masini, attraversava la Valdipesa in bicicletta per ricreare le sezioni del Pci attorno al comune paese di nascita. Poi Masini diventò anarchico e mio nonno rimase, pur da comunista, una persona libera. Nessun di loro pensava alla Rivoluzione, con o senza maiuscola. Credevano nella evoluzione verso qualcosa che fosse diverso e migliore, senza immaginarne i confini, una società libera senza fini precostituiti, in divenire, secondo la volontà di quella minoranza agente auspicata da Berti, con al centro l'individuo, dove le ideologie si sfaldano e dissolvono in uno stirneriano nulla creatore. Così nasce un percorso nuovo da inventare di volta in volta, oltre le crisi, oltre “la fine imminente dell'anarchismo [che] ha sempre portato bene all'anarchismo”, scrive Sacchetti (Umanità Nova, a. 93, n.5, 10 febb. 2013, p.6). Non è semplice parlare di questo libro. Ho preso appunti come per un esame, che necessiterebbe di dieci volte le seimila battute accordatemi. Cominciamo con la ri/Rivoluzione. Anche nei momenti più incendiari l'anarchismo non l'ha rincorsa, è evoluzionario ed il proprio agire si sedimenta nell'azione individuale congiunta. Nell'anarchia c'è, il migliore comunista, l'agire libero – anche in economia –, con il capitalismo senza il capitale, cioè senza capitalizzazione, con l'agire diretto. Berti aggredisce, demolendoli, modi di interpretare la società che religiosamente portano a dittature, e ne enumera i rischi, i limiti, le conseguenze di pensieri in sé totalizzanti insiti in quello marxista e parenti stretti di ogni declinazione fascista. Scrive che la società democratica è religiosa e finalista e l'unico ambito è quello liberale perché agnostico. Escludendo ogni altro luogo oltre l'occidente, Berti individua nell'America l'unica rivoluzione cui poter far riferimento, anche se “nessuno possiede la verità per intero”. Come non concordare con lui quando afferma che mai le masse sono state rivoluzionarie e che solo le minoranze agenti possono accedere alla rivoluzione, in un percorso che include il mondo intero, un mondo di differenze, ma fatto di una sola umanità. Solo l'anarchia è universalista e lo è perché non ha progetti di autodeterminazione collettiva, al contrario delle rivoluzioni, che non hanno spostato né aumentato spazi di libertà. Ma aggiunge che l'unica che si è limitata ad “abbattere senza creare” è la rivoluzione americana. L'Italia e la Germania non hanno avuto rivoluzioni, hanno prodotto fascismo e nazismo, mentre una minoranza “illuminata” ha costruito la galera sovietica o cinese. Allora? Ci pare di capire bene Berti quando cita il distinguo della Spagna del 36-37 “non a caso ad opera degli anarchici”, però contro e oltre il capitalismo. L'autore batte spesso sulla religiosità delle rivoluzioni come limite delle stesse, e questo ha la piena nostra condivisione, come quando inserisce il concetto di moderno che tale non può essere senza individualismo stirneriano. Ma l'individualismo è liberale? Renzo Novatore o Santo Pollastro non sono liberali, sono anarchici: altro e oltre il liberalismo. Se in Stirner, Kropotkin e Bakunin si trova la confutazione del capitale e del comunismo, ed il comunismo non è negatore, ma riconnotatore del potere, proprietà ecc., il liberalismo americano riassume nell'individuo poteri singoli che sommati producono massa con proprietà e potere, in un alveo di libertà di agire senza scalfire il moloch: lo stato. Berti invece afferma che il capitalismo è acefalo ed in ciò sta una sorta di difesa immunitaria della libertà. Ma se la somma degli individui forma una società anche di differenti istanze, la somma di teste convergenti su privilegi personali determina potentati rappresentati dallo stato liberale. La presunta frammentarietà non indebolisce lo stato americano, nel riconoscersi in esso si rafforza il potere concentrato nel privilegio. Così come non è vero il primato dell'homo capitalista in natura, perché semmai, prima dello stato, in natura, c'è l'assenza dello stato. L'uomo non nasce liberale, ma libero e nel divenire liberale si limita il diritto originario (di natura) non divino né religioso, ma per nascita. Se è il medioevo “liberale” la culla del mercato e del capitale e ciò rappresenta la liberazione dall'oppressione delle monarchie e delle religioni, c'è un prima libero, che chi ha assunto ruoli di leader ha sopito e compresso. Berti assegna a Roosevelt ed al new deal il passaggio dal naturalismo capitalista all'assistenza foriera di grandi pericoli, che giungeranno. E prima? E lo sterminio dei nativi e il dominio colonialista? Lo stato agisce come dominus (liberale o comunista o fascista) ed è fascista a prescindere, perché autoritario. La società liberale è permeata di Stato. Reagan viene qui considerato campione di libertà perché abbatte il comunismo, e con esso: ospedali, treni, aerei, infrastrutture, di un intero occidente liberista. Altro tema è quello del proletariato, che con la new economy, secondo l'autore, viene spazzato via. Ma se il contadino e l'artigiano (anche in assenza di operai) con o senza macchine, non elabora e produce cose, l'economy non sarà né nuova né vecchia, semplicemente non sarà. Da qui l'ipotesi di una crisi “presunta dell'anarchismo all'attualità”, che non è vera. Meno operaia, se mai lo è stata, è polimorfa, intellettuale, creativa, artistica, e anticipa senza mai essere o divenire post. L'anarchia è eccentrica a destra e sinistra, lo dimostrano “il radicamento diffuso”, trasversale, senza ceti, spesso accomunata da una sola certezza, il divenire; “una asticella da spostare non un obiettivo da raggiungere”; parafrasando Berti: dove lo Stato si dissolva.
È un libro di grande stimolo, solo apparentemente “distante”, che nell'assestare colpi e allontanare pericoli sempre presenti, è dichiarazione d'amore per l'anarchia, perché l'autore vede arrancare e guardare solo indietro. L'anarchia è assai vitale e rinnovata in luoghi dove troppo spesso non si scruta: centri sociali, scuole, gruppi e circoli, luoghi di lavoro, fra artisti e intellettuali, fra cittadini comuni, questi sì, disgustati e amareggiati da loro passioni remote o recenti che solo nell'anarchia trovano ideale riferimento e verso i quali è doveroso guardare.

Alberto Ciampi
San Casciano
Val di Pesa (Fi)

Enzo Jannacci/Dolore e gratitudine del Club Tenco

Premio Tenco già nel 1975; tre volte Targa Tenco per la più bella canzone dell'anno; una Targa Tenco per il migliore album in dialetto; cinque partecipazioni alla “Rassegna della canzone d'autore” all'Ariston di Sanremo: poca cosa, i riconoscimenti del Club Tenco, in confronto al genio grandioso che Enzo Jannacci ci ha regalato in oltre mezzo secolo di vitalissima attività artistica. Gli amici del “Tenco” lo salutano con tutto il dolore di una perdita così grande ma anche con la gratitudine di aver sempre ricevuto da lui il soffio leggero di una poesia spiazzante e infallibile.
La voce di Jannacci era disagio esistenziale, sofferenza, sfogo del disadattato, ma tutto attraversato dal filtro dell'ironia. Biascicava frammenti di parole, parlava per cenni, faceva del linguaggio una marmellata informe di fonemi, ma da tutto questo affioravano strazianti brandelli di verità. Una scheggia impazzita che deviava continuamente in digressioni, tic, scatti, scosse, pause, dissonanze. Una poltiglia di nonsensi e frasi smozzicate, che macinava faticosamente come se lui per primo stesse sforzandosi di capire cosa stava dicendo, ma che alla fine, per folgorazione, si faceva decifrare come in un puzzle o un gioco enigmistico. Dentro quella voce si poteva nascondere qualcosa di molto serio, spesso tragico, ma anche dolce e levigato come il suo volto. Enzo Jannacci sapeva in questo modo “dire” di più dei tanti parolai che ci tocca ascoltare tutti i giorni; sapeva esprimersi più e meglio di tutto il bla-bla quotidiano di cui a suo modo si faceva beffe.
Da tempo il Club Tenco progettava di organizzare una grande manifestazione in suo onore. Ma l'intenzione, ora perduta, era di realizzarla con lui in vita. (30 marzo 2013)

info@clubtenco.it



Quell'addio a Lugano

Sul prossimo numero, ricorderemo, come merita, Enzo Jannacci, morto lo scorso 29 marzo a Milano. Qui ci limitiamo a pubblicare il comunicato degli amici del Club Tenco e questi fermo-immagine ripresi da YouTube.
(http://youtu.be/k84G4ODpBsE).


Sopra: in uno studio Rai, negli anni '60, (da sinistra) Otello Profazio, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Lino Toffolo e (di spalle) Silverio Pisu intonano “Addio Lugano bella”, il più noto canto anarchico in lingua italiana


Giorgio Gaber e Enzo Jannacci




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Andrea Perin (Milano) 30,00; Alessandra Caselli (Pontassieve – Fi) 30,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo – Sa) 35,00; Monica Giorgi (Bellinzona – Svizzera) 135,00; a/m P. Finzi, gli organizzatori della serata del 16 marzo con presentazione del film “Cronaca di una strage” (Fino Mornasco – Co) 50,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Vincenzo Grossi (Pescara) 100,00; Danilo Vallauri (Dronero – Cn) 20,00; Daniele Draperis (Santa Croce di Cervasca – Cn) 10,00; Francesco Tenuta (Milano) 20,00; Pasquale Palazzo (Cava de' Tirreni - Sa) ricordando Piero Milesi e Faber, 10,00; Angelo Pizzarotti (Borsano di Calestano – Pr) 20,00; Giacomo (Milano) ricordando Otello, 10,00; Libreria San Benedetto (Genova) 6,00; Paolina Perna (Salerno) 20,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00; Pino Cavagnaro (Genova) 20,00; Teodoro Fuso (Monopoli) “per la nuova veste grafica di ”A“ rivista, grazie e complimenti”, 10,00; Roberto Minichello (Mirabella Eclano – Av) 20,00.; Daniele Frattini (San Vittore Olona – Mi) 10,00; Marco Parisi (Brescia), 40,00; Domenico Masini (Galliate – No) 10,00; Giovanna Quadri Gianinazzi (Origlio – Ch) 37,00; Vincenzo Molinari (Senago – Mi) 10,00; Angelo Roveda (Milano) 50,00; Silvio Sant (Milano) 20,00; Giuseppe Anello (Roma) 90,00; Pasquale Messina (Milano) “ricordando mio padre”, 50,00; Katia Cazzola (Milano) 20,00. Totale € 1.403,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Gabriella Fabbri (Colognola ai colli – Vr); Giuseppe Gessa (Gorgonzola – Mi) 150,00; Laura Monferdini (Genova); Matteo Gandolfi (Genova); Roberto Pietrella (Roma) 200,00; Alessia e Cristiana Bruni (Castel Bolognese – Ra) 200,00; Antonella e Simo Colombo (Triuggio - Mi). Totale € 950,00.