rivista anarchica
anno 43 n. 380
maggio 2013




Il significato delle parole
fra autorità e consapevolezza

a cura di Felice Accame


1.
Chiedersi in che consista il significato di una parola è un atto più rivoluzionario di quel che può sembrare. Veniamo al mondo e, in qualche modo, impariamo a parlare. Soltanto quando già parliamo ci viene insegnata la grammatica, ma, a guardarla bene, ci si rende facilmente conto che, suo tramite, mai avremmo imparato a parlare – senza contare che la grammatica è un sistema classificatorio che, soltanto in minima misura, ha a che fare con il significato delle singole parole. Perlopiù, pertanto, venendo al mondo ereditiamo un patrimonio già bello e fatto che siamo perentoriamente invitati a rispettare. Non porsi mai il problema costituito dal significato di una parola, in fin dei conti, rappresenta un atto di subordinazione sociale, l'obbedienza ad un'autorità più e meno nascosta che ci impone un mondo da accettare passivamente, uno stato delle cose immutabile cui rassegnarsi – nonostante ogni evidenza – e ogni necessità – contraria.

2.
Nel 1905, Ernst Mach, in Conoscenza ed errore, scriveva che “il significato della parola sta nella serie di associazioni che evoca, e viceversa il suo uso corretto consiste nella presenza di tali associazioni”. Questa affermazione di Mach – una persona perbene cui non mancava certo lo spirito critico – rappresenta bene la povertà di una teoria corrente. L'associazione di qualcosa implica due o più termini, ma sulla loro natura nulla si dice – i termini in questione rimangono sostanzialmente inanalizzati suggerendo implicitamente che possano anche essere inanalizzabili: significati come entità, indipendenti dal parlante.
Presupposto di Mach, d'altronde, è che la “sensazione” – la base della vita mentale dell'individuo – “non si può spiegare”, che sia “qualcosa di tanto semplice e fondamentale che, almeno oggi, non si riesce a ricondurla a qualcosa di ancor più semplice”. Mach ha l'onestà e l'intelligenza di riconoscere la provvisorietà della situazione – “almeno oggi” –, ma ciò non cancella il senso di impotenza che deriva dalla constatazione.



3.
Nel 1927, Percy William Bridgman scrive La logica della fisica moderna. Di lui si sa ancora poco: fisico, avrebbe meritato il Premio Nobel per i suoi studi sulle alte pressioni nel 1946 e, più tardi – nel 1955 –, con Einstein e Bertrand Russell, sarebbe stato uno degli undici firmatari di una famosa lettera-manifesto – quella rivolta al mondo intero, e in particolare ai potenti, contro le armi nucleari.
In questo suo libro, dalla critica alla tradizione – ad una tradizione di cui obtorto collo faceva parte lo stesso Mach –, nella ricerca della “precisione richiesta dall'uso scientifico”, Bridgman è stato indotto “a scartare il metodo di trattare il nostro ambiente in termini di oggetti dotati di proprietà”, ed a sostituirlo con “un punto di vista che considera la riduzione in attività o in operazioni come un metodo più sicuro e migliore di analisi”, venendo dunque – come afferma destando lo scandalo fra i benpensanti della comunità scientifica e filosofica – a considerare i “concetti come costrutti, nel senso di costruiti con operazioni” – ragion per cui “il significato delle parole è determinato dalle operazioni”, e, anzi, “il significato è sinonimo delle operazioni” –, pur nella convinzione che sia “impossibile separare ciò che facciamo con le mani da ciò che facciamo con la 'mente'”.
Corollario di ciò, e presupposto – come dice molti anni dopo in Come stanno le cose –, è che “la stessa parola, usata una seconda volta in una frase successiva, non ha [...] lo stesso contesto del suo primo uso, e quindi non c'è alcuna certezza che il significato sia lo stesso del suo primo uso”.
Quando distingue tra un significato nel passato, nel futuro e nel presente, e dichiara di avere “un'inclinazione molto forte a pretendere da un significato che sia un significato-adesso”, non fa che risollevare un'afflizione ricorrente nella storia del pensiero. Ne è un ottimo esempio, la lamentazione di Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy, negli Eléments d'Idéologie (1801-1815), circa l'impossibilità di conferire a tutte le lingue del mondo le proprietà dell'algebra. Nelle lingue naturali, dice il filosofo “ideologo”, “siamo il più sovente ridotti a delle congetture, a delle induzioni, a delle approssimazioni [...] Non abbiamo quasi mai la certezza perfetta che questa idea, che ci siamo costruita sotto il tal segno e per dati mezzi, sia esattamente in tutto e per tutto quella a cui attribuiscono lo stesso segno sia colui che ce lo ha insegnato sia gli altri uomini che se ne servono. Donde spesso le parole prendono insensibilmente significazioni diverse, senza che nessuno si accorga del cambiamento; per cui sarebbe giusto dire che ogni segno è perfetto per chi lo inventa, ma ha sempre qualcosa di vago e incerto per chi lo riceve [...] Dirò di più: ho detto che ogni segno è perfetto per chi lo inventa, ma questo non è vero a rigore che per il momento in cui l'inventa” – ecco il “significato-adesso” che piace a Bridgman – “perché quando si serve dello stesso segno in altro momento della sua vita, o in altra disposizione di spirito, costui non è più del tutto sicuro di riunire esattamente sotto questo segno la stessa collezione d'idee della prima volta”.
Da qui, anche lo straordinario scrupolo di Bridgman nei riguardi del resoconto scientifico – perlopiù sottratto all'io e affidato ad una sorta di soggetto neutrale – come se, come stanno le cose, ce lo dicessero le cose stesse. Il significato di ‘io' è relazionale – conferma l'identità del rapporto tra il parlante e ciò cui si riferisce parlando (e dev'essere sconcertante, nota Bridgman, per un bambino che impara il linguaggio, sentire di continuo dire “io”, sempre da persone diverse – ovvero usare lo stesso designante per designati apparentemente diversi). La “modestia” di Bridgman è qui evidente. Richiama lo scienziato alle sue responsabilità. Spiega quanto sia meglio per tutti che, dietro le sue affermazioni, ci metta la propria faccia, che riduca il mondo che descrive a se stesso che lo descrive senza ergersi a soggetto universale.


4.
Cosa cambia, allora, una teoria operativa del significato? Ne La logica della fisica moderna e in Come stanno le cose, Bridgman fa gli esempi opportuni, sia di ordine scientifico che di ordine sociale. Ne riporto uno piuttosto noto. Nello Scolio (propriamente “commento”, da “skole”, greco, “studio, occupazione”) del libro I dei Principia mathematica di Newton si legge che “Io non definisco Tempo, Spazio, Luogo, Movimento, in quanto sono ben noti a tutti”. Dà per scontata un'analisi che invece è tutta da fare. Il profano – prosegue Newton – non concepisce queste grandezze se non in rapporto agli oggetti sensibili e da ciò nascono dei “pregiudizi” che vanno liquidati. Come? Distinguendo queste grandezze in assolute e relative, vere e apparenti, matematiche e comuni. (“Il Tempo assoluto, Vero e Matematico, in sé e per sua natura scorre uniformemente senza riferimento a nulla di esterno, e con altro nome viene detto Durata”). Con il che, per esempio, ci siamo ritrovati alle prese con un “tempo assoluto”, che, se da un lato serviva bene ad una concezione mistica del mondo, dall'altro complicava non poco le indagini della fisica (e non solo della fisica).
Ad analisi operativa, poi, Bridgman sottopone l'intero apparato metodologico della scienza – nozioni come quella di causalità, velocità, energia, forza e massa, i concetti della termodinamica, dell'elettricità, della teoria della relatività, della teoria quantistica; parole apparentemente banali come “tutto”, “ogni”, “ciascuno”.
Sul versante delle relazioni sociali, Bridgman afferma, per esempio, che pensare in operazioni “risulterà all'inizio qualcosa di antisociale – non si riuscirà a comprendere la più semplice conversazione dei propri amici, ci si renderà impopolari richiedendo continuamente il significato dei termini usati”. Si dovrà negoziare, insomma, come sempre allorché, rivoluzionariamente, si rinuncia all'autorità costituita. Ma “il pensiero operativo riformerà l'arte sociale della conversazione, perché tutti i nostri rapporti sociali appariranno suscettibili di riforma”, dice Bridgman, invitando a “pensare alle discussioni di ordine religioso o morale” – “ci rendiamo conto della vastità delle riforme che ci aspettano”. Se ne può concludere che “ovunque si temporeggia o si cercano compromessi nell'applicazione alla vita pratica delle nostre teorie sulla condotta, possiamo sospettare una deficienza di pensiero operativo”.

5.
A questo punto, però, la mano che reggeva la rosa si deve accorgere anche di una spina. Cosa sono – di cosa sono costituite – queste operazioni di cui si parla? Come dividere quelle fisiche da quelle mentali? Come descrivere le operazioni mentali?
Qui l'argomentazione di Bridgman si ferma anche perché non è detto che sia insufficiente. Già così com'è, valorizzando la consapevolezza relativa all'operare individuale e sociale, travolge l'ordine delle cose. Per andare oltre – per conferire maggiore consistenza ad una teoria operativa del significato –, occorre un modello dell'attività mentale. E questo modello – neurobiologia alla mano –, va negoziato. Altra fatica, se vogliamo, ma nulla di male in un mondo in cui, fino ad ora, ci si è affidati all'autorità di qualcuno. Non potremo che ottenerne un mondo migliore.

Felice Accame

Nota
Come stanno le cose rappresenta la fase più matura della riflessione metodologica di Bridgman. È stato pubblicato nel 1959, ma la versione italiana, a cura di Dafne Calgaro e Margherita Marcheselli, è disponibile soltanto dal 2012 grazie a Odradek Edizioni. Il volume contiene anche una presentazione al pubblico italiano di Ernst Von Glasersfeld e una mia Postfazione. Con Davide Bigalli e Andrea Scarabelli, il 19 febbraio del 2013, all'Università degli Studi di Milano, ho partecipato ad un seminario sul pensiero di Bridgman. Qui riassumo i punti principali del mio intervento. La logica della fisica moderna, a cura di Vittorio Somenzi, è stato pubblicato da Boringhieri, a Torino nel 1952. Conoscenza ed errore, di Ernst Mach, a cura di Aldo Gargani, è stato pubblicato da Einaudi, a Torino nel 1982.