rivista anarchica
anno 43 n. 380
maggio 2013




Connessioni, possibilità e arricchimento reciproco

a cura di Andrea Staid


Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito in tutto il mondo ad una forte ripresa delle idee e del movimento anarchico e libertario, da Seattle verso la fine degli anni novanta con la creazione di molti movimenti antiglobalizzazione fino ad arrivare ai recenti movimenti occupy, alle rivolte greche e alla seconda ondata più laica e cosciente delle primavere arabe che sta vedendo l'emergere di tanti gruppi libertari in paesi come Marocco, Egitto, Tunisia, Libia e Siria.
Ancora oggi purtroppo anche se questa forte ripresa è sotto gli occhi di tutti ci sono molti intellettuali e storici delle idee che non vivendo la quotidianità e la pratica del conflitto non si rendono conto di quanto sia vivo il movimento libertario e addirittura teorizzano una fine dell'anarchismo o una sua svolta liberale.
Proprio per questa contraddizione nasce la nuova rubrica di antropologia e anarchismo; grazie alla pratica della ricerca etnografica possiamo dotarci di forti e chiari strumenti per analizzare l'avanzare delle idee e delle pratiche libertarie.
Nella ricerca antropologica è fondamentale la ricerca sul campo che costituisce la fonte inesauribile del sapere antropologico. È un'esperienza vissuta dell'alterità culturale dalla quale il ricercatore trae stimoli e informazioni della più varia tipologia: storie, miti, classi, genealogie, sistemi terminologici, classificazioni, osservazioni di comportamenti e di azioni quotidiane o rituali, immagini, suoni, musiche, linguaggi del corpo, parole, documenti scritti, ma anche emozioni, sensazioni, idee.
Tante e diversificate sono infatti le espressioni della vita culturale, ciascuna delle quali pone al ricercatore problemi ben precisi da affrontare con strumenti idonei di raccolta e di analisi.
Con uno sguardo attento sulla contemporaneità possiamo intercettare molti fenomeni di resistenza e creatività culturale che sfuggono alla maggior parte degli studiosi di scienze sociali che non utilizzano la pratica etnografica.
Quello che questo piccolo spazio di riflessione ospitato nelle pagine di A rivista vuole fare è spronare gli intellettuali che si ritengono libertari a uscire una volta per tutte dalla torre d'avorio dell'osservazione e a scendere nelle strade per vivere le lotte, capirle concretamente e soprattutto cominciare ad avere un osservazione veramente partecipante per far sì che gli intellettuali esplorino la relazione tra ricerca e resistenza. Niente di nuovo del resto questo approccio è in perfetta sintonia con quello che è uno dei postulati fondamentali del pensiero libertario ovvero: pensiero e azione.
In un mondo dove le lotte globali stanno rifiutando posizioni di avanguardia e pratiche autoritarie, che senso può avere (se mai lo ha avuto) l'idea dell'intellettuale distaccato, che osserva o legge su i giornali quello che succede nelle piazze, nelle strade e nei quartieri.
Sono convinto che i ricercatori non incorporati nella fabbrica della cultura dominante devono rimboccarsi le maniche, partecipare, osservare e sostenere per riuscire a produrre delle analisi e degli strumenti utili al cambiamento sociale in senso libertario.
Le idee anarchiche e soprattutto le pratiche stanno esplodendo in tutto il mondo, i principi anarchici si diffondono in migliaia di gruppi che non si dichiarano anarchici, l'autonomia, l'autogestione, il mutuo appoggio, l'antimilitarismo, la democrazia diretta giocano un ruolo fondamentale nei movimenti radicali di ogni tipo, “anche chi non si considera anarchico fa ricorso a idee anarchiche e si definisce in relazione a queste”. (D.Graeber, Frammenti di antropologia anarchica, pag 7)

Salvador, Bahia, 2 luglio 2009
“Pau Brasil: sull'amore e la violenza”

Antropologia e anarchismo storia del pensiero e contemporaneità

Da Peter Kropotkin fino a Pierre Clastres, passando per Marcel Mauss o Radcliffe-Brown, un enigmatico vincolo ha legato l'anarchismo e l'antropologia. Oggi, dentro lo sforzo per difendere antropologie non-egemoniche sta emergendo una specie di antropologia anarchica, più nel mondo anglosassone che in Italia ma anche nel nostro paese qualcosa si sta muovendo.
Si possono leggere tante piccole ricerche sulle lotte territoriali, in primis i vari scritti sulla valle che resiste in modo autonomo ed eterogeneo alla militarizzazione del territorio e a progetti di distruzione della natura calati dall'alto, c'è un vero e proprio disconoscimento dello stato e una riscoperta del senso di comunità, autogestione e azione diretta, sto parlando della Val di Susa (varie e interessanti riflessioni sulla rivista Nunatak e su A).
Fondamentali i recenti studi dell'antropologo libertario Stefano Boni (Vivere senza padroni, Culture e poteri) che in un'intervista fatta per A alla domanda sulle possibili connessioni tra anarchismo e antropologia mi aveva risposto: “Antropologia e anarchismo si nutrono a vicenda. Da un lato l'antropologia documenta contesti in cui vengono radicalmente sovvertiti i canoni che oggi ci vengono presentati come normali e inevitabili – l'autorità dello Stato, la tecnologizzazione dell'esistenza, la passività della cittadinanza, la realizzazione nel consumo. L'esperienza antropologica di estraniamento suscitata dalla conoscenza approfondita di circuiti culturali che propongono verità distanti da quelle in cui si è cresciuti, apre enormi possibilità per ripensarsi.
Lo studio dei movimenti sociali che si dispiegano nel mondo, ad esempio, offre spunti importanti sulle varietà di forme, sugli strumenti di lotta, sulle possibilità e sulle insidie delle mobilitazioni popolari. Dall'altro lato, direi che l'anarchia diventa un approdo politico attraente per chi, de-costruite le auto-legittimazioni di chi accentra potere, crede in un mondo di eguali, realizzato coerentemente mediante la salvaguardia della diversità e dell'autonomia individuale.”(A Rivista, anno 41 n. 361)
Importante la recente pubblicazione curata da Adriano Favole per Elèuthera dal titolo Antropologia non egemonica che cerca di chiarire le possibilità di una pratica di ricerca autonoma e libera dalle egemonie accademiche, il tutto a partire da un'analisi dei poteri e dei saperi egemonici che attraversano e ingabbiano le società. L'antropologia non egemonica si propone come strumento in grado di intercettare i molteplici fenomeni di resistenza e creatività culturale che si sottraggono a quei poteri e saperi, mettendoli in discussione.
Anche in Spagna si sta muovendo qualcosa da questo punto di vista con le etnografie dell'anarco-sindacalismo, antologie di scritti di antropologi libertari o con la realizzazione di seminari nelle accademie sulle società senza stato.
Le possibilità di ibridazione tra antropologia e anarchismo sono molte, basti pensare che ormai sono decenni che l'antropologia si sta occupando di decostruire il concetto di dominio e di stato, una delle opere fondamentali su queste tematiche è quella di Pierre Clastre, Le società contro lo stato, ma ce ne sono tante altre che hanno portato alla luce le società di cacciatori e raccoglitori che a differenza di quello che generalmente si pensa non erano degli individui schiavi della natura ma riuscivano a vivere in armonia con essa.
Troppo spesso si parla in testi accademici di una fantomatica economia di sopravvivenza che impedisce un accumulo di scorte tali da garantire, anche solo a breve termine la sopravvivenza del gruppo, si cerca di creare un immagine di un “selvaggio” come un uomo sopraffatto e sottomesso dalla natura, minacciato dalla carestia e perennemente dominato dall'angoscia di procurare a sé e ai propri figli i mezzi per sopravvivere. A partire dai lavori sul campo che studiano gli australiani aborigeni della terra di Arnhem e i Boscimani del Kalahari, Marshall Shalins nel suo L'economia dell'età della pietra, procede a una rigorosa quantificazione dei tempi di lavoro nelle società primitive. Ne emerge che lontano dal trascorrere le loro giornate in una febbrile attività di raccolta e caccia, questi supposti selvaggi, dedicano mediamente alla produzione di cibo non più di cinque ore al giorno, e spesso non più di tre, quattro ore. Una produzione interrotta da frequenti riposi, in più questo tempo lavorativo quotidiano non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo e l'apporto dei bambini e giovani all'attività economica è quasi nullo.
“[...] seguiamo un gruppo di lavoratori Tikopia che escono di casa in una bella mattinata diretti ai campi. Vanno a scavare radici di curcuma, perché è agosto, la stagione in cui si prepara questa pregiata tintura sacra. Il gruppo parte dal villaggio di Matautu, costeggia la spiaggia in direzione di Rofaea e poi penetrando all'interno, comincia a risalire il sentiero [...] Il gruppo è formato da Pa Nukunefu e sua moglie, la loro figlioletta, e tre ragazze più grandi. [...] Il lavoro è semplicissimo Pa Nukunefu e le donne si dividono equamente il lavoro; lui si occupa della maggior parte del lavoro di rimozione della vegetazione e di scavo, loro di parte dello scavo e della piantagione e di quasi tutta la pulitura e la cernita... il lavoro è lento. Di tanto in tanto i membri del gruppo si ritirano in disparte a riposare e a masticare Betel [...] L'intera atmosfera è di lavoro inframmezzato a svago a volontà” (Firth, 1936, in Marshall Shalins, Economia dell'età della pietra).

Atene, 12 gennaio 2013 – Manifestazione per Villa Amalias

Le tesi anarco-antropologiche di Harold Barclay

Quindi un approccio al lavoro anarchico che non prevede la produzione di surplus e che si basa sul muto appoggio e non su un salario.
Gruppi umani come gli Inuit, i Boscimani o gli Hazda sono descritti nelle opere di Lee e Woodburn come circuiti sociali con un basso differenziale di potere, con leadership inesistente o spontanea e rapporti di genere migliori dei vicini che praticano la pastorizia o l'agricoltura. Su questa letteratura negli anni ottanta l'anarchico John Zerzan svilupperà le sue tesi anarco-primitiviste, interessanti critiche alla società del turbo capitalismo ma al tempo stesso deboli da un punto di vista di prospettiva e di ricerca etno-antropologica.
Altro interessante antropologo libertario anglosassone che si è occupato di rapporti tra anarchia e antropologia già nei primi anni ottanta è Harold Barclay, autore di un buon testo mai tradotto in Italia People without a Government: an Anthropology of Anarchy (1982), dove dopo una lunga ricerca sul campo teorizza e ci descrive come esistono e sono esistite comunità umane senza governo e senza stato, di suo possiamo trovare qualche articolo sull'ottima rivista Volontà che purtroppo da anni ha cessato la sua pubblicazione.
Altri autori interessanti sono Ashley Montagu con il suo Buon selvaggio per educare alla non aggressività e James Scott che teorizza dopo aver studiato per molti anni le pratiche delle classi subalterne del sud est asiatico l'arte della resistenza allo stato e al suo dominio, più con camuffamenti dei gruppi subalterni di fronte all'autorità che verso uno scontro diretto con lo stato (Dominio e arte della resistenza, The Art of Not Being Governed: An Anarchist History of Upland Southeast Asia).
Questa carrellata di antropologi libertari è sicuramente incompleta e nei prossimi numeri della rivista cercherò di affrontare altri aspetti e altre possibili connessioni tra antropologia, anarchismo e movimenti sociali, con la convinzione che se la teoria rimane pura astrazione e non si trasforma in pratica è qualcosa di veramente inutile per dei sinceri libertari.

Andrea Staid
andreastaid@gmail.com