rivista anarchica
anno 43 n. 380
maggio 2013





Dove fiorisce il rosmarino

Intervista a Luca Nulchisdi Renzo Sabatini


“Un luogo dove le tensioni sociali esistono. Ma sono temperate dal contatto diretto con la natura e da una profonda moralità che si estrinseca nel rispetto di alcuni valori fondamentali“.
Così Fabrizio De André descriveva la Sardegna.
Luca Nulchis, musicista sardo, fondatore del gruppo Andhira, parla del rapporto profondo del cantautore con questa terra.



Gli Andhira1 nascono da una ricerca che affonda le radici nella musica popolare sarda ma poi va alla ricerca di altro. Lo stesso nome del gruppo ha un preciso significato evocativo. Raccontaci di questo vostro percorso artistico.
“Andhira“ è una parola che ritroviamo in molti testi della tradizione orale della Sardegna. Evoca un concetto di nomadismo, sia in una concezione intima, come condizione interiore dell'essere umano, che in una concezione fisica, come gruppi di esseri umani che si spostano sul territorio. Il senso di questo termine c'è piaciuto come identificazione anche della nostra musica, perché per noi è difficile pensare di catalogare il nostro bagaglio musicale dentro un genere preciso. Perciò abbiamo preso in prestito questo vocabolo per rappresentare la nostra musica. Così nel 2000 è nato il gruppo per realizzare una serie di progetti che in realtà erano in cantiere da tempo.

A un certo punto del vostro percorso c'è l'incontro con le canzoni di De André, da cui nasce: Sotto il vento e le vele, un lavoro discografico molto raffinato e innovativo. Perché questo incontro con l'opera dell'artista genovese?
Si è trattato di un'esperienza molto particolare perché non si tratta di un progetto nato a tavolino. Anzi, vista l'importanza del personaggio è un progetto che ci ha posto di fronte a molte difficoltà. Questo lavoro nasce dall'invito della Fondazione De André a partecipare ad un'iniziativa all'interno del carcere di San Vittore, con le detenute, proprio con lo scopo di portare la poetica di De André all'interno del carcere. Noi all'inizio siamo un po' cascati dalle nuvole perché questo lavoro non era proprio nei nostri programmi e ci siamo chiesti cosa potevamo fare, perché davanti a un artista così non è che puoi cavartela con delle cover. Per questo abbiamo proposto una sorta di incontro virtuale fra noi e lui, utilizzando come filo rosso la Sardegna, perché lui aveva scelto la Sardegna come la terra in cui vivere una parte importante della sua vita. Abbiamo intessuto il progetto su questo legame che ci univa: la Sardegna, terra dove noi siamo nati e che lui aveva scelto. Tanto è vero che alla fine, nell'album, sono presenti pochissimi pezzi suoi, proprio perché non è un tributo ma il tentativo di un incontro su un piano, direi, quasi psicologico, come un incontro virtuale alla ricerca del suo modo di vivere la Sardegna.

E secondo te come l'ha vissuta, De André, la Sardegna?
Secondo noi De André ha vissuto un rapporto particolare con questa terra perché ne ha colto delle sfumature che solo una sensibilità come la sua poteva cogliere, restituendola, tra l'altro, in maniera mai folcloristica o biecamente confezionata. Lui ha amato la Sardegna nel bene e nel male e non ha nascosto né sentenziato mai niente. Il suo sguardo sull'isola è stato molto sottile, nel senso che ha voluto immergersi in questa cultura, non l'ha vissuta da turista, altrimenti si sarebbe comprato direttamente una villa in qualche posto della Costa Smeralda. Questo gli ha permesso di capire a fondo la cultura sarda. Naturalmente si tratta pur sempre di un suo sguardo, della sua angolazione. Però uno sguardo molto acuto, molto sottile, molto corrispondente al sentimento che noi sardi tendiamo ad avere.

Da Zirichiltaggia del 1978 a Disamistade del 1996, c'è molta Sardegna negli ultimi venti anni dell'opera di De André. Come sono queste canzoni che parlano della Sardegna o che a volte parlano nelle lingue della Sardegna?
Anche quando si è avvicinato alle lingue sarde lo ha fatto sempre in modo molto rispettoso, restituendo spaccati di vita, vicende, sentimenti, senza mai trasformare queste canzoni in operazioni posticce, folcloristiche. Per esempio in un brano come Zirichiltaggia non ha approfittato delle facili speculazioni musicali che si possono fare sulla tradizione. Tuttavia la situazione descritta è estremamente tagliente e ci fornisce uno spaccato realistico. Questo lo trovo estremamente rispettoso, anche considerati i tempi di allora, ma anche di adesso, con questa globalizzazione del suono, dove i suoni sono in realtà letteralmente rubati alle rispettive tradizioni.

De André, a parte le canzoni, ha parlato molto della Sardegna, forse più di quanto abbia parlato di Genova. Amava molto la natura ma vedeva anche la predominanza di certi valori, quali il rispetto per gli anziani e per i bambini, che in altre zone riteneva erosi dalla modernità e che in Sardegna vedeva ancora forti. La condividi questa sua visione, ti ci ritrovi?
Sì. Lui ha colto molti aspetti. Penso che abbia avuto modo di elaborare una serie di idee vivendo qui e se avesse avuto la possibilità di vivere più a lungo probabilmente avrebbe sviluppato e approfondito quelle idee. La scelta di vivere in Sardegna è stata determinata da una serie di motivi tra cui quello che si tratta di un luogo dove ancora è possibile, se lo si vuole, ricondursi a delle percezioni che ormai, nelle grandi città o in certi ambienti sociali, sono perdute. Penso che questo gli abbia permesso di cogliere anche i lati più nascosti, se vogliamo anche quelli più contraddittori di quest'isola. Tutto questo senza mai giudicare o sparare sentenze. Tutto quello che ha restituito sulla Sardegna è come una fotografia, o meglio un suo sguardo. E ciò che ha restituito io lo trovo molto veritiero, sempre considerando che si tratta comunque di un suo sguardo, tanto è vero che alcune considerazioni le ha modificate nel corso degli anni, perché ovviamente con il trascorrere del tempo la comprensione che si ha delle cose cambia.

Nell'agosto del 1979 De André e Dori Ghezzi vengono rapiti e tenuti prigionieri per quattro mesi. Fabrizio stabilisce un rapporto con i carcerieri, due pastori, cercando di capirne la psicologia. Alla fine, liberato, dirà che i veri prigionieri erano loro, i due pastori, e offrirà il suo perdono. L'amore di De André per la Sardegna non sembra essere stato scalfito da quell'episodio. Tu cosa ne pensi?
Sì, lui e Dori Ghezzi lo hanno dimostrato in molte occasioni e ho anche avuto modo di constatarlo di persona una volta che siamo andati a Roma per partecipare all'inaugurazione della piazza dedicata a De André2. Il giorno dopo ci siamo visti con Dori per salutarci e Valeria, una delle cantanti degli Andhira, ha avuto una sorta di sbalzo umorale sfogliando un libro che Dori ci aveva regalato, perché aveva visto una particolare fotografia o forse un articolo di giornale e ha esclamato: “ma questo è il sequestro“. Si è subito vergognata di aver tirato fuori davanti a Dori un argomento così doloroso. Ci siamo tutti un po' messi in tensione, invece Dori, dolcissima, con grande sincerità, ha detto a Valeria che quell'episodio era stato fondamentale nella loro vita ed è servito anche a far loro capire quanto amassero la Sardegna; che in qualche modo quell'episodio ha rafforzato una serie di sentimenti e di cose che nel corso del tempo avevano colto di questa terra. Da questa esperienza, per quanto minima, vissuta con Dori in quel momento, ho avuto la sensazione che questa cosa non solo è sempre stata vera nel loro cuore, ma è anche una cosa molto singolare e in qualche modo un insegnamento per chi è capace di leggere queste loro parole.

Come in un film western

Un'idea maturata dopo il rapimento è stata quelle di mettere a confronto la Sardegna e i nativi americani, come culture indigene lontane geograficamente ma vicine per molti aspetti culturali e storici, in particolare per aver subito lo stesso destino di aggressioni imperialistiche, sfruttamento e abbandono. Per noi che viviamo in Australia questo confronto si sarebbe potuto fare con i popoli aborigeni. Tu, da sardo, come hai vissuto questo paragone che ti avvicina ai Cheyenne?
Penso di averlo vissuto un po' come tutti i sardi che hanno amato De André (e siamo in tanti). Ci riconosciamo in questa visione, ma non solo: il modo in cui lui ha restituito questo aspetto rende quell'opera internazionale. Cioè non siamo solo noi sardi che possiamo leggerci nella sua opera. Perché De André descrive una situazione che in realtà è accaduta un po' dappertutto e che ancora continua a succedere. Qui possiamo riallacciarci al discorso sul rapimento, perché anche la condizione del bandito De André è capace di leggerla nell'ottica dell'uomo prigioniero nella propria terra, quindi non identificato come il male ma semmai come vittima di una situazione di oppressione. Questo è un aspetto fondamentale e ci rende anche chiaramente il pensiero di De André sui popoli oppressi.

Ad esempio in Quello che non ho si parla di praterie e il protagonista sembra essere, appunto, un Cheyenne. Ma De André disse che quella canzone rappresentava anche la psicologia dei suoi carcerieri.
Certamente, anche se bisogna tener conto che i suoi testi sono spesso polivalenti, non così espliciti, e sta anche a chi ascolta trarne degli spunti, decidere se il protagonista è appunto un sardo o un indiano. Comunque questo continuo rimando e abbinamento tra la cultura degli indigeni americani e la Sardegna è estremamente valido, lo dico proprio da sardo. C'è stato un momento, alla fine degli anni settanta, in cui in Sardegna ci sentivamo un po' di vivere come se fossimo in un film western e noi eravamo gli indiani, proprio come De André ha colto. Io vengo da un paese del centro della Sardegna che è situato ai piedi del Supramonte, quindi molto rappresentativo delle cose che ci stiamo dicendo. Beh, io ricordo questi altipiani del mio paese dove un po' tutti salivano a cavallo e ci sentivamo davvero un po' indigeni. Da noi venivano spesso anche gli Inti Illimani3 che avevano degli amici nel nostro paese. E ricordo che quando venivano c'era una fortissima solidarietà, perché ci riconoscevamo con quel popolo oppresso in maniera molto forte. Insomma mi pare che De André abbia identificato questa cosa in maniera molto corretta.

Voi avete incluso Disamistade nel vostro lavoro discografico, una canzone che tra l'altro è stata ricantata in inglese dai Walkabouts4. Cosa ci vedi in questo testo, che per un non sardo potrebbe apparire anche un po' misterioso?
Tra i brani di De André Disamistade è forse quello che amo di più e, per tornare al filo del nostro discorso, è un brano che fornisce uno spaccato di uno degli aspetti della società sarda. Si tratta di un brano in cui si sarebbe potuti facilmente scivolare nel folclore, ma De André non l'ha fatto, neanche nella lingua. Infatti il titolo è in sardo ma il brano è in italiano, ma in un italiano che ha un potere così evocativo da permettergli appunto di affrontare questo tema con una traslazione del linguaggio. Assolutamente un capolavoro.

De André ha cantato anche la figura del servo pastore con particolare poeticità. In realtà si tratta di gente particolarmente sfruttata. Secondo te questo Canto del servo pastore rientra in quella che potremmo definire la “poetica degli oppressi“ di De André, cioè la sua determinazione a cantare sempre i più emarginati di una società? Oppure questa figura rappresentata quasi come un sioux al bivacco è un po' troppo romantica?
Forse tutti e due. Come dicevo, spesso c'è questa doppia pista nei testi di De André e ti puoi ritrovare a vivere e assimilare due sentimenti che possono essere anche fra loro contraddittori, e forse anche in questo risiede la magia della sua poesia. Secondo me, insomma, un po' l'uno e un po' l'altro. Cioè da un lato il servo pastore di De André conserva questa sua immagine un po' romantica, quasi bucolica, dove si mette l'accento anche sui dettagli, sui particolari del luogo, sulla contemplazione della natura che lo circonda. Dall'altro è chiaro che torna il discorso che abbiamo fatto prima, perché qui De André racconta una figura emarginata che fa parte di un popolo emarginato e di cui nessun altro ha mai parlato.

Ma queste riflessioni sulla Sardegna fatte da un autore genovese sono state apprezzate dai sardi?
De André è molto amato in Sardegna e non solo da quando lui è scomparso, anche da prima, da sempre. Ci sarà certamente, sia fra gli addetti ai lavori sia fra la gente comune, una parte che non si è mai trovata in sintonia o che non si è riconosciuta in quello che lui ha detto della Sardegna. Però, quello che io ho potuto vedere, girando l'isola, è che lui ha coinvolto la gente proprio sentimentalmente, intimamente, a fondo. Tanto che per la maggior parte dei sardi è stato impossibile non amarlo.

Abbiamo detto che non c'è folclore posticcio nella poetica di De André. Ma che ne pensi dell'uso delle lingue sarde, della metrica, della musica?
È stato un uso molto rispettoso, proprio perché non ha avuto l'intenzione di ricalcare, per esempio, la forma ortodossa della poesia sarda, magari utilizzandola folcloristicamente. Si è trattato di un atteggiamento libero e rispettoso allo stesso tempo. Ha scritto della Sardegna ma non ha fatto dei brani “sardi“ e questo è fondamentale per capire il rispetto che emerge da quella poetica, nei confronti della tradizione sarda.

E fra gli artisti sardi che si dice?
Qualcuno non è mai entrato in sintonia, perché ci sono degli artisti che si identificano magari in un unico genere musicale, in una corrente. Lui invece depistava, faceva scelte controcorrente. Basti pensare all'arrangiamento rock dell'Ave Maria sarda, un brano che appartiene alla tradizione più antica dell'isola. Però direi che più che un disaccordo si sia trattato di una non affinità e più dal punto di vista musicale. Dal punto di vista poetico pochi si azzarderebbero a dare giudizi negativi.

Sul piano politico De André, che si professava anarchico, ha anche appoggiato un certo tipo di separatismo sardo, sottolineandone la diversità rispetto a quello “rozzo e scurrile“ della Lega nord. Questo tipo di scelte rientrava anche nel suo vagheggiare un ritorno a forme di governo più comunitarie, più vicine alla gente. Tu cosa ne pensi?
Frequentare il movimento indipendentista sardo penso che sia stato un modo per capire meglio quali erano le spinte che muovevano i sardi in quel periodo a parlare di indipendenza. Però non credo che si sia trattato di una militanza di tipo politico, visto l'atteggiamento che ha sempre avuto nei confronti dei movimenti politici. Basti pensare che lui ha sempre sostenuto il movimento anarchico ma senza legarsi in modo militante e politico. Questo appoggio al movimento indipendentista sardo per De André ha avuto il significato di riconoscere nel popolo sardo un popolo oppresso alla ricerca di un riscatto.

Gli Andhira - da sinistra: Elena Nulchis, Cristina
Lanzi, Luca Nulchis ed Egiziana Carta
L'umanità del bandito

Questa attenzione di De André verso i popoli oppressi lo ha portato a parlare di rom, palestinesi, indiani e anche di sardi. Ciascuno con la sua peculiarità ma tutti accomunati dal fatto di essere costretti alla marginalità per poter difendere la propria cultura e identità. Tu ti senti in buona compagnia accanto a questi altri popoli?
Assolutamente sì. Ed è un sentimento che condividiamo in molti qui in Sardegna. In qualche modo è come se lui avesse creato una fratellanza fra popoli che magari sono anche molto distanti e di cui noi stessi non sappiamo un granché, dei quali però percepiamo una forte vicinanza, anche se sono situazioni geograficamente distanti. Questa forse per i sardi è stata la cosa più forte e per questo dico che De André qui è molto amato, perché si è creato questo sentimento di condivisione che in tanti sentono.

La canzone Franziska, secondo quanto raccontato da De André, è stata ispirata da racconti dei carcerieri ai tempi del sequestro. A quanto pare i vari banditi come Mesina erano visti dai due pastori come eroi romantici alla stregua di Billy The Kid o, per quanto riguarda l'Australia, Ned Kelly5. Che ne pensi?
È sempre il particolare sguardo di De André sul mondo. Con questo sguardo De André considera il bandito e la sua condizione umana in modo distinto da come lo considerano gli altri: la società ti dice che il bandito è l'uomo malvagio, l'uomo da condannare. Lui invece spulciava nella condizione del bandito per cercare di capire realmente cosa fosse, coglierne l'umanità, senza giudicare e sentenziare. Spesso da queste canzoni ma anche dalle interviste, esce fuori questa sua capacità di comprensione: lui comprende che la situazione degli oppressi contiene anche questi aspetti, per cui si è costretti a darsi a una vita che la società giudica immorale, perché in realtà non ci sono alternative. Non è una scelta ma una condizione alla quale non ci si può sottrarre.

Insomma, questo mosaico di testi, pensieri, canzoni e interviste sulla Sardegna restituisce una immagine della tua terra che condividi?
Non è un'opera omnia, ovviamente, non c'è tutta la Sardegna, però in quello che lui ha restituito mi posso riconoscere ampiamente. Naturalmente lui aveva il suo sguardo particolare, un suo punto di osservazione. Quindi resta un punto di vista personale. Ma vista l'acutezza e la sensibilità del personaggio direi che ci si può fidare. Anche sentimentalmente io, come sardo, mi ritrovo in tutte le tracce della sua ricerca e di come ha restituito l'immagine della Sardegna. Probabilmente avrebbe potuto raccontare anche molte altre cose.

Pensi che questa opera sia servita anche a far cadere qualche pregiudizio sui sardi?
Questo non lo so, perché la gente è tosta da convincere! A noi capita di viaggiare molto, facciamo più concerti fuori che in Sardegna. E devo dire che continuo a trovare mentalità stereotipate nei confronti dei sardi, anche se viviamo nell'epoca della globalizzazione e c'è questo maggiore tentativo di comprendere l'altro e circolano certi messaggi che parlano di uguaglianza. Ma sono falsi, vengono più dalla testa che dal sentimento e quindi certi stereotipi in realtà sopravvivono.

Torniamo in chiusura a parlare degli Andhira. Tu ci hai raccontato, all'inizio della nostra chiacchierata, che avete lavorato su De André quando Dori Ghezzi vi ha coinvolti in questo progetto con le detenute del carcere di San Vittore. Com'è andata quell'esperienza, che tipo di reazione hanno avuto quelle detenute?
A noi non era mai capitato di affrontare una situazione forte di questo tipo e siamo arrivati a San Vittore con mille interrogativi. Quando si parla di certi temi e magari lo si fa attraverso la poesia di De André la commozione è facile e avevamo paura che finissimo tutto in lacrime! Volevamo evitare questo e invece ci siamo cascati in pieno. L'attenzione delle detenute è stata fortissima e si è creata un'energia molto intensa. Siamo arrivati all'ultimo brano, che era il Recitativo, da Tutti morimmo a stento, che avevamo scelto perché è estremamente rappresentativo di quelle tematiche. Quindi immagina: il Recitativo fatto in un luogo di quel tipo, con tutto il significato che si porta appresso, recitato da Lella Costa, che è stata bravissima... insomma, l'abbiamo finita a piangere come vitelli, proprio come non volevamo fare, perché volevamo evitare di ostentare commozione. Invece niente, l'emozione ci ha fregato a tutti! Questo per dire che è stato talmente emozionante il contatto con le detenute che è andato oltre il nostro controllo. La tensione era altissima. Dopo lo spettacolo siamo riusciti anche a stare un po' con loro, nei limiti che ci hanno concesso, quindi qualcuno di noi è riuscito anche a fare due chiacchiere. Per noi era l'esordio e anche simbolicamente lo ricordiamo come una potenza, una cosa difficile da dimenticare.

Se avessi avuto la possibilità di parlare direttamente con De André, magari proprio di queste canzoni che riguardano la tua terra, cosa gli avresti detto?
Piuttosto che parlare dei brani mi sarebbe piaciuto entrare nel discorso più generale della Sardegna, del popolo sardo, degli aspetti psicologici. Avrei avuto timore di parlare dei brani. E poi sarebbe stata bella una cena assieme. Insomma, non vivere solo un'esperienza intellettuale. Ecco, mi sarebbe piaciuto cenare assieme o fare una bella passeggiata nel bosco e una bella chiacchierata, ma non necessariamente una cosa intellettuale.

Vuoi chiudere con un'ultima riflessione?
Ci sarebbero tante altre cose da dire... mi ha fatto piacere parlare di popoli oppressi ma qui in Sardegna ci sono tanti altri argomenti importanti che magari avrei voluto sfiorare, dalle industrie alle servitù militari... ma mi rendo conto che nello spazio di un'intervista non si può parlare di tutto. Però forse potremmo concludere su una nostra scelta di vita che ha un po' a che fare con i temi di questa intervista. Noi abbiamo scelto di vivere fuori dalla città e spesso ci troviamo a ragionare su questo aspetto: cosa ci dà vivere in un luogo che ci fa riscoprire delle cose. Da piccolo una volta sono inciampato su una pietra e sono caduto a terra e così ho scoperto che stando a terra si potevano vedere bene tutti i fiori piccoli gli insetti e le altre cose che stando in piedi non si vedono mai. Questo per dire che ci sono delle situazioni che ci passano sotto gli occhi per tutta la vita e magari non le vediamo mai. Noi abbiamo scelto di vederle e per questo abitiamo in campagna. Questo mi riporta alla scelta di De André di vivere in campagna in Sardegna. Mi rimanda a questo aspetto del suo rapporto molto intimo con il circostante. Lui ricordava che il circostante non sono solo le persone. In noi c'è sempre questo aspetto molto autoreferenziale, pensiamo che il mondo sia fatto solo di esseri umani, invece il mondo è fatto di mille altre cose, di terra, di insetti di fiori... riappropriarsi di questo, riscoprire questo aspetto rappresenta una crescita. C'è chi decide di perdersi queste cose. Noi invece, come De André, abbiamo deciso di non perdercele.

Renzo Sabatini

Note

  1. Gruppo musicale nato nel 2000. Informazioni sulla storia e il lavoro artistico sono reperibili nel profilo Facebook della band.
  2. Inaugurata nel 2002 grazie a un progetto di riqualificazione di uno spazio urbano nel popolare quartiere della Magliana, nella periferia sud occidentale della città.
  3. La band cilena si trovava in tournée in Europa quando, nel settembre 1973, l'esercito cileno, con il sostegno della Cia, scatenò un sanguinoso colpo di stato. Gli Inti Illimani trascorsero i 15 anni del loro esilio in Italia.
  4. Formazione statunitense nata a Seattle nel 1984, la cui musica è basata sull'innesto di elementi folk su una base rock.
  5. Ned Kelly (1854-1880), un Mesina australiano. Kelly si diede alla macchia dopo aver ucciso tre poliziotti in uno scontro a fuoco divenendo un “bushranger“ (nell'inglese australiano, l'equivalente del nostro “brigante“). Riuscì a sfuggire alla caccia con grande destrezza per oltre due anni ma venne infine catturato, condannato e impiccato. Nel folclore australiano Kelly è considerato un eroe popolare e le sue gesta sono raccontate e celebrate in numerose opere.
(Intervista realizzata via telefono nel maggio 2007. Registrata presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In direzione ostinata e contraria“, dedicata ai personaggi delle canzoni di Fabrizio De André).

In direzione ostinata e contraria

Con questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A” di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini e andate in onda in Australia nel programma “In direzione ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna della durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al cantautore genovese.

Se proponiamo questi testi, è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio e poste alla base di una riflessione critica sul mondo e sulla società, con quello sguardo profondo e illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con una profonda sensibilità libertaria e – scusate la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.

Precedenti interviste pubblicate: a Piero Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo (“A” 374, ottobre 2012), Santino “Alexian” Spinelli (“A” 375, novembre 2012)); Paolo Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); Gianni Mungiello, Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 377, febbraio 2013); Giulio Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo 2013); Sandro Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013).

la redazione di “A”