rivista anarchica
anno 43 n. 381
giugno 2013


 

Nemesi medica e canapa terapeutica

Leggendo sul numero 378 (marzo 2013) di “A” l'intervento di Stefano Boni “Autogestione illegale contro la crisi” ho cominciato a pensare a quanto queste riflessioni avessero a che vedere con un libro che ho letto di recente per interesse professionale. Il libro è di Ivan Illich, pubblicato in Italia nel 1977 con il titolo Nemesi medica. L'espropriazione della salute.
La nemesi medica, secondo l'autore, è l'inevitabile ritorno negativo causato dall'istituzionalizzazione della salute, il prezzo che dobbiamo pagare per aver delegato la nostra cura a dei tecnici specializzati, i medici, che da una parte ci hanno affrancato dal dover convivere con il dolore e la paura dell'ignoto (le malattie), ma che al contempo ci hanno privato della libertà di scegliere per noi stessi e per il nostro corpo. Come Illich spiega infatti: “La società ha trasferito ai medici il diritto esclusivo di stabilire che cosa è una malattia, chi è o può diventare malato e cosa occorre fargli”.
La nemesi medica rappresenta gli effetti collaterali che sono connaturati al percorso che la medicina ha compiuto nei secoli: da quando l'uomo si curava da solo, grazie al sapere trasmesso e diffuso nella comunità di appartenenza a quando all'uomo non è stato più permesso mettere becco sui rimedi papabili per ottenere la guarigione. E a questo punto è la stessa medicina a diventare patogena. Ma torniamo un momento indietro.
Da circa un anno mi sto occupando di canapa terapeutica e cioé delle potenzialità mediche della canapa in un paese come il nostro (dove la criminalizzazione di questa pianta raggiunge i più alti livelli nel contesto europeo) e delle vicissitudini che i pazienti italiani sofferenti di sclerosi multipla, epilessia, tumori, Hiv, epatite C, glaucoma, dolori cronici e neuropatici, fibromialgia, sindrome di Chron, sono costretti ad attraversare esclusivamente per esaudire il loro diritto alla salute. Un esempio odierno di nemesi medica potremmo dire: dei pazienti che soffrono vicissitudini per curarsi. Non perché sia la cura stessa che fa soffrire, quel che fa soffrire è la difficoltà di accedere a tale cura.
Per chi non lo sapesse, in Italia esiste una decreto ministeriale del 2007 a firma Livia Turco che permette al paziente di importare canapa attraverso il canale istituzionale: nella maggior parte dei casi viene acquistata dai Paesi Bassi attraverso una ditta, la Bedrocan, che collabora con il Ministero della salute olandese. Allora diremo, tutto bene?
Be', certamente meglio che niente. Il problema però si sfaccetta in due direzioni: da un lato i tempi di attesa burocratica sono lunghi e spesso i pazienti rischiano di rimanere senza farmaco, con un conseguente aggravamento del quadro clinico, dall'altro, l'importazione dall'estero e relative spese di spedizioni sono molto care e quindi molte persone non possono sostenerle. Soluzione? C'è chi si rivolge al mercato nero per un prodotto poco affidabile e spesso di scarsa qualità e chi invece decide di autocoltivare la propria medicina, con costi contenuti e, dopo anni di esperienza (salvo chi è dotato di talento innato e pollice verde) con risultati soddisfacenti. In entrambi i casi però, se scoperti, si rischiano gravi conseguenze penali. In Italia la semplice detenzione di un quantitativo oltre gli 0,5 grammi ricade pregiudizievolemente e per assurdo nella fattispecie di detenzione a fini di spaccio, e fra i due strano ma vero, la situazione processuale diventa più intricata per chi coltiva, senza foraggiare il narco traffico, rispetto a chi lo finanzia. Ma che morale sottosta a tale prassi legislativa? Come è mai possibile che chi finanzia il narcotraffico abbia conseguenze relativamente più lievi di chi coltiva in proprio per il proprio consumo personale (ludico o terapeutico che sia)?
Tornando all'intervento di Stefano Boni, ripropongo i passaggi che mi hanno fatto riflettere: “La drammaticità della fase attuale non è tanto nella decrescita economica, ma nel fatto che siano stati estinti altri canali di sopravvivenza. La nozione di crisi chiede alla società di sacrificarsi per mandare avanti un sistema che, man mano che colonizza spazi, estingue possibilità alternative, presentandosi arrogantemente come l'unico possibile. [...] In certi contesti – penso al Latinoamerica, all'Africa e a certe realtà asiatiche – si è meno dipendenti dai vincoli istituzionali per quanto riguarda la capacità di mantenere una gestione autonoma di importanti ambiti della produzione e del commercio [...] I discorsi politici dipingono una visione del progresso sostanzialmente asettica, ipertecnologica, attentamente monitorata, come ovvie necessità del vivere civilizzato. Spesso questa visione confortevole e rassicurante della realtà è giustificata ulteriormente dalla necessità di garantire, attraverso norme igieniche e di sicurezza, il nostro benessere [...] In Italia ci sono semplicemente molte più regole effettivamente applicate. Si sono, negli ultimi decenni, progressivamente allargati gli ambiti di regolamentazione invasiva attraverso controlli burocratici [...] In altri contesti, le regolamentazioni semplicemente non sono così intrusive, ovvero non vanno a governare nelle minuzie i processi produttivi”.
Noi stiamo proprio parlando di processi produttivi della salute pubblica e individuale. Applicare questi ragionamenti al nostro caso, significa riconoscere un'eccessiva intrusione istituzionale nel settore intimo della nostra salute e del nostro benessere, quando esso ha a che fare con l'accesso alla canapa. Tra l'altro come dice Boni, questa stessa intrusione è giustificata con il fine ultimo del nostro benessere, cioé si afferma che nessun altro al di fuori dei tecnici della salute ha il diritto, per il nostro bene ripeto, di curarci. Un monopolio dal quale noi stessi siamo esclusi.
Per come stanno le cose rispetto all'accesso che lo stato garantisce attualmente alla canapa medica, per il bene dei pazienti capita spesso che si venga lasciati senza continuità terapeutica (tempi burocratici e costi) o, se vengono trovati nel tentativo di produrre, coltivando, la loro medicina, sempre per il loro bene li schiaffano in galera.
Il problema è l'orizzonte entro il quale abbiamo diritto di scegliere. Come si manifesta quest'intrusione istituzionale nel campo dell'accesso medico alla canapa? In questo paese il percorso alternativo di cura con la canapa è, soprattutto per motivi culturali e per lacune informative, ancora molto indietro. La situazione di fatto è quella di centinaia di pazienti, considerando sempre che se la canapa fosse liberalizzata sarebbero probabilmente migliaia, che isolati e dispersi (quando non raggruppati in combattive associazioni) su tutto il territorio nazionale già ne fanno uso, ne beneficiano e vorrebbero che si trovasse una soluzione alla qualità del farmaco e al suo costo. Pazienti che in autonomia, come risposta personale alla propria malattia, sono riusciti a raccogliere sapere diretto, concreto, e che di fatto precorre quello che la ricerca medica applicata conosce in campo di canapa terapeutica, in questo paese ovviamente.
Se la canapa è illegale è di per sé complesso poterne studiare le potenzialità terapeutiche.
Ed è qui che ritorna in gioco il libro di Ivan Illich, perché in questo libro l'autore ci spiega come lo sviluppo del settore sanitario-ospedaliero abbia raggiunto nelle nostre società un'ampiezza tale da non prevedere alcuna forma di terapia esterna allo spettro di quelle proposte e condivise dalla comunità medica nazionale. Ma non solo, anche se la comunità medica internazionale, come infatti è, ha già percorso passi importanti nel riconoscere il valore taumaturgico della canapa, qui da noi l'importante è che non venga accordato al singolo paziente il diritto di produrre da sé la propia medicina.
E qui Illich chiarisce quanto poi sosterrà anche Boni: deve essere il sistema industriale farmaceutico a erogare questo genere di servizi e siccome una pianta e i suoi principi attivi naturali non sono brevettabili e sfruttabili commercialmente nessuno ha il diritto di arrogarsi la potestà di cercare individualmente e senza controllo istituzionale una soluzione al proprio malessere, sia esso una nevrosi, il glaucoma che toglie la vista, una depressione, i tremori, i nervi duri come legno della sclerosi, o il sollievo che la canapa procura a chi è sottoposto alla chemioterapia.
Illich ci dice: “Viene rapidamente maturando il problema politico di stabilire un limite alla cura professionale della salute. [...] la crisi della medicina può permettere al profano di rivendicare efficacemente il proprio controllo sulla percezione, classificazione e decisione sanitaria. [...] La nemesi medica resiste ai rimedi medici. Può essere rovesciata solo con un recupero, da parte dei profani, della volontà di farsi carico di se stessi e attraverso il riconoscimento giuridico, politico e istituzionale di questo diritto si salvaguardarsi, che stabilisce dei confini al monopolio professionale dei medici.”
Non voglio dire ovviamente che i medici siano una casta satanica, tutt'altro. I medici senza dubbio contribuiscono singolarmente nella maggior parte dei casi a rendere la nostra vita più semplice. Quello che però i pazienti chiedono con maggiore insistenza e con il coraggio di rischiare la galera per curarsi e garantirsi una vita il più degna possibile (aspetto al quale al momento lo stato non riesce a provvedere) è che l'istituzione medica non faccia guscio, non sia ritrosa a sperimentare le esperienze sviluppate dai profani – i pazienti stessi –, la loro conoscenza applicata venga valorizzata e non osteggiata, vengano condivisi tramite i canali istituzionali le loro scoperte, si mettano a loro disposizione consulenti botanici, esperti di coltivazione e medici sensibili all'argomento per poter far rete e prendere il pesce grosso che poi non è altro che il riappropriarsi della volontà di decidere per se stessi e per la propria salute.

Fabrizio Dentini
Camogli (Ge)


Prosegue il dibattito su
Libertà senza Rivoluzione”

Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sui numeri successivi sono intervenuti Franco Melandri e Domenico Letizia (“A” 378, marzo), Luciano Lanza e Andrea Papi (“A” 379, aprile), Luigi Corvaglia e Alberto Ciampi (“A” 380, maggio) e ora Marco Cossutta e Salvo Vaccaro. Il prossimo numero(ne) estivo (“A” 382, luglio/settembre) ospiterà gli interventi di Persio Tincani e Fabio Massimo Nicosia.
Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi.



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/7

Marco Cossutta/La responsabilità della scelta

Giampietro Berti offre al lettore un'ulteriore e corposa monografia in tema di anarchismo: Libertà senza rivoluzione. L'anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo.
Lo studio, nel riconoscere “il declino irreversibile del movimento anarchico […] affronta il problema che l'anarchismo si trova a sostenere oggi dopo la fine della prospettiva rivoluzionaria connessa – in qualche modo – alla possibilità di un rovesciamento radicale dell'esistente dovuta alla spinta obiettiva dell'anticapitalismo socialista e proletario. [...] L'anarchismo oggi rappresenta soltanto se stesso” (pp.5-6). Per Berti l'anarchismo classico “ha esaurito il compito di orientare in senso positivo il presente”, ovvero “l'anarchismo passa dal suo essere stato nella storia, ma contro la storia, al suo essere semplicemente fuori dalla storia” (pp.6-7).
Lo sforzo teoretico dell'autore è quello di tentare di “distinguere le valenze universali dell'anarchismo dalla specifica concretezza conferitagli dalla storia del movimento anarchico, vale a dire la specificità relativa al periodo che ha visto l'organica compenetrazione fra l'anarchismo, il pensiero anarchico e il movimento anarchico, compenetrazione riassumibile, appunto, nel mito della rivoluzione” (p.6).
Il problema posto da Berti è anzitutto relativo all'individuazione delle valenze universali dell'anarchismo, necessarie per recuperare la sua radice critica depurata dai riferimenti alla tradizione militante dello stesso, in modo tale da rilanciarlo nella realtà sociale quale approccio filosofico.
Il tentativo di Berti di riconoscere nell'anarchismo l'unico momento di reale critica e, quindi, di alternativa non ideologicamente precostituita alla attuale realtà sociale, è più che condivisibile. Nel legare l'anarchismo alla filosofica Berti pone l'accento sulla tensione a un pensare anarchico, certamente tutto da esperire, che possa costituirsi quale radicale critica dell'esistente. Un pensare autenticamente dialettico, ovvero proteso a ricercare conoscenza (anche politica) attraverso l'inesauribile dire e contraddire.
Se l'idea di un anarchismo quale coscienza critica della modernità accomuna gli intenti di Berti a quelli di chi scrive, ciò non di meno su altri temi si apre una forte divergenza di vedute, di cui in altra sede si darà conto.
Si può fare brevemente cenno a come Berti ritiene l'anarchismo il momento di massima espansione-espressione della modernità e lo riconduce ad una sorta di estremizzazione del liberalismo, assumendo quali canoni dell'anarchismo i postulati teorici dello stesso liberalismo: dalla presupposizione di un individuo sregolato e in quanto tale libero, alla necessità di un momento regolatore dello stesso, che il liberalismo individua come noto nel male necessario rappresentato dello stato (nella sua auspicabile versione di stato minimo). La sua rappresentazione della libertà quale assoluta sregolatezza (“pura decisione”) lo porta a offuscare un'idea di libertà, che io ritengo propria all'anarchismo, quale responsabilità e scelta (ovvero autonomia), che può esplicarsi soltanto all'interno di una comunità di esseri umani liberi, non nella sregolata solitudine dell'individuo.
Non può essere condivisa l'affermazione che “l'anarchismo classico non ha modo di giustificare la limitazione della libertà del singolo, se questa libertà si svolge ‘fra adulti e consenzienti'”(p.305), in vero coerente con la definizione di libertà proposta quale “pura decisione”.
Tale impostazione risulta certamente appropriata per il liberalismo, ma è fuorviante per l'anarchismo, il quale, presupponendo la libertà legata all'autonomia, si costituisce intorno al radicale rifiuto della sregolatezza. L'anarchismo giustifica la limitazione – ovvero la repressione – di ogni pulsione che lede il principio di autonomia, che tende cioè a confondere la libertà con la sregolatezza. Qui non si tratta di limitare la libertà in nome di altri valori (quali l'uguaglianza o la solidarietà), si tratta anzitutto d'affermare come per l'anarchismo la libertà è cosa ben diversa dalla sregolatezza; se la libertà come autonomia non può risultare limitata pena l'affermarsi del dispotismo, la sregolatezza non ritrova asilo in una prospettiva anarchica.
La libertà per l'anarchismo, inscindibile dall'uguaglianza, si concretizza nella responsabilità della scelta, non in pura decisione determinata dalle momentanee passioni del soggetto volente. Ciò è valido per il liberalismo, che non potendo concepire la libertà come autonomia, né lasciare il tutto in balia delle passioni, attraverso questa rappresentazione della libertà legittima lo stato, macchina di controllo sociale, che impone eteronomamente comportamenti da imporsi con forza irresistibile.
Se l'anarchismo cade in questa trappola teorica non solo perde ogni precipuità teoretica, ma anche, rappresentandosi come momento estremo di un liberalismo fautore di libertà selvagge, giustifica di fatto la costruzione politica assolutistica moderna, dato che rende necessaria la presenza regolatrice del Gran Leviatano, unica entità capace di garantire controllo e pace sociale in assenza di propensione alla regolarità e alla autonomia da parte dei consociati (i quali null'altro sarebbero, in assenza del sovrano, che una moltitudine disaggregata incapace, cioè, di regolamentarsi).
Legare l'anarchismo alla prospettiva politica moderna e segnatamente al liberalismo appare esiziale per una sua rilettura in chiave filosofica, i suoi valori fondanti vanno ricercati in altre (e genuine) prospettive politiche, poiché, modificando una preposizione articolata in un passo di Berti, “l'anarchismo va ripensato come quel pensiero che può costituire realmente una delle grandi alternativa politiche alla modernità” (p.357).

Marco Cossutta



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/8

Salvo Vaccaro/Risorse etiche e impegno collettivo

Il libro di Nico Berti merita una lettura attenta, non solo per la mole dell'impegno intellettuale profuso, non solo per la vastità di riflessioni contenute, ma anche perché analizza e tocca temi e problemi che stanno a cuore a tutti coloro ancora in cerca di prospettive di liberazione e di libertà. Difficile farlo in qualche migliaio di battute, ma confido che la sintesi rispecchi il mio approccio alle idee che Berti enuncia con grande enfasi.
Pur depurando dall'aggettivo irreversibile quel declino del movimento anarchico annunciato da Berti proprio in una fase storica in cui la metodologia anarchica e libertaria viene presa in prestito e adoperata, talvolta anche intelligentemente, da diversi movimenti sociali anche in luoghi di civiltà che ignorano cosa sia il pensiero anarchico nella sua interezza, è indubbio che l'anarchismo e il suo “braccio” politico non stiano al centro delle preoccupazioni della maggioranza delle popolazioni del nostro pianeta. E non per vocazione minoritaria dell'anarchismo, quanto perché le sue categorie affondano in un panorama concettuale e immaginario tipico di un occidente moderno uscito dai Lumi che oggi annaspa in un mondo così accelerato quanto a trasformazioni di ogni genere registrabili sulla superficie del nostro pianeta.
Che la traiettoria del pensiero e della prassi anarchica zigzaghi in maniera talvolta confusa è effetto di uno spaesamento generale, a prescindere dai colpi della crisi economica che incute paura nel nostro spicchio di mondo privilegiato e forse, esso sì, in declino inesorabile. Suscita maggiori dubbi, invece, che questa apparente marginalità dell'anarchismo sia figlia della collocazione alla estrema sinistra dello spettro politico del nostro movimento, che così subisce i contraccolpi della morte del comunismo reale e del fallimento del marxismo quale chiave interpretativa e prognostica delle vicende umane. Berti infatti sottolinea come non abbiamo atteso il biennio 1989-1991 per registrare la fine del comunismo reale, già abbondantemente criticato dagli anarchici e dalle anarchiche in carne e ossa in tempi non sospetti, ossia nel corso della I Internazionale e della rivoluzione dei soviet.
Berti ci invita a spiegare il balbettio del pensiero e della prassi anarchica come effetto di un deficit di attenzione verso i veri vincitori dell'era moderna, ossia il liberalismo e la democrazia, coniugatesi con il trionfo del capitalismo del libero mercato incardinato sull'individualismo proprietario emerso con le appropriazioni violente delle enclosures e glorificato da Locke. È vero che il problema dell'anarchismo è sempre stato legato alla credibilità condivisa del suo rapporto con il politico e con la dimensione dell'assenza di potere e di dominio negli aspetti organizzativi della società. Ma che a ciò possa contribuire una accettazione dei principi cardinali del liberalismo, della democrazia e del capitalismo mi sembra del tutto fuorviante, meglio, molto al di sotto dei problemi posti da Berti stesso.
La sua analisi, tanto più energica e senza appello nei confronti del comunismo e del marxismo, quanto più simpatetica e debole nei confronti del liberalismo e del capitalismo, ignora i vizi genealogici sia dell'idea del liberalismo, che dissimula la carica di violenza discriminatoria avversa i nativi e i deportati afro-americani, sia del capitalismo, sotto la cui etichetta raccoglie indistintamente le varie versioni di capitalismo di mercato, senza cogliere anche qui la violenza dell'accumulazione originaria, la asimmetria costitutiva nei rapporti di libero scambio, il braccio politico dell'imperialismo genocidario prima, e dell'egemonia a stelle e strisce con il dollaro moneta universale e le portaerei con i droni poi.
Imperniare il rilancio del pensiero e della prassi anarchica sull'individualismo elude tutta la tematica mossa dal pensiero femminile che ricorda come il due, e non l'Uno, sia il numero base delle civiltà ovunque esse si trovino, trascesa a livello delle categorie del pensiero, anche politico, laddove la statualità territoriale è divenuta la cifra universale del dominio politico dell'Unità, trovando nell'io cartesiano, dotato di diritti da Locke, quel perno in cui si smarrisce la contestualità storica, ambientale, di genere che astrae la carne viva dell'umanità per farne, appunto, atomo indiviso. Su questo punto, non a caso sottolineato da diverse prospettive nel pensiero contemporaneo presso cui chi scrive cerca risorse concettuali per destrutturare la grammatica della nostra esistenza e aprirla verso altri orizzonti di vita, la distanza con il rifiuto di Berti di analizzare criticamente le innovazioni teoriche non riconoscendole tali è massima, anche senza prendersi la briga di orientarsi tra post-moderno, post-strutturalismo, post-anarchismo e via dicendo.
In ultima analisi, la proposta di Nico di tematizzare il rapporto tra anarchismo e democrazia è lasciata nel vago, e tutto può ricomprendersi in questo spazio vuoto: dall'autogoverno municipalista all'integrazione nelle diverse arene parlamentari e rappresentative. Anche qua, senza un minimo di chiarezza, il rischio di fare arretramenti rispetto al consolidato della teoria e della pratica è forte, mentre occorrerebbe a mio avviso riprendere i temi affrontati da Berti in uno spirito radicalmente innovatore, cercando di rintracciare, oltre la partizione del politico operata sulla società, quelle risorse etiche disponibili per sperimentare stili di organizzazione collettiva e forme di produzione e riproduzione della specie, in una co-articolazione de-costruttiva con l'esistente per deformarlo e riformarlo lungo assi inediti.
Un impegno collettivo, non certo del singolo individuo volenteroso e intellettualmente capace, che il movimento libertario e anarchico dovrà assumere oltrepassando il lavoro ultradecennale di Berti, sia pure in una direzione che, forse, non convergerà con quella da lui intrapresa.

Salvo Vaccaro


Non dimenticatevi di astenuti, schede bianche, ecc.

Non ho mai voluto affrontare temi “ideologici” ma soltanto argomenti diretti ad esporre quanto pensavo sugli effetti pratici che ogni posizione istituzionale (partiti, governi, leggi, regolamenti, strutture ecc.) avrebbe praticamente provocato sui cittadini, tutti i cittadini e, soprattutto, delle intenzioni dei promotori e sottoscrittori dei provvedimenti stessi.
E sono stato buono buono ad aspettare che si formasse un governo certo che mi avrebbe fornito l'opportunità di “stangarlo”. Vi ricordate quanto questo giornale ha scritto sull'art. 18, sulle società a r.l. con un euro di capitale (che avrebbe ridato lavoro a tutti i giovani) sulla restituzione dei crediti alle aziende ecc.?
Ma a oggi, aprile 2013, non è successo niente. Non che la cosa sia più grave che se avessero fatto qualcosa, è solamente più avvilente per chi guarda. Si vedono molte persone che si agitano, immerse in un mare in tempesta, senza che nessuno sappia nuotare ma tutti a gridare e a muoversi chi in una direzione chi in un altra senza rendersi conto che più gridano, più si agitano, più velocemente andranno a fondo.
Naturalmente so che in una situazione del genere moltissimi sulla riva sosterranno che bisogna buttarsi a mare e andare a salvarli. (Votare!) Ma chi conosce il mare e chi conosce situazioni del genere sa che, anche a saper nuotare benissimo, se ci si getta a mare per salvarli, l'unico risultato certo che si otterrà è di essere trascinati a fondo insieme a loro che pare sia correttamente quello che pensano i Cinque stelle.
Bando alle ciance, affrontiamo la situazione (sempre dalla riva) per capire insieme che succede e che senso ha ciò che dicono. Poiché tutti cercano e trovano legittimità dalle elezioni. Malgrado io odi le tabelline, riassumiamo, per sommi capi, ciò che le elezioni ci hanno detto:

Elettori
46.900.000
meno
Centro sinistra
10.047.000
 
Centro destra
9.900.000
 
Cinque stelle
8.700.000
 
Monti
3,590.000
 
Altri
1.700.000
 
Totale
33.937.000
 
     
Nulle e astenuti
12.963.000
 

I dati ci dicono che qualunque maggioranza a due si formi, più del 50 per cento degli italiani non sarebbero rappresentati. Ma poiché a qualunque maggioranza a due, si aggregherebbero i montiani, che sanno che da prossime elezioni non vedrebbero un voto, un governo raggiungerebbe, quasi il 50 per cento.
Ma se fosse “democratico” il criterio che guida i “rappresentanti del popolo” l'approccio al problema dovrebbe essere ben diverso, cioè dovrebbe tenere conto che cittadini sono anche coloro che non sono andati a votare o che hanno votato scheda nulla e che sono il partito più numeroso: circa 13 milioni.
E a prescindere dagli astenuti di natura squisitamente anarchica, per dare un senso ai progetti degli altri astenuti non anarchici, un senso, come pretendono, democratico, bisognerebbe che si arrendessero al fatto che gli astenuti sono più vicini, con il loro ribellismo di destra e di sinistra al Movimento 5 stelle che ad altri.
Questa ovvia riflessione avrebbe dovuto imporre al signor Napolitano e al signor Bersani di affidare proprio ai grillini il compito di formare un governo. A questo punto Bersani da minoranza elemosinante un appoggio grillino, e quindi debole perchè alla loro mercé, si sarebbe trasformato in minoranza forte perchè arbitra della maggioranza di governo. E qui entriamo proprio nel ridicolo. Cosa credete che vorranno fare? Come credete che costoro si muoveranno?
Vorranno salvare il mercato! E per salvarlo chiederanno all'Europa i mezzi per farlo. E l'Europa farà finta di dar loro i mezzi, in cambio, però, della eliminazione di ogni diritto dei cittadini. (E perché no di ogni loro risparmio)
L'ho sempre scritto. Non è i soldi che vogliono, i soldi li hanno già. Vogliono che i cittadini non abbiano alcun diritto a cui aggrapparsi. E quelli che gli riesce difficile abolire (per esempio il diritto a rivolgersi ai tribunali) basta intasarli con procedure astruse e costose e non farli lavorare perchè il risultato sia identico.
Forse non rimangono che gli anarchici a voler difendere i diritti naturali dell'uomo e a volersi organizzare (che non è una brutta parola) affinché si sappia e si possa vivere dipendendo dai nostri rapporti umani mettendo insieme e coordinando il lavoro, le capacità e le speranze di ognuno e non dai prodotti da comprare ai prezzi da altri stabiliti (Il mercato?!).

Angelo Tirrito
(Palermo)

Ergastolo/l'ergastolano scrive, il criminologo risponde

Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo, detenuto nel carcere di Padova ha scritto al criminologo Nils Christie dopo aver letto un suo libro e ci ha inoltrato la prima parte del loro scambio epistolare, che qui pubblichiamo.

Gentile professor Nils Christie,
non sono sicuro che riuscirò a farle avere questa lettera, non so se riuscirò a tradurla in inglese e non so neppure se lei mi risponderà, ma ci provo lo stesso perché mi piacciono le imprese impossibili. Innanzitutto mi presento: sono un “uomo ombra”, così si chiamano fra di loro in Italia gli ergastolani ostativi a qualsiasi beneficio penitenziario.
Sono un “cattivo e colpevole per sempre” destinato a morire in carcere se al mio posto in cella non ci metto qualcun altro, perché sono condannato alla “Pena di morte viva”, infatti in Italia una legge prevede che se non parli e non fai condannare qualcun altro al tuo posto, la tua pena non finirà mai e si esclude completamente ogni speranza di reinserimento sociale. Questa condanna è peggiore, più dolorosa e più lunga della pena di morte, perché è una pena di morte al rallentatore, che ti ammazza lasciandoti vivo.
Professor Nils Christie, un amico sconosciuto, (le amicizie con gli sconosciuti sono le più belle), Tommaso Spazzali, che ha fatto la postfazione al suo libro nella versione italiana, mi ha inviato e donato il suo saggio. L'ho letto in un solo giorno e condivido molto i suoi pensieri e tutto quello che ha scritto. Anch'io penso che la mafia e la criminalità organizzata come tutti i poteri nascono dall'alto e non dal popolo e dai poveracci, ma piuttosto dai potenti e dai ricchi. Poi quando lo stato-mafia è in difficoltà, manda in catene le persone che ha usato per raggiungere e mantenere il potere. Spesso in Italia sono proprio i mafiosi che urlano di lottare contro la mafia, per far credere che non sono mafiosi. Lo so, non ho prove per dimostrare queste affermazioni, ma io non sono un giudice (e neppure un criminologo) e non ho bisogno di prove perché non devo condannare nessuno, tento solo di pensarla diversamente da come lo stato-mafia vuole farmi pensare. Non so cosa accade negli altri paesi, ma il carcere in Italia non ti vuole solo togliere la libertà, ti vuole anche possedere. Credo che sia impossibile “rieducare” un uomo che ha commesso un crimine se questo non si sente amato e perdonato dalla società.
Professor Nils Christie, a questo punto lei si domanderà perché le sto scrivendo.
Ebbene, sono tanti anni che lotto contro i mulini a vento, quasi da solo, per l'abolizione dell'ergastolo ostativo in Italia. Leggendo il suo libro mi sono fatto un'idea della sua coscienza sociale e penso che lei non sia d'accordo che una persona possa essere cattiva e colpevole per sempre e murarla viva fino all'ultimo dei suoi giorni, senza neppure la compassione di ucciderla.
Per questo ho pensato di scriverle per chiederle di aiutarmi a fare conoscere all'estero la “Pena di morte viva” che esiste in Italia, unico paese al mondo che se parli esci e se no stai dentro, come nel Medioevo.
Se vuole sapere qualcosa di me e dell'ergastolo ostativo, potrà trovare i miei scritti sul sito www.carmelomusumeci.com, curato dalla figlia che il cuore ha adottato e dal mio angelo (anche i diavoli a volte ne hanno uno).
Le invio un sorriso fra le sbarre

Carmelo Musumeci
Carcere di Padova


Caro Carmelo,
innanzitutto grazie per la tua lettera. L'ho ricevuta in un ottimo inglese. Avrei dovuto rispondere molto tempo fa ma ho avuto dei problemi di salute. Ora sto di nuovo bene e mi preparo per un viaggio in Italia.
Dunque il sistema ostativo mi pare orribile. Non riesco a capire come può essere in accordo con le norme e le regole internazionali. Contatterò degli esperti di diritto internazionale e chiederò, poi cercherò di farti avere la loro risposta. Certamente parlerò di questo durante il mio viaggio in Italia.
Indipendentemente da quanto gli esperti possono dire, io voglio dire da uomo normale che questo sistema, per come l'hai descritto, è in contrasto con le regole dei rapporti che le persone normali hanno. Se capisco bene ciò che dici, il sistema ti chiede di dare informazioni su una altra persona, spesso un amico, per avere dei benefici. Nelle torture delle dittature questo sistema è talvolta usato perché uno denunci un altro. Il sistema di cui ho sentito in Italia è come una tortura.

Nils Christie
Oslo (Norvegia)

Nils Christie (nato nel 1928 a Oslo) è un criminologo e sociologo di fama internazionale.
Dal 1966 è professore di criminologia alla facoltà di legge dell'Università di Oslo. Tra le edizioni italiane dei suoi
libri ricordiamo i due titoli usciti per Elèuthera: Oltre la solitudine e le istituzioni. Comunità per gente fuori
norma
(2001, pp. 144, € 10,33) e Il business penitenziario. La via occidentale al gulag (1996, pp. 208, € 12,39).
Ad aprile Christie è stato in Italia per presentare il suo ultimo libro, Una modica quantità di crimine
(edizioni Colibrì, 2012, pp. 208, € 14,00, prima edizione Routledge, London, 2004).

Con un gabbiano nel cuore

Carcere di Fossano (Cuneo), 23 luglio 1973. Una giornata estiva potenzialmente “tranquilla” trascorse in maniera movimentata, con il sequestro e ferimento di alcuni agenti della polizia penitenziaria da parte di Horst Fantazzini, anarchico nato ad Altenkessel in Germania nel 1939, allora condannato a trent'anni per una serie di rapine con pistole giocattolo, e terminò con un “tiro al bersaglio” di proporzioni inaudite da parte dei cecchini nascosti intorno all'ingresso principale dell'istituto penitenziario; risultato: un cane poliziotto massacrato, un mare di proiettili che crivellarono il corpo di Horst in vari punti nella testa e nel torace. Nel 2000 Horst, nel corso di un'intervista, lamentava di avere ancora due proiettili in corpo. Le ferite furono talmente devastanti da causargli la quasi sordità all'orecchio destro, lesioni e ricostruzioni chirurgiche rimandate nel corso di decenni, che gli furono comunque fatali, perché con molta probabilità furono la causa del suo aneurisma all'aorta dell'addome che gli esplose dentro il 24 dicembre 2001.
Insomma, anche se mai riconosciuto come tale, un altro “morto di stato”.
Dopo tanti anni Horst, che non era mai stato un pentito o un dissociato, ma che riconosceva il valore del pentimento, a patto che fosse unicamente un processo individuale davanti alla propria coscienza, dirà che era dispiaciuto sì per il dolore causato alle famiglie delle guardie, ma che del suo dolore e del dolore della sua famiglia nessuno se ne fece carico e nessuno mai chiese scusa.
Nel 1999 il film di Enzo Monteleone interpretato da Stefano Accorsi, (molto) liberamente tratto da quel fantastico racconto autobiografico Ormai è fatta! Cronaca di una evasione che Horst scrisse in sole 48 ore con una macchina per scrivere e che Giorgio Bertani – coraggioso e appassionato editore veronese, da sempre accanto ai poveri e agli esclusi – raccolse dalle mani di Franca Rame, allora militante di Soccorso rosso, per darlo alle stampe con due prefazioni toccanti, una di Franca Ongaro Basaglia, l'altra di Anna, la moglie di Horst.
Il libro fu distribuito in maniera capillare e difatti fu proprio su una bancarella dell'usato che venne notato e acquistato da Enzo Monteleone.
Sono passati quarant'anni dalla tentata evasione dal carcere di Fossano, oggi Ormai è fatta! si può trovare come oggetto raro in vendita su ebay, si può visionare sul sito www.horstfantazzini.net oppure scaricare dalla biblioteca virtuale Liber Liber, si può leggere in ristampe anastatiche autoprodotte o con le edizioni Nautilus/El Paso del 2003. Milieu edizioni nel 2012, per la collana Banditi senza tempo, ha curato la ristampa più completa e, se me lo consentite, la più appassionante, in quanto la conoscenza diretta di Horst da parte mia – che sono stata la sua ultima compagna – mi ha motivata a tentare di restituirne una immagine completa come uomo e come ribelle anarchico. Contiene non solo Ormai è fatta! ma altri scritti, racconti, lettere, poesie e articoli di Horst Fantazzini (alcuni pubblicati su “A Rivista”), alcune foto e immagini delle sue opere grafiche, più una breve ma dettagliata bio e bibliografia curata da me e una magnifica prefazione di Pino Cacucci. Infatti l'intenzione mia e dell'editore era quella di rinnovare la diffusione di un testo militante che negli anni '70 fu un libro “cult” per la sinistra extraparlamentare; di contestualizzare i testi nel corso degli avvenimenti di quegli anni; e infine cercare di ricostruire, quanto più possibile, un percorso umano anche sentimentale e poetico di Horst. Non si tratta, come dico sempre, di un oggetto finito, ma di un progetto in itinere, così come il sito dedicato alla sua memoria può essere arricchito e ampliato, è un invito alle critiche e ai suggerimenti, ma soprattutto a trovare altro materiale inedito.
Le presentazioni in giro per l'Italia, e presto spero anche in Svizzera, mi danno modo di capire quanto la figura di Horst Fantazzini sia stata da una parte “dimenticata” o per meglio dire rimossa, forse, o accantonata, perché difficile da gestire, ma molto amata principalmente da individui, persone, al di là d'ogni “appartenenza” a movimenti storici. Un amore che oserei dire, anche se non mi piace il termine, “trasversale”, di compagni anarchici e comunisti, ma soprattutto, come torno a dire, di persone. Un amore che va oltre una biografia personale, perché riproporre una figura come quella di Horst significa anche cercare di capire quanto il sistema sia ingiusto, e quanto sia difficile essere davvero uomini e donne liberi. Significa questo, e molto altro.
È un'occasione anche per riparlare dei “grandi vecchi” come Alfonso “Libero” Fantazzini e Maria Zazzi che hanno combattuto armi in pugno contro il fascismo e il nazismo. Per riparlare di resistenza umana alla guerra e alla miseria che aveva il volto dei più umili come la mamma di Horst, l'operaia Bertha Heinz. Per riparlare di carcere, di amore fra le sbarre, di semiprigionia, di diritti umani e di giustizia sociale. Perché la storia di Horst è stata tutta un intrecciarsi con altre storie, amori, vissuti e r/esistenze che hanno riguardato decenni al gabbio, dai vecchi banditi anni '60 ai giovani ribelli, i “bravi ragazzi” (quei ribelli politicizzatisi in carcere, non troppo schierati ma molto fidati e in gamba) fino alle Brigate rosse e alla rarefazione, la disgregazione di quegli anni, (desideri, pulsioni e lotte) con l'eroina che ha distrutto i vissuti di tanti giovani meravigliosi, quasi più della repressione e tortura applicata dagli apparati statali come un fatto “normale”, il male minore di una guerra che vedeva un dispiego di forze terrificante, e che un po' “per forza” (trasferimenti continui e senza preavviso da un carcere all'altro, tortura, pressioni di ogni genere) un po' “per ricatto” affettivo ed esistenziale (con le nuove norme alternative alla cella) riuscì nel suo intento.
Per riparlare, forse di noi oggi. Innamorati della libertà, feriti nell'anima e disillusi. Con sogni che si sono infranti non solo contro muri, ma anche contro lo sfilacciarsi di una solidarietà forte nei rapporti umani e il proporsi continuo di un miliardo di dinamiche avverse. Fino alla crisi economica più recente, che ci mette davanti, in maniera ancor più eclatante che in passato perché evidente con le notizie che viaggiano in rete, agli ingranaggi di un sistema profondamente ingiusto governato da grossi delinquenti e da strozzini legalizzati, che nei muri delle carceri con motti veloci tracciati da una mano galeotta si riassume così: “Ladro piccolo non rubare, che il ladro grosso ti fa arrestare” e un altro dice: “A rubare poco si va in galera, a rubare tanto si fa carriera”.
Durante le presentazioni e grazie a queste, a volte un po' provata da difficoltà ed emozioni a volte troppo forti, ho avuto modo di conoscere persone splendide, compagni (sentite com'è ancora bella questa parola che sa di pane condiviso) anarchici o comunisti, giovani migranti sorridenti che occupano e riabilitano palazzine votate al degrado per farci anche luoghi di cultura metropolitana, studenti universitari – anche liceali che occupano scuole – che non avevano mai sentito parlare di Horst ma che sono quasi ipnotizzati dalle sue parole, ex detenuti, donne ex detenute che si erano ribellate al regime carcerario e per questo sono state punite con la massima severità, militanti vegani che ci preparano buffet liberi dalla crudeltà e amiche di Facebook pronte ad accogliere una lacrima e un sorriso con altrettanta intensità. Insomma, persone che, nelle loro diversità di percorsi, presentano uno spaccato contemporaneo di vita sociale marginale e ancora – scusate il termine di altri tempi – sovversiva, e spesso, nonostante tutto, persino allegra.
Persone che Horst, che era un uomo coraggioso, ironico, dolce, sensibile e profondamente umano nella sua grandezza, nella sua umiltà, nel suo spettacolare rispetto verso il suo interlocutore, avrebbe amato con tutto il cuore e che il suo cuore, che oggi batte un po' anche nel mio petto, continuo a illuminare.

Patrizia “Pralina” Diamante
(Firenze)

Ma io non sono (più) anarco-capitalista

Nel segnalarci il proprio disappunto per la segnalazione del suo libro Il dittatore libertario, nel terzo dossier “Leggere l'anarchismo” (in “A” 379, aprile 2013, pag. 9), Fabio Massimo Nicosia ci ha inviato tra l'altro questa sua precisazione:

C'è stato un periodo della mia esistenza, nella seconda metà degli anni '90, nel quale mi sono definito anarco-capitalista. Per la verità già in passato avevo subito l'influenza dell'anarco-liberismo di Riccardo La Conca, che considerava quella posizione l'unica coerente, in quanto favorevole tanto ai diritti civili, quanto alle libertà economiche. L'unico dubbio manifestato da La Conca era quello della realizzazione dei beni pubblici, che, diceva, nel mercato è soggetta a rischi di frustrazione da free-riding, ossia da soggetti che non contribuiscono alla realizzazione del bene, ma che mirano a usufruirne gratuitamente.
In realtà, io sono convinto che se nel mercato c'è una domanda di bene pubblico, si differenzierà un imprenditore in grado di fornirlo, quindi l'obiezione non mi pare seria, anche perché non sta scritto da nessuna parte che un bene debba essere realizzato.
Il punto è un altro, e cioè che molti attuali anarco-capitalisti non sono affatto favorevoli a una politica dei diritti civili, perché la considerano “statalista”, come nel caso dei matrimoni gay. Piuttosto che ammettere il riconoscimento di queste unioni da parte dello Stato, infatti, essi preferiscono mantenere la discriminazione tra matrimoni etero (che pure sono riconosciuti dallo Stato!) e matrimoni gay, che non meritano di ambire a questo riconoscimento.
Ma c'è un punto più di fondo che mi allontana dall'anarco-capitalismo, almeno per come viene compitato abitualmente, e cioè la crudeltà con cui viene concepito il diritto di proprietà Da un punto di vista teorico, gli anarco-capitalisti considerano la Terra come res nullius, sicchè chiunque se ne appropri non deve nulla agli altri, come invece riteneva Locke, per il quale la Terra era res communis.
Ai primi arrivati tutti i diritti, e gli altri possono finire sul lastrico o morire di fame, considerando costoro parassiti della società in quanto non produttori. Secondo un anarco-capitalista di oggi, l'uscere di un ministero è un parassita, mentre un grande capitalista foraggiato dallo Stato è un degno proprietario, dato che gli anarco-capitalisti non seguono l'indicazione di Rothbard e di Nozick, per i quali i diritti di proprietà vanno verificati nella loro legittimità storica, il che porterebbe alla loro “rettificazione”.
Sì, è vero che in teoria gli anarco-capitalisti riconoscono questo problema, tuttavia è raro che ne traggano conseguenze pratiche.
Per gli anarco-capitalisti, ad esempio, un contratto di lavoro è un contratto come tutti gli altri, in cui una parte presta servizio a un'altra, senza considerare la profonda diseguaglianza tra il datore di lavoro e il lavoratore, di tal che questo dovrebbe poter essere liberamente licenziato e quindi patir la fame e il freddo, o andare a vivere alla Caritas.
Per quanto mi riguarda, invece, col tempo ho maturato la convinzione che, soprattutto in tempi di automazione e robotizzazione delle fabbriche, i soggetti deboli non devono più ambire a un posto di lavoro, che è sempre più difficile da trovare, ma direttamente a un reddito, un reddito di cittadinanza, o meglio una rendita di esistenza, che spetta per il solo fatto di esistere e di essere comproprietario della Terra, sicchè mi sono avvicinato alle posizioni geo-libertarie, ispirate da Henry George. Io ci metto un carico libertario in più, e cioè che la rendita di esistenza è una compensazione che i proprietari fanno ai non proprietari, per la limitazione di libertà che impongono loro, vietando il passaggio e assicurandosi il monopolio della Terra.

Fabio Massimo Nicosia
Milano

Dibattito “Libertà senza Rivoluzione”/Ricordiamoci di Berneri

“O la botte vecchia resisterà al vino nuovo, o il vino nuovo cercherà una botte nuova”: sulla terza di copertina del libro di Nico Berti Libertà senza Rivoluzione io avrei messo questa sentenza di Camillo Berneri, anarchico sui generis come lui stesso si definiva per denunciare la sopportazione con la quale era tollerato da moltissimi compagni. Su di lui esiste una letteratura importante con relativi convegni di studio che tuttavia hanno permesso che il vino nuovo nel frattempo si cercasse una botte nuova.
In verità ci sono anche stati compagni e compagne che in certi momenti recenti, hanno rilevato quanto fosse “ingombrante il fardello della tradizione” oppure quanto fosse ormai fuori luogo il linguaggio relativo al rivoluzionarismo di antica matrice o addirittura necessario un confronto con la democrazia. Berti poi, dopo “l'intervista agli anarchici”, dove denuncia lo stato di subalternità “obbligata” degli anarchicim in questa ultima sua opera invita ad un confronto con la democrazia liberale e questo visti i fallimenti delle precedenti fasi “rivoluzionarie” che hanno visto anche il marxismo soccombere e soccombere oltretutto nella tragedia e nella ignominia.
Sarebbe interessante che, a parte gli inviti scontati ad una generica attualizzazione, si iniziasse a dare qualche indicazione concreta a riguardo di questo auspicabile “confronto” e questo al di fuori delle generiche indicazioni relative a politiche comunaliste che fin qua hanno lasciato il tempo che hanno trovato.
Ho letto interessanti interventi dedicati a questo lavoro di Nico, da Umanità Nova, al Fatto quotidiano e Arivista, ma ho avuto la netta impressione che sia prevalsa una specie di “tasto, pizzico e non ne abuso”, atteggiamento che, oltre al dibattito, non genera altro.
Chiedo scusa ma io non saprei far di meglio e perciò chiedo ai compagni di aiutarmi ad uscire dal vago. Il rispetto dovuto alle opinioni espresse dai nostri maggiori devono passare finalmente al vaglio del presente, certi che “quando dal cileo spariscono le stelle, l'alba è vicina” (Camillo Berneri).

Alfredo Mazzucchelli
Carrara

Botta.../M5s Una posizione banale e scontata

Ciao “A”,
leggo da tempo la rivista online e vi ringrazio per la sua disponibilità online e la nuova impaginazione.
Leggendo gli articoli di apertura di questo mese (“A” 379, aprile 2013) di Maria Matteo e Antonio Cardella sono rimasto stupito e non potevo non scrivervi. La posizione dei due, e quindi di “A”, sulla questione M5s è banale e scontata, scontata come altra buona parte dell'informazione che non capisce o non conosce.
Non chiamatemi grillino, per piacere. L'unico mio ideale è l'uomo libero dalla sottomissione dell'uomo. Ho avuto modo di leggere il blog di Grillo nel tempo e penso che sia uno dei luoghi in cui la tesi anarchica sia più dibattuta anche se non etichettata. Le citazioni e gli interventi di pensatori anarchici nel blog e nel Movimento non mancano come ad esempio una recente copertina del settimanale del blog con un intervento di David Graeber.
Non voglio fare un elenco nè il difensore, ma mi aspettavo da “A” una riflessione e un'analisi più approfondita e pensata. Il fenomeno è accusabile di infinite critiche, ma vorrei far presente che è anche un luogo dove l'anarchismo è discusso.

Michelangelo Marra
duerama@hotmail.it

... e risposta/M5s Ma è un movimento monocratico

Caro Michelangelo,
io capisco che i tempi sono così confusi che indurre in valutazioni non corrette sia sempre possibile e giustificabile.
Preliminarmente, penso che un uomo che tenga alla propria libertà si guarderebbe bene dall'aderire a un Movimento chiaramente monocratico, che rifiuta il confronto ed espelle gli adepti che non ubbidiscono ai diktat del proprio capo. Io non so se in quel Movimento vi siano anarchici. Spero tanto di no, perchè ci sono abbagli che possono essere presi anche da personaggi libertari come Dario Fo, ma difficilmente potrebbero essere motivi di coinvolgimento per chi l'Anarchia la sente sino in fondo e senza alcuna compromissione.
Ti ringrazio per l'attenzione che riservi a ciò che scrivo e mi scuso se troverai questa mia replica molto decisa.
Con affetto

Antonio Cardella

Etnicizzazione del diritto: una riflessione

Con questo contributo, voglio tentare di indagare alcune proposte e novità legislative degli ultimi tempi che introducono delle norme nel diritto chiaramente tese a disciplinare e a vietare dei comportamenti di persone con una determinata origine.
Che il diritto non fosse neutro è stato ampiamente indagato e dimostrato: viene impostato da una determinata classe sociale e su un determinato modello (la persona – l'uomo “medio” quale metro di paragone); è tendenzialmente classista (formato sugli interessi e le condizioni di vita della classe medio-alta) e maschilista (formato sul curriculum vitae degli uomini, lo si vede bene, nonostante i correttivi, ancora nell'ambito delle assicurazioni sociali). Generalmente si tratta di caratteristiche implicite, di cui né i rappresentanti né i rappresentati sono veramente consapevoli, e che sono considerate giuste o inevitabili.
Il fatto di riconoscere delle differenze e di trattare i soggetti di diritto diversamente a seconda di determinate loro caratteristiche non è di per sé negativo. L'uguaglianza, la parità di diritto, ha in effetti due facce: che non vengano fatte distinzioni insostenibili (discriminazioni), ma d'altra parte anche che vengano fatte distinzioni laddove il rifiuto di farle significherebbe assimilazione o renderebbe impossibile accedere a questi diritti: le famose “pari opportunità”.
L'aspetto che ultimamente mi colpisce è che si legifera in chiave etnica: a partire cioè dalla percezione secondo cui delle persone di aspetto diverso, o con abitudini diverse rispetto alla maggioranza costituiscano un gruppo omogeneo e ascrivendo a questi gruppi precise caratteristiche.
Un esempio per esplicitare questo concetto è la votazione sui minareti del 2010, con cui è stato introdotto nella costituzione svizzera il divieto di costruire minareti. Questa norma è stata votata chiaramente in ottica anti-stranieri. Ma hanno sostenuto il sì anche certe cerchie femministe perché l'islam sarebbe particolarmente sessista. Il sessismo viene quindi etnicizzato: la discriminazione delle donne è pensata essere una caratteristica dell'islam, e siccome si è contro la discriminazione delle donne si è contro l'islam (e quindi contro i minareti).
Particolarmente significativa è la nuova norma penale contro le mutilazioni genitali femminili in vigore dal 1.7.2012 su iniziativa della consigliera nazionale socialista Maria Roth-Bernasconi: rende punibile “chiunque mutila gli organi genitali di una persona di sesso femminile, pregiudica considerevolmente e in modo permanente la loro funzione naturale o li danneggia in altro modo” (art. 124 Cps, Codice penale svizzero).
La norma, introdotta per proteggere le donne immigrate e le loro figlie da questa pratica orribile, dimostra bene da un lato il condizionamento culturale del nostro diritto, dall'altro l'ascrizione di determinate caratteristiche a persone provenienti da paesi africani e arabi dove questi interventi vengono praticati.
Il nuovo articolo di legge comporta infatti “dei problemi di delimitazione” particolari rispetto alle cosiddette operazioni genitali cosmetiche, che negli ultimi anni sono considerevolmente aumentate: in pratica, come espone Terre des femmes nel suo “Papier de position sur les Mutilations Génitales Feminines”, “Questi divieti, pensati per proteggere l'integrità fisica delle migranti, pongono dei problemi alla luce del numero crescente di 'donne occidentali' che si sottopongono ad operazioni nella zona genitale per motivi puramente estetici o per aumentare le sensazioni di piacere”. Infatti, la norma non prevede la possibilità per le donne di acconsentire a un intervento sui propri organi genitali che non sia medicalmente indicato, neppure se maggiorenni. Secondo la dottrina, è vero che anche interventi quali piercing, tatuaggi e operazioni estetiche di per sé cadono sotto l'art. 124 Cps, che non distingue tra lesioni gravi e lesioni semplici. Risolve tuttavia il “problema” mediante un'interpretazione teleologica secondo cui il legislatore non voleva far cadere queste pratiche sotto il divieto delle mutilazioni genitali femminili.
Affermazione probabilmente vera, ma è proprio qui il punto: per le donne vittime di mutilazioni genitali nel senso attribuito generalmente a questo concetto, si parte dal presupposto che anche da adulte avrebbero difficoltà di opporvisi a causa della tradizione, della pressione sociale, del grado di integrazione ridotto, della dipendenza finanziaria e dello statuto precario in relazione al titolo di soggiorno. Dall'altra parte, per quanto riguarda piercing, tatuaggi o operazioni di chirurgia estetica (si parla sempre in relazione ad interventi sugli organi genitali femminili), si considera che riguardino unicamente l'integrità fisica e non tocchino altri beni giuridici protetti quali l'integrità sessuale, la dignità e l'autodeterminazione della donna o la protezione di una vita non ancora nata (le mutilazioni genitali più gravi in particolare comportano rischi maggiori di infezioni e complicazioni durante il parto). La conclusione è che trattandosi di lesioni semplici e siccome i motivi sono considerati rispettabili, una donna adulta (che in questo caso è europea), può ed è in grado di acconsentirvi liberamente (o – in altre parole – di opporsi ad un intervento del genere se non lo desidera). Eventuali pressioni culturali e da parte di partner, coniugi, ecc., non vengono neppure discusse.
E naturalmente, per quanto riguarda la circoncisione maschile, nessuno mette in dubbio che un uomo adulto possa acconsentirvi liberamente, neppure chi mette in discussione la legittimità di questi interventi sui minorenni.
Un altro aspetto dell'intera faccenda che mostra bene quanto etnocentrico sia il nostro diritto, è quello legato agli interventi di chirurgia plastica genitale su bambini con caratteri sessuali ambigui: “Tra il 2006 e il 2010, l'assicurazione invalidità (AI) ha rimborsato i costi dei provvedimenti medici previsti in caso di ‘intersessualità' in media per trenta bambini l'anno. Non è noto il numero di interventi chirurgici effettuati, poiché la statistica non riporta il tipo di prestazioni mediche rimborsate dall'AI.” (Risposta del Consiglio federale all'interpellanza parlamentare 12.3920 del 28.09.2012). Ora, si tratta di interventi su minorenni al fine di stabilire chiaramente il sesso, a livello di organi genitali, che possono avere conseguenze gravi per tutta la vita e che finora venivano eseguiti nell'interesse del bambino che nella nostra società sarebbe preferibile crescesse con un sesso ben definito. Pochi mettono in discussione la possibilità per i genitori di acconsentire ad interventi del genere, considerati medicalmente e socialmente indicati nell'interesse del bambino.
Mi chiedo: dove esattamente sta la differenza tra l'intervento chiamato mutilazione genitale sui genitali femminili “per fare una vera donna”, e l'intervento su genitali di un bambino chiamato provvedimento medico in caso di intersessualità per farlo diventare “una vera donna” o “un vero uomo”?
A me paiono altrettanto dolorosi, gravidi di conseguenze e menefreghisti dell'autodeterminazione della vittima.

Rosemarie Weibel
Canton Ticino (Svizzera)

Questo scritto è stato ripreso, con alcuni adattamenti dell'autrice (e tralasciando le note), dal n. 24 (maggio-agosto 2013) del periodico anarchico ticinese Voce libertaria.

Se la sera prima il prof beve tre bicchieri...

Scena: mi trovo nell'aula meeting della mia scuola, il Convitto nazionale Umberto I, ad ascoltare la relazione del medico competente dell'istituto. La signora, una bionda sulla cinquantina, ci spiega che ora, grazie a una delibera della Regione Piemonte, tutti noi lavoratrici e lavoratori della scuola residenti in regione possiamo essere oggetto di controlli a campione con l'etilometro per stabilire il nostro grado di amore per la bottiglia e per il suo contenuto alcolico.
Naturalmente la misura è presa per salvaguardare la salute dei lavoratori alcolisti, per evitare incidenti sul lavoro e per proteggere dalla fiatella a 60 gradi i poveri fanciulli costretti a passare il proprio tempo con tipi poco raccomandabili e forse ubriaconi impenitenti.
La neolingua con la quale conviviamo chiama queste continue invasioni della libertà personale di ognuno “sicurezza”. Sicurezza per l'alcolizzato che potrà essere sospeso dal lavoro (e così senza stipendio si toglierà il vizio), sicurezza per mamma e papà che non consegnano a un seguace di Bacco il proprio creaturo, sicurezza per i figlioli che possono vivere in un mondo perfetto, senza drogati, alcolisti, parolacce (a quando una commissione di controllo che riferisca sulla tendenza al turpiloquio dei maestri?)
Come sempre si parte da un assunto del tutto sensato e logico che prevede che un lavoratore con responsabilità su altre persone non faccia uso sul posto di lavoro di alcol e che non arrivi sullo stesso nel pieno di una bella sbronza, per imporre un peculiare stile di vita a tutti. Non si tratta di fissare un limite al consumo di alcol come succede per il codice della strada che non permette un consumo superiore alle 0,5 unità alcoliche (un bicchiere di vino per intenderci) ai guidatori; qui si tratta di vietare del tutto il consumo di bevande alcoliche a maestri e professori. E si badi, non durante il servizio, ma prima. Se la sera prima in una cena con amici durata un po' più a lungo si è osato bere tre bicchieri di vino, la mattina dopo il solerte controllore lo rileverà con tutte le conseguenze del caso.
Sospensione del servizio, invio presso un ospedale per l'effettuazione di visite di controllo e riammissione a scuola solo dopo la dichiarazione medica della non riscontrata dipendenza da alcol del lavoratore.
Ma quello che ancora più sconcerta è la decisione di colpire nel mucchio prevedendo controlli a campione per non meno di un terzo dei dipendenti della scuola. Insomma come se le utenze telefoniche di un terzo degli italiani a caso venissero ogni anno messe sotto controllo con il pretesto che chiunque, prima o poi, potrebbe commettere un reato.
Con questa legge è stata messa nelle mani dei dirigenti scolastici un'arma di intimidazione di massa assolutamente efficace. Lavoratrici e lavoratori della scuola ritenuti poco affidabili e magari sospetti per opinioni politiche e sindacali possono essere messi sotto controllo, la loro vita rivoltata come un calzino e messa sulla pubblica piazza così come si faceva con i condannati alla berlina. Per non parlare di tutti coloro che si prenderanno lo sfizio di denunciare (anonimamente, nel migliore costume italiano) i colleghi antipatici, coloro ritenuti un problema per la propria carriera, eccetera.
In sintesi, come ogni legge liberticida, un formidabile strumento di controllo, ricatto e vendetta contro i lavoratori meno allineati, e un mezzo di intimidazione per tutti gli altri. La scuola è da tempo nel vortice di un mutamento radicale che deve portarla nuovamente a essere un luogo di docile trasmissione dei saperi ufficiali e delle future glorie dei ducetti della politica italiana. Ovvio che servono mezzi come questi per condurre tutti alla ragione e tutte le pecore all'ovile. A noi dimostrare che le ciambelle non sono destinate tutte a riuscire con un bel buco nel mezzo!

Stefano Capello
Torino




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Luigi Luzzatti (Genova) 20,00; Bruno Gallo (Roletto – To) 10,00; Akberto Ramazzotti (Muggiò – Mb) 20,00; Edo Bodio (Condino – Tn) 9,00; Albino Trucano (Borgiallo – To) 5,00; ricordando P.I. 400,00; Fabio Plaombo (Chieti) 200,00; Ugo Tombesi (Savona) 10,00; Michele Morrone (Rimini) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Sandro Jemoli, 500,00; Patrizia Diamante (Firenze) “ricordando il mio amore Horst”, 40,00; Eugenia (Milano) 10,00; Giorgio Meneguz (Brovello Carpovigno – Vb) 20,00; Alessandro Fico (Godega di Sant'Urbano – Tv) 10,00; Martina Guerrini (Livorno) per contributo numero speciale lingua rom, 20,00. Totale € 1.374,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Associazione Alessandriacolori (Alessandria); Lucilla Dubbini (Ancona); Fabio Palombo (Chieti). Totale € 300,00.