rivista anarchica
anno 43 n. 381
giugno 2013


dibattito

A proposito del reddito di base

del collettivo San Precario e di Cosimo Scarinzi


Un sostegno economico alle persone con un lavoro intermittente o disoccupate. In molti paesi europei c'è e varia da poche centinaia di euro ai 1.200 al mese di Danimarca e Lussenburgo. Utile risorsa o rivendicazione propagandistica?
Il dibattito è aperto.


Se potessi avere 720 euro al mese

del collettivo San Precario

È questa la cifra proposta dal collettivo San Precario per un reddito di base anche in Italia: un 20 per cento in più della soglia di povertà relativa.

Il mondo è cambiato, il lavoro è cambiato, le nostre vite sono cambiate, eppure ancora oggi c'è chi canta “chi non lavora non fa l'amore”. Le forze politiche della sinistra, unite sotto la bandiera della difesa del lavoro, stanno cominciando solo ora a rendersi conto che la battaglia di retroguardia per difendere i diritti acquisiti, come l'articolo 18, anche se è sacrosanta non basta e non è una risposta ai problemi delle generazioni precarie di oggi. Parliamo di milioni di lavoratori che non devono essere licenziati perché è sufficiente non rinnovare il contratto alla sua scadenza, che non hanno accesso alla cassa integrazione, alla maternità, alla malattia, che non hanno ferie pagate e non parliamo della pensione. Di fronte a questo cambiamento, la difesa dell'articolo 18 e del lavoro è una battaglia di retroguardia, dato che protegge i diritti di alcuni ma non li estende ai milioni di persone che fanno parte delle generazioni precarie.
Come noto, oltre il 30 per cento dei lavoratori italiani ha un contratto “atipico” e per quanto riguarda le nuove assunzioni otto su dieci avvengono con un contratto precario. E ancora vorrebbero convincerci che non è successo nulla negli ultimi vent'anni, che tutte possiamo ancora rientrare nel contratto nazionale per legge. Certo, come abbiamo sempre detto bisogna abolire la Legge Biagi e il Collegato lavoro. Ma serve, e subito, una misura universale che copra tutte e tutti: il reddito di base garantito per chi ha perso il lavoro, lo sta cercando, non ha la pensione, si sta formando per poter lavorare, per chi non vuole essere costretto ad accettare un lavoro in nero. Che permetta di sfuggire al ricatto dei lavori più sottopagati, vivere con dignità, e migliorare le proprie condizioni anche lavorative.

Per poter evitare lavori sottopagati o umilianti

Il reddito di base è un sostegno economico alle persone con un lavoro intermittente o disoccupate. Varia da poche centinaia di euro ai 1.200 al mese della Danimarca e del Lussemburgo. Secondo noi in Italia dovrebbe essere almeno di 720 euro al mese (20 per cento in più della soglia di povertà relativa). Oggi ammortizzatori sociali come la cassa integrazione o il sussidio di disoccupazione sono riservati a chi ha perso un lavoro a tempo indeterminato e determinato, il Rbi invece dovrebbe essere dato a tutte le persone che hanno un reddito inferiore ai 720 euro al mese, per esempio ai precari tra un contratto e l'altro, ai disoccupati e ai lavoratori/trici che pur impiegati/e guadagnano salari da fame, inferiori ai 720 euro al mese, in modo incondizionato, ovvero slegato sia dal tipo di contratto precedente che dall'obbligo di accettare qualsiasi impiego proposto o i programmi di inserimento lavorativo.
Attenzione però, quando si sente parlare di reddito di cittadinanza si rischia di fare confusione tra le diverse proposte sul piatto. Alcune non ci piacciono proprio, dato che si riferiscono a un reddito minimo temporaneo, uno strumento di reinserimento al lavoro, a scalare, legato all'obbligo di accettare qualunque attività lavorativa, pena la perdita del diritto di accedere al reddito. Questo è proprio il reddito che non ci piace, perché significherebbe obbligare le persone ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, per non perdere tutto. Il reddito che proponiamo noi deve avere lo spirito opposto: deve permettere ai precari di non accettare qualsiasi lavoro, ma di poter evitare quelli sottopagati o umilianti. Nessuno vorrà più fare lavori pesanti e poco considerati? No, non necessariamente. Ogni prestazione lavorativa ha le sue specificità ed è la sua remunerazione a rendere un lavoro più o meno accettabile e vantaggioso.
La garanzia di reddito, riducendo l'offerta di persone disposte ad accettare lavori mal pagati o alienanti, pone le imprese di fronte a un bivio: pagare meglio chi svolge queste mansioni oppure adottare tecnologie e soluzioni organizzative migliori. Obiezioni simili ci furono al tempo dei dibattiti sulla riduzione dell'orario di lavoro a 8 ore giornaliere; il risultato è stato non solo un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori ma anche una crescita.
Il reddito di base non è assistenzialismo. Oggi si lavora ben al di là del rapporto di lavoro. Il tempo per la formazione e l'aggiornamento, il tempo dedicato alla ricerca di lavoro, il tempo per raggiungere il luogo di lavoro, il tempo di cura e di consumo: tutto produce ricchezza, fa parte dell'attività lavorativa ma grava sulle spalle dei singoli. Inoltre negli ultimi vent'anni le imprese italiane hanno prosperato sfruttando la precarietà, risparmiando sui salari e mantenendo alti i profitti. Altro che assistenzialismo, il reddito minimo sarebbe la restituzione di una piccola parte del maltolto.
Il reddito non annullerebbe le lotte sul luogo di lavoro. Anzi, è una misura di democrazia e che aumenterebbe la capacità delle persone di farsi valere. La garanzia di reddito diminuisce la ricattabilità individuale, la dipendenza, il senso di impotenza di lavoratori e lavoratrici nei confronti delle imprese. Richiedere un reddito minimo è la premessa perché i precari, disoccupati e lavoratori con basso salario possano sviluppare conflitti sui luoghi di lavoro. Oggi il ricatto del licenziamento o di mancato rinnovo del contratto, senza nessun tipo di tutela, è troppo forte. Precari e precarie possono subire ritorsioni anche solo per aver distribuito un volantino sindacale. Il reddito, unito a garanzie contrattuali dignitose e ad un salario minimo, renderebbe tutti meno ricattabili e quindi più forti.
La nostra proposta non nasce solo dal lavoro di giuristi ed esperti di welfare. In questi anni abbiamo risposto a migliaia di richieste di aiuto che giungevano dai luoghi di lavoro più disparati. Inutile dire che anche noi per la maggior parte siamo precari e precarie. Siamo insegnanti, educatori, autotrasportatori, informatici, grafici… Lavoriamo nella moda, nella logistica, nei callcenter, nella ristorazione… Non riceviamo finanziamenti da nessuno e nessuno è stipendiato da noi per fare il politico o il sindacalista, ciò che facciamo lo facciamo con le nostre poche energie e il poco tempo che la precarietà ci concede.
Attraverso i nostri sportelli, i Punti San Precario, abbiamo accumulato una conoscenza profonda della precarietà. Le migliaia e migliaia di persone che si sono avvicinate a noi ci hanno insegnato che qualcosa nei sindacati non funziona più; che per opporsi alla precarietà servono una mentalità nuova e strumenti diversi; e infine che l'impianto su cui si basa l'insieme dei diritti e degli ammortizzatori sociali che dovrebbe “garantirci” fa acqua a da tutte le parti. Ma il primo e il più grande insegnamento è stato: invocare il semplice diritto al lavoro, nell'era della precarizzazione, è come parlare di niente. Negli anni abbiamo capito che ciò che ci viene chiesto di difendere è qualcosa di diverso: il diritto alla scelta del lavoro.

Rompere l'accerchiamento

Lo ripetiamo in breve, un reddito di base che serva a tutto il popolo precario, sul serio, deve avere caratteristiche precise. Non deve essere un sussidio di povertà. Non deve obbligarti ad accettare qualunque lavoro, ma al contrario deve permettere di rifiutare i lavori sottopagati, umilianti e nocivi. In più è necessario fissare un salario minimo orario che impedisca corse al ribasso delle retribuzioni. Questo è un orizzonte che parla a tutti i lavoratori, disoccupati e i precari. Deve essere finanziato dalla fiscalità generale e non dai contributi sociali. Deve essere di cittadinanza in senso universalistico: come qualsiasi misura di welfare deve essere accessibile a tutti coloro che ne maturino il diritto anche se non hanno cittadinanza italiana.
La cricca dei burocrati sindacali e dei politicanti di “sinistra” ride (sempre meno, in verità) delle nostre proposte dicendoci che il reddito non va bene, che il salario minimo orario non serve. Dimenticano però di spiegarci perché negli ultimi trent'anni la forza delle loro organizzazioni e delle loro proposte non è riuscita frenare il declino dei diritti e dei salari. Ma sentiamo già risuonare le critiche: “Con una crisi così che senso ha parlare di scelta? Bisogna accontentarsi”. Al contrario, rivendicare la scelta di un lavoro, significa poter rifiutare un lavoro pessimo, nocivo, umiliante, ma soprattutto un lavoro che non permette di vivere perché sottopagato. Poter rifiutare significa poter lottare per i propri diritti senza rimanere con le spalle al muro.
La richiesta di un reddito garantito nasce da questa contraddizione e serve a uscire dall'accerchiamento fatale creato dalla precarietà. Un accerchiamento che non nasce dal nulla. Lo abbiamo visto all'opera in ogni luogo di lavoro. Posti in cui ci dicono che si sta sulla stessa barca, ma appena questa ondeggia solo alcuni vengono gettati a mare. Il sussidio di disoccupazione copre solo il 25 per cento dei licenziati, la cassa integrazione c'è solo per alcuni, l'articolo 18 copre (male) solo 4 lavoratori su 10. Questa frammentazione è alla base della sconfitta perenne, e spinge le persone al cinismo del “si salvi chi può”. Eppure abbiamo intravisto anche sprazzi di luce, quando la rabbia diventa strategia e la solidarietà dei lavoratori fiorisce al grido “si può vincere”. Per riconquistare diritti e respingere il ricatto bisogna parlare di nuovi diritti universali.

San Precario
Twitter: #infosanprecario
www.precaria.org

Questo articolo è composto in parte da post apparsi sul blog di San Precario su Il Fatto Quotidiano


Un santo davvero precario

Da quasi dieci anni San Precario è il patrono dei precari e delle precarie. San Precario è una creazione precaria, un'espressione libera e indipendente da ogni partito e sindacato. Una delle sue incarnazioni è la Rete San Precario di Milano, che da anni si occupa di diritti e precarietà. Inoltre il santo è presente sul territorio nazionale con i Punti San Precario, sportelli di sostegno legale e comunicativo dove si organizza la cospirazione dei lavoratori contro chi li precarizza.



Ma io avrei qualcosa da dire

di Cosimo Scarinzi

La questione dirimente in campo sociale è la forza. E allora...

Se una domanda può porsi, può pure aver risposta.
Ludwig Wittgenstein, Trattato logico-filosofico, 1922

A fine giugno scadrà la cassa integrazione straordinaria. Invece di spendere quei soldi, e molti altri ancora, per cercare di salvare aziende in difficoltà, bisogna lasciarle fallire serenamente. Così si eviterebbe di buttare soldi inutilmente, e li si potrebbe investire per il reddito di cittadinanza.
Gianroberto Casaleggio

Serve agire là dove anche il governo Monti ha fallito e cioè sulla difesa e il rilancio del sistema industriale italiano, a partire dal futuro delle grandi imprese come la Fiat. Inoltre come giustamente le imprese reclamano il pagamento dei crediti da parte della pubblica amministrazione, così occorre estendere gli strumenti di tutela del lavoro e del reddito iniziando con il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e dei contratti di solidarietà, che garantirebbero un sostegno al reddito alle persone in difficoltà per traghettarle oltre questo periodo di crisi.
Federico Bellono, Segretario Provinciale della Fiom Cgil Torino

La questione del reddito di base o, se si preferisce, di cittadinanza è dibattuta negli ambienti della sinistra sociale e sindacale da molti decenni e non a caso.
Mi avvenne nel 1980 di leggere un interessante ricerca di un centro studi dell’area cattolica del Pci che dimostrava, sulla base di un’accurata valutazione dei costi, che utilizzando le risorse destinate al welfare improprio da parte dei governi di allora sarebbe stato possibile garantire un salario di 500.000 lire al mese ai disoccupati. Se si tiene conto del fatto che, per fare un esempio, io ne guadagnavo 600.000 si può comprendere l’impatto potenziale di una misura del genere.
Riflettendo sulla proposta mi vennero alla mente due obiezioni: smantellare il welfare improprio gestito dal sistema dei partiti come i pensionamenti precoci, le pensioni di invalidità distribuite a pioggia, le assunzioni nel pubblico impiego fatte al fine di ammirare il paesaggio non sarebbe stato facile come poteva apparire agli algidi studiosi cattolico comunisti.
Inoltre in un paese con una quota rilevante di lavoro nero distinguere gli occupati dai disoccupati non sarebbe stato facile e un reddito quale quello prospettato avrebbe con ogni probabilità determinato l’iscrizione in massa alle liste del collocamento di casalinghe e figure consimili con l’effetto di raddoppiare, almeno, il numero ufficiale dei disoccupati.
D’altro canto quella proposta, come quelle che si sono susseguite sulla stessa questione da decenni, rimanda a una domanda che allora apparve importante e tale resta oggi. Mi riferisco al dibattito su “garantiti” e “non garantiti” che caratterizzò il movimento del ’77.
Non si trattava della semplice presa d’atto che una parte crescente dei lavoratori stava fuoriuscendo dalla tradizionale relazione stabile con la pubblica amministrazione e con le aziende ma anche dell’affermazione di una soggettività, che si voleva nuova, di uno strato di giovani proletari refrattari alla disciplina del lavoro e desiderosi di vivere immediatamente uno stile di vita più libero e selvaggio.

Nei decenni seguenti su quest’ordine di problemi si è molto discusso. Sono state prodotte ricerche e proposte di vario genere, a volte si è persino fatto qualcosa.
Le linee di riflessione più interessanti mi sembrano essere innanzitutto quella sul lavoro autonomo di seconda generazione, e cioè sull’apparizione sulla scena sociale di una numerosa platea di lavoratori formalmente autonomi ma in realtà legati all’esternalizzazione di funzioni e attività da parte del sistema delle imprese. Basta a questo proposito pensare ai camionisti padroncini e alle loro mobilitazioni.
In secondo luogo la riflessione sulle necessarie trasformazioni delle vertenze aziendali che devono (dovrebbero?), per essere efficaci, ricomporre la filiera produttiva unificando quanto il capitale divide e cioè tutti i lavoratori che operano a una produzione a prescindere dall’azienda che li assume, dal contratto che è loro applicato, dal fatto se sono dipendenti o “autonomi”.
Infine bisogna riflettere sulla formazione di una nuova classe operaia della logistica, in gran parte immigrata, collocata in una rete di pseudocooperative che lavorano per le grandi aziende e che impongono contratti basati sullo sfruttamento più bestiale e, per sovrammercato, nemmeno li rispettano e che sta sviluppando lotte importanti e radicali.
Innegabilmente un fatto va valutato: se una parte consistente dei lavoratori è collocata in relazioni di lavoro precarie, anomale, individualizzate, come si può immaginare e, soprattutto, praticare un’azione unitaria dell’intera classe che sappia superare l’attuale frammentazione?
Con ogni evidenza la proposta del reddito di base si propone di rispondere a questa domanda, una domanda, mi ripeto, vera e importante.
A questa proposta l’obiezione più immediata che viene in mente non agli “apologeti del lavoro” ma anche a molti militanti sindacali di orientamento libertario è scontata: non si rischia di ratificare la divisione fra un corpo centrale della classe che resterebbe nell’attuale situazione e un segmento della stessa classe, corposo quanto si vuole, la cui sopravvivenza sarebbe legata alla leva fiscale e alla spesa pubblica? In questo caso però vorrei prescindere da questa pur legittima considerazione; in fondo è accettabile la tesi che sul terreno concreto della relazione fra capitale e lavoro l’ottenimento di un reddito quando si è esclusi dal rapporto di lavoro è un’esigenza irrinunciabile dei salariati. Credo sarebbe invece necessario valutare questa rivendicazione dal punto di vista che nella questione sociale è dirimente: quello della forza.

I compagni di San Precario propongono un reddito di base di 720 euro, quelli del SICobas di Torino propongono un reddito di cittadinanza di 1.200 euro.
Sarebbe lecito domandarsi sulla base di quali valutazioni siano state individuate le cifre che si rivendicano: perché non 1.000 o 1.440 (quella che auspicherei io)?
Celie a parte, un fatto mi sembra evidente: si tratta di una rivendicazione di carattere propagandistico, un modo per affermare che la massa di precari, disoccupati, lavoratori in nero ha diritto a una vita decente buttando lì una cifra o un’altra; o si tratta di una rivendicazione effettiva? Assumiamo la seconda ipotesi. Ottenere in una fase recessiva come l’attuale un reddito di base è ipotizzabile a due condizioni. Se settori dell’èlite di potere valutassero che una riorganizzazione del welfare in senso universalistico sarebbe preferibile all’attuale pasticciata situazione che vede mille forme, sempre più ridotte, di sostegno al reddito; oppure se vi fosse una mobilitazione sociale generale in questa direzione, una mobilitazione effettiva che, proprio perché non legata alla singola azienda, al singolo territorio, alla singola categoria non potrebbe che porsi nella forma di un secca perturbazione dell’ordine pubblico.
Ovviamente solo una mobilitazione dal basso molto forte potrebbe permettere un’estensione effettiva dei diritti e non una semplice riorganizzazione dell’attuale sistema di welfare.
Su questo terreno le iniziative e le lotte non mancano ma, a mio avviso, si tratta di mobilitazioni puntuali su specifici obiettivi, condotte dai vari gruppi di precari e disoccupati che tendono piuttosto a porre l’accento sui propri specifici diritti che a porsi come segmento di una classe generale.
È quindi mia opinione che sia necessario essere parte attiva di queste mobilitazioni e operare per un loro coordinamento e generalizzazione ma che non sia opportuno farsi eccessive speranze sulla possibilità che basti una volenterosa attività di orientamento politico sindacale a superare i particolarismi. In questa direzione, ovviamente, dobbiamo operare senza però pensare che bastino i discorsi a realizzare il miracolo.
Resta comunque evidente che solo il dispiegarsi di una forza adeguata può trasformare un discorso suggestivo in una prassi sociale.
Proviamo, a questo punto, a definire con maggiore chiarezza cosa si intende con il termine “forza”. Nell’articolo Affari rischiosi Paul Mattick junior scrive a questo proposito “...i popoli sapranno volgere l’attenzione verso il miglioramento delle proprie condizioni di vita percorrendo strade concrete, immediate che un’economia disgregata esigerà? Sapranno i nuovi milioni di senzacasa guardare alle abitazioni pignorate, vuote, ai beni di consumo invenduti, e alle materie prime alimentari conservate dal governo e provvedere ai propri bisogni vitali? Senza dubbio, come in passato, chiederanno che l’industria o il governo forniscano lavoro, ma appena queste richieste si scontreranno con i limiti economici, forse sarà indispensabile per la gente che le fabbriche, gli uffici, le fattorie e gli altri luoghi di lavoro esistano ancora, anche senza essere gestiti in maniera profittevole, e che possano essere utilizzati al fine di produrre beni di cui la gente ha bisogno. Se non ci fosse lavoro a sufficienza – occupazione pagata, che si lavori per il privato o lo stato – ci sarebbe lavoro in abbondanza se la gente organizzasse la produzione e la distribuzione per se stessa, al di fuori dei limiti dell’economia di mercato” .
Ovviamente Paul Mattick junior fa riferimento a qualcosa che va ben oltre una rivendicazione, per quanto radicale, e cioè l’espropriazione degli espropriatori ma, ragionando del reddito garantito, mi interessa l’indicazione di metodo: solo un’azione diretta, radicale e di massa può porre in discussione l’esistente. Nel suo svilupparsi l’azione diretta rende evidente, e questa evidenza la rende più ampia, efficace, consapevole che la ricchezza sociale reale non corrisponde alla ricchezza capitalistica e che, al contrario, solo la sua liberazione dai vincoli dell’economia mercantile può permettere la soddisfazione dei bisogni umani.
In conclusione, la rivendicazione del reddito garantito può – insisto sul può – svolgere un ruolo utile come rivendicazione dell’unità dei lavoratori e della necessità di obiettivi comuni, il suo grado di efficacia dipende poi dalla prassi effettiva che si sviluppa su questo tema.

Cosimo Scarinzi
coordinatore nazionale Cub Scuola Università Ricerca