rivista anarchica
anno 43 n. 381
giugno 2013


 

Un documentario
sugli arditi del popolo

Fondati nel 1921 per iniziativa di Argo Secondari, ex-tenente dei reparti d'assalto durante la prima guerra mondiale, gli Arditi del popolo furono la prima espressione di resistenza popolare che si oppose con ogni mezzo al neonato squadrismo mussoliniano.
Sconosciuti ai più, rappresentano uno fra gli eventi più salienti di quegli anni al punto che tutte le forze politiche di allora furono costrette a confrontarcisi. Nati in continuità con l'arditismo di trincea, in breve tempo si diffusero in tutta Italia ottenendo l'adesione di migliaia di lavoratori, di varia tendenza politica, che videro il fenomeno come un efficace strumento di opposizione al fascismo.
Da più di dieci anni la storiografia si sta occupando di ricostruire il movimento degli Arditi del popolo e, con questo piccolo lavoro, abbiamo voluto dare il nostro contributo.
L'idea di realizzare un documentario (Siam del popolo gli arditi) nasce infatti proprio dalle presentazioni dei libri alle quali ho avuto modo di assistere e, per l'esattezza, dalla volontà di completare il quadro da esse offerto, utilizzando un mezzo che possa permettere di cogliere meglio il contesto.
Ci è stato possibile sperimentare questo strumento grazie alle basi pratiche e teoriche che ci hanno fornito un corso serale di documentario – presso la scuola di cinema e televisione di Milano – e la complicità dei docenti.
Parma, luglio 1921, barricate in via Nino Bixio

Il documentario ripercorre la breve storia degli Arditi del popolo dalla prima guerra mondiale alle barricate dell'agosto 1922, attraverso le interviste di alcuni degli storici (Eros Francescangeli, William Gambetta e Andrea Staid) che ne hanno ricostruito la vicenda. Mentre con Paolo Finzi, che riporta il contributo anarchico, abbiamo avuto la possibilità di approfondire temi affini all'argomento, come il sostegno alla lotta degli Arditi del popolo da parte di Umanità Nova, che già da poco più di un anno dall'inizio della sua attività era stata violentemente colpita dalle squadracce fasciste.
Quello delle interviste non è il solo linguaggio usato; prendendo a pieno dal repertorio dei documentari, abbiamo deciso di utilizzare diverse tecniche: tramite la messa in scena di Luigi Fabbri, mentre scrive il suo testo la Controrivoluzione preventiva, abbiamo voluto legare all'arditismo popolare una contemporanea analisi del fascismo. I filmati di repertorio, forniti da diversi enti, tra cui la Cineteca di Milano e la Cineteca del Friuli, ci hanno permesso di ricostruire visivamente il contesto storico. Infine, con le riprese da noi effettuate fra tre diverse città, Milano, Parma e Roma, e l'utilizzo delle fotografie dell'epoca, abbiamo ricostruito gli accadimenti che hanno segnato quegli anni permettendo, a voi il compito di giudicare come, di confrontarli con il presente.

Paolo Rasconà
prasco@gmail.com

Titolo:
Siam del popolo gli arditi

Genere: documentario
Durata: 40'
Formato: MiniDV
Audio, montaggio, regia, riprese, soggetto: Andrea Motta, Paolo Rasconà
Prodotto da: Fondazione Milano Scuola di cinema e televisione

 


Quel 15 dicembre
1969

E a finestra c'è la morti. Pinelli: chi c'era quella notte di Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (Zero in condotta Milano 2013, pagg. 166, € 10,00 ) è senza alcun dubbio un libro fondamentale per ricostruire che cosa è successo nella notte del 15 dicembre nella questura di Milano.
Fondamentale perché grazie a un meticoloso lavoro di ricerca sui documenti si può sapere come si sono comportati gli uomini della polizia, dei servizi segreti e alcuni magistrati. E soprattutto, documenti alla mano, viene in piena luce l'attività di informatore del sedicente anarchico Enrico Rovelli. E come questo fosse informatore del commissario Luigi Calabresi, ma soprattutto pedina di Federico Umberto D'Amato, il potente capo dell'ufficio affari riservati del ministero dell'interno.
Sulla notte del 15 dicembre scrivono Fuga e Maltini: “Quello che sorprende e quello di cui per troppo tempo non ci siamo resi conto, è che il tenebroso ufficio, nei giorni della strage di piazza Fontana e della morte di Pinelli, era fisicamente presente nei locali della questura di Milano, con funzionari di alto rango e con un'intera squadra tecnica e informativa, giunti a Milano da Roma già il 13 dicembre. Una presenza davvero occulta: i soli di cui si trova traccia negli atti di allora sono il vicequestore Silvano Russomanno, ma esclusivamente per la vicenda dei vetrini 'trovati' nella borsa inesplosa alla Banca commerciale di Milano, ed Elvio Catenacci – definito allora dai giornalisti 'l'ispettore fantasma' – l'unico ufficialmente inviato 'in missione' per una sedicente inchiesta dal ministero dell'interno, nominalmente direttore dell'Uar, in realtà fantoccio di D'Amato. Molti altri erano presenti, ma nessuno fu mai interrogato nelle due istruttorie dei giudici Giovanni Caizzi e Carlo Amati prima e Gerardo D'Ambrosio poi, effettuate sulla morte di Giuseppe Pinelli. [...] Solo dal 1996, con la scoperta dell'archivio segreto della via Appia e delle carte ivi conservate, sarebbe stato virtualmente possibile scoprire il pesantissimo ruolo avuto da costoro anche nella morte di Pinelli, ma da allora fino ad oggi sul quel ruolo nessun magistrato ha voluto indagare”.
Dalla documentazione, trovata dopo anni di ricerche, emerge chiaramente che la “mente” dell'operazione 12 dicembre va ricercata nell'Ufficio affari riservati che: “furono una struttura 'coperta' ma istituzionale dello stato italiano. I servizi segreti si chiamano così perché sono segreti ai cittadini, non ai vertici e nessuno Stato al mondo consente ai suoi servizi di 'deviare' dai compiti cui sono delegati”.
Che dire? Quando nel 1970 viene pubblicato il libro La strage di Stato frutto dell'inchiesta coordinata da Marco Ligini, militante della sinistra extraparlamentare, e da Edoardo Di Giovanni, avvocato, viene confermata l'intuizione degli anarchici milanesi del Ponte della Ghisolfa che coniano proprio quel termine durante una conferenza stampa del 17 dicembre 1969. E il giornalista del Corriere della sera, Enzo Passanisi, ironizzerà sull'edizione del giorno dopo sulle precise accuse degli anarchici: “Pinelli? Dato che non aveva alcun motivo per uccidersi, a ucciderlo non possono essere stati che i poliziotti” Scrivendo poche righe dopo: “I ragazzi del circolo, sotto lo choc subìto in questi giorni, non si accorgono di spingersi un poco troppo in questo gioco di controaccuse”. Controaccuse che, guarda caso, andavano già nella giusta direzione per quanto riguardava le responsabilità ad alto livello: “Colpevoli che sono coperti dal ministero dell'interno, sul quale sarebbe bene indagare”.
Bene, adesso, con questa mole di documenti, Fuga e Maltini (quest'ultimo presente a quella conferenza stampa) danno solidità a quelle accuse che, come si può leggere in questo “prezioso” libro, non erano campate in aria, ma discendevano da una precisa intuizione.

Luciano Lanza


Pierre Clastres/
I primitivi e lo stato

La società contro lo stato: l'intera produzione intellettuale di Pierre Clastres (1934-1977) può essere condensata in queste poche parole (che costituiscono anche il titolo del suo più importante lavoro, apparso nel 1974). Etnologo e antropologo, specializzato nello studio delle popolazioni indie sudamericane – prima ancora vicino al gruppo/rivista Socialisme ou barbarie (legato in particolare a Cornelius Castoriadis e Claude Lefort) –, la sua prematura scomparsa ci ha lasciato in eredità un'opera e una ricerca che richiederanno valorizzazione e approfondimento adeguati. E L'anarchia selvaggia, uscito di recente per Elèuthera (Milano, 2013, pagg. 120, € 12,00), con introduzione di Roberto Marchionatti, aggiunge un ulteriore, importante tassello nella conoscenza dell'opera di questo autore.
Il volume è formato da quattro saggi fra loro indipendenti. Nel primo (La questione del potere nelle società primitive), dopo aver smitizzato la convinzione (“ingenua convinzione”, sottolinea Clastres) di una supposta supremazia della civiltà europea – con la sua gerarchia di valori – rispetto a qualunque altro sistema sociale, viene mostrato come il potere con tutte le sue dinamiche non sia separato e separabile dalla società primitiva presa nella sua interezza. Non esiste delega: la chefferie (vale a dire l'insieme delle funzioni politiche esercitate dal capo in queste società) disgiunge infatti potere e prestigio; al capo viene attribuito prestigio ma non potere e infatti “nella tribù il capo è sotto sorveglianza: la società vigila per evitare che il gusto del prestigio si trasformi in desiderio di potere”.
Più complesso appare il secondo testo dedicato all'analisi della violenza e della guerra presso i primitivi. Allontanandosi dalle posizioni di Lévi-Strauss secondo cui sussiste un forte legame fra dinamiche di scambio e pratiche di guerra (gli scambi altro non sarebbero se non guerre risolte pacificamente, mentre le guerre manifesterebbero l'esito di transazioni sociali andate male), Clastres esplora altre direzioni. La guerra (o meglio la macchina da guerra per usare un'espressione di Deleuze e Guattari – i quali furono proficui interlocutori con le tesi di Clastres) è al centro dell'essere sociale primitivo; il quale elabora una serie concreta di dispositivi, primo fra tutti quello di tipo bellico, volti a scongiurare proprio la frammentazione della società e il suo assorbimento in un ambito più ampio attraverso la formazione dello stato. La macchina da guerra, come ricordano Deleuze e Guattari, non è definibile e non ha necessariamente a che fare con la guerra; meglio: si correla alla guerra solo quando se ne appropria un apparato statuale; ad esempio: “Non si può certo dire che la disciplina sia la caratteristica della macchina da guerra: la disciplina diviene il carattere indispensabile degli eserciti quando lo stato se ne appropria; ma la macchina da guerra risponde ad altre regole [...] che animano un'indisciplina fondamentale del guerriero, una continua messa in discussione delle gerarchie” (Deleuze e Guattari in Mille piani).
Il terzo contributo che compare nel volume è un appassionato omaggio alla figura di Etienne de La Boétie, un autore assai caro a Clastres (“il Rimbaud del pensiero” lo definisce, sia per la giovane età in cui compose il suo capolavoro che per la radicalità delle idee espresse); un po' come Rousseau lo è stato per Lévi-Strauss. Nel Discorso sulla servitù volontaria Clastres trova anticipati con sorprendente lucidità alcuni dei suoi più pressanti interrogativi, laddove egli mette a confronto le società primitive con le società moderne, divise in classi e sottoposte all'autorità statuale. Perché gli uomini rinunciano alla libertà? Come dare spiegazione dell'amore per il tiranno e della volontà di servirlo? Dove è avvenuto questo malencontre, il malaugurato accidente che ha snaturato e immiserito la natura umana?
Pierre Clastres

L'ultimo scritto (Età della pietra, età dell'abbondanza) transita dall'antropologia politica a quella economica e consiste in un'ulteriore operazione di demitizzazione: quella secondo cui l'economia delle società primitive sarebbe un'economia di sussistenza e di miseria. Ripercorrendo gli studi di Marshall Sahlins viene ribaltata tale tesi, così impregnata di ideologia: quella primitiva è la prima società dell'abbondanza, poiché in essa gli uomini e le donne producono non per accumulare beni e ricchezze ma per soddisfare i propri bisogni (e non quelli che all'uomo contemporaneo occidentale fanno ritenere tali). Non basta: le società primitive, nella misura in cui rigettano ogni forma di parcellizzazione, così come rifiutano la politica quando si fa attività separata, rifiutano anche l'economia, sono organismi antieconomici e anti-produttivi. Per cui, ironizza Clastres, coloro che vogliono assegnare a queste popolazioni un'etnologia della miseria non fanno altro che denunciare la miseria della loro etnologia.
Come si sarà inteso è un volume ricco e articolato, questo di Clastres, ma non rivolto esclusivamente alla cerchia degli addetti ai lavori. Anzi: può interessare dappresso chiunque avverta dentro di sé un'emergente insofferenza nei confronti della sopravvivenza imperante e delle norme che la disciplinano. Con le parole dello stessi Clastres: “Non c'è dubbio che solo un'attenta disamina del funzionamento delle società primitive permetterà di chiarire la questione delle origini. E la luce così gettata sul momento della nascita dello stato renderà forse chiare anche le condizioni (realizzabili o no) della sua possibile morte”.

Federico Battistutta


Tav,
una storia fantasy

Ovvero: le avventure di un pacco di caffè da Lisbona a Kiev.
Binario morto (Chiarelettere, Milano, 2013, pp. 203, &euro 12,90), scritto a quattro mani da Luca Rastello e Andrea De Benedetti, è un'inchiesta sull'alta velocità condotta col tono scanzonato di un interrail.
Lo scopo è fare chiarezza sul Tav, sul fantomatico Corridoio 5, la linea ferroviaria che, nei piani dell'Unione europea e secondo la réclame, dovrebbe mettere in contatto l'Europa occidentale e quella orientale, da Lisbona a Kiev. Quale modo migliore per mettere un po' d'ordine che decidere di percorrere di persona tutta la tratta? “Sembra una banalità, visto che se ne parla da 15 anni”, spiega Rastello, “Eppure ci siamo accorti con grande sorpresa che questo viaggio non l'aveva ancora fatto nessuno. E soprattutto nessuna merce”. Così, nella primavera del 2012, i due giornalisti partono, portando con loro un pacco di caffè sottovuoto, scarrozzato e fotografato a ogni tappa come il nano da giardino di Amélie Poulain: prima e probabilmente unica merce realmente trasportata sull'intera tratta.
I due si imbarcano nell'impresa con ostentata ingenuità, con approccio conoscitivo, quasi straniato, più che militante. Si portano dietro i dati ufficiali, le fonti “più accreditate e meno ribelli”, ed è proprio cercando conferme a questi dati che, cozzando con la realtà, riescono a smentirli punto per punto. Una confutazione condotta come una reductio ad absurdum, suffragata da una serie di mirabolanti scoperte. A cominciare dal fatto che il grande progetto concepito negli anni '90, la linea ferroviaria che avrebbe dovuto collegare il Portogallo all'Ucraina, è oggi pesantemente ridimensionato. Una nuova partenza ad Algeciras, in Andalusia – la capitale portoghese dà ufficialmente forfait il 21 marzo 2012, pochi giorni prima dell'inizio del viaggio – e un nuovo probabile capolinea nella piccola Miskolc, in Ungheria. Dal Corridoio 5 al Corridoio mediterraneo. E ancora: l'asfalto ungherese; l'alta velocità ucraina, stabile sui 108 km orari; la frattura diplomatica con la Slovenia, a causa della quale, dal dicembre 2011, il collegamento ferroviario Trieste-Lubiana è stato soppresso – o meglio, è ora sostituito da una corriera.
“Abbiamo anche scoperto”, spiega De Benedetti, “che le merci non possono viaggiare ad alta velocità, e noi forse abbiamo ecceduto in alcuni tratti, traspontando il nostro caffè sull'Ave spagnolo a 250 km orari, e il sottovuoto spinto probabilmente ne ha patito... Abbiamo scoperto, anzi ha scoperto, perché il vero protagonista del libro è il caffè, l'alta velocità da bere...”.
Susa (To), 23 marzo 2013, manifestazione No Tav.
Migliaia i partecipanti al corteo che da Susa,
percorrendo ben 8 chilometri, è arrivato fino a Bussoleno

Come in ogni diario di viaggio che si rispetti, i capitoli costituiscono altrettante tappe e sono introdotti, oltre che dal titolo, dall'espediente lettario della “rubrica”: una sorta di sommario che anticipa brevemente ciò che si andrà a leggere. Tipica dei romanzi di viaggio settecenteschi (ma non solo), questa piccola introduzione offre spunti ironici, permette di offrire una chiave di lettura degli avvenimenti e rimanda a un'atmosfera alla Jonathan Swift che ben si addice allo spirito di un viaggio che, attraversando terre più o meno note, si propone di seguire le tracce di una fantomatica creatura che ha ormai del leggendario: l'alta velocità.
Dalla locomotiva che “sembrava un mostro strano” al Tav che si è rivelato un'irraggiungibile chimera. D'altronde gli stessi autori lo definiscono “un libro fantasy, a tratti noir e anche un libro di fantascienza”, e ogni tappa-capitolo, oltre ai numeri, alle informazioni tecniche e alle opinioni degli addetti ai lavori contiene impressioni personali e reminescenze letterarie, come la citazione di Rilke che descrive la città spagnola di Ronda o i toni cupi da fiaba nera che assume la narrazione nel capitolo dedicato alla tratta Modane-Chiusa di San Michele.
Tra tutti i luoghi visitati dal pacco di caffè, infatti, quello più fiabesco è proprio la val di Susa: “Se riesci a non guardare l'autostrada, i cantieri, le industrie, le due statali, la ferrovia e i depositi abbandonati sulle rive asciugate di un torrente, la valle è ancora una quinta da favola, con riserve naturali intatte, paesi dai nomi fiabeschi come Pampalù e Prapontin, angoli difesi con ostinazione da chi ama questa terra”. Questo è il capitolo più amaro, in cui si abbandona per un attimo l'ironia, che per tutto il libro riesce a stemperare le informazioni rigorose strappate agli esperti, per fare una breve digressione e ripercorrere la storia della valle negli ultimi decenni: i campi paramilitari neofascisti di Ordine nuovo, i processi del '98, Sole e Baleno.
Se sul passato però c'è almeno la possibilità di fare chiarezza, ciò che è ignoto per definizione è invece il futuro e in questa “storia di velleità megalomani, ambizioni disattese e ripensamenti tardivi” la questione dell'orizzonte temporale è di enorme importanza.
Nel libro è citato il rapporto sull'analisi costi-benefici dell'Osservatorio Torino-Lione, da cui si apprende che “i lavori cominceranno nel 2014, termineranno (se tutto andrà bene) nel 2035 e inizieranno a produrre benefici nel 2073”. La riflessione sorge spontanea e riguarda la strutturale tendenza delle innovazioni tecniche a diventare obsolete in breve tempo e l'oggettiva difficoltà di fare previsioni economiche a lungo termine. “Sessantun anni non sono un tempo da economisti o banchieri, ma da futurologi, scrittori di fantascienza, astrologi, profeti [...] Nel 2073, per quel che ne sappiamo, le automobili potrebbero essere alimentate a saliva e gli aerei a salsa di soia, sempre che nel frattempo non abbiano già brevettato il teletrasporto”.
Questo ragionamento, che trova concordi i due principali esperti interpellati, il professore spagnolo Germà Bel e l'italiano Sergio Bologna, mette in crisi il motto positivista “non serve ma servirà”, “con cui vengono solitamente liquidati scettici, dubbiosi e misoneisti irriducibili” e che, nell'ambito dei discorsi sul Tav, si accompagna spesso a un altro assioma tecnocratico-patriottico: “L'Europa è già pronta, l'Italia rischia di restare indietro”, smentito puntualmente a ogni tappa del viaggio.
Così come vengono smentite tutte le false contrapposizioni che ruotano intorno al Tav, a cominciare dalla dicotomia progresso-misoneismo, per proseguire con quella che vede fronteggiarsi il profitto e la difesa dell'ambiente, e ancora gli interessi generali con gli interessi particolari. A questo proposito, ammesso e per nulla concesso che i primi debbano prevalere, dall'inchiesta risulta ovvio che per questa come per tante altre “grandi opere” a farla da padrone è l'interesse personale di chi investe nei lavori. E l'utopia marinettiana della velocità come “nuova religione morale”, che impone di “sacrificare i piccoli santuari e i campanili più periferici” non è che vuota propaganda.
“L'idea che i nostri nipoti possano correre ad alta velocità con le loro merci, che non sapremo quali siano”, spiegano gli autori, “confligge con gli scenari che il futuro potrebbe configurare. Per esempio, il direttore dell'autostrada ferroviaria delle Alpi ha ammesso candidamente che con il solo costo della tratta piemontese dell'alta velocità si può cablare con la fibra ottica tutta l'Italia, fino al più remoto paesino”. E forse questo progetto, così economicamente gravoso per l'economia pubblica, è un sogno di futuro che appartiene già al passato, “un'idea di futuro”, dice Rastello, “che fa parte di un sogno industrialista già tramontato da tempo”.

Laura Antonella Carli
“A” e i No Tav
Tre copertine No Tav pubblicate da “A” nei numeri:
A324 (marzo 2007), A368 (febbraio 2012) e A380 (maggio 2013)