rivista anarchica
anno 43 n. 381
giugno 2013


vita sociale

Decomposizione politica all'ombra della finanza

di Andrea Papi


La nostra vita è piena di condizioni in cui non solo siamo obbligati, ma a nostra insaputa veniamo sfruttati, dilapidati, raggirati, usati e, se reticenti, repressi, frastornati, puniti, vituperati. E la finanza non sfugge a questa realtà. Anzi...


Le elezioni di febbraio hanno messo a nudo la crisi endemica della politica istituzionale italiana. Ciò che è successo dopo è emblematico e sintomatico ed evidenzia in modo parossistico i sintomi di un malessere di sostanza non più rinnegabile.
La “spettacolarizzazione” ormai non è solo una metafora discorsiva. L'aggiornamento informativo continuo, proprio per come è fatto e concepito attraverso televisioni e internet, trasforma ciò che avviene in un paradosso: una vera e propria rappresentazione teatrale che crea l'illusione di essere “fruitori/protagonisti”. Ci fa partecipare mostrandoci in diretta i professionisti della politica rappresentanti eletti, interpreti accreditati che si muovono politicamente, mentre tentano di accordarsi, litigano, si prevaricano a vicenda, alla fin fine inseguendo, in un modo o nell'altro, il raggiungimento dell'egemonia nelle diverse situazioni che affrontano.
Ciò che si è determinato sembra veramente rappresentativo dell'impasse che da qualche tempo attanaglia le possibilità di movimento della politica del palazzo. Big e comparse delle forze in campo, sia residue sia nuove, si trovano immobilizzati vicendevolmente dentro un gioco senza scampo. Non riescono a governare come vorrebbero perché il governo non riesce a essere espressione della vera gestione del potere. Non riescono neppure ad essere rappresentativi se non del proprio fallimento, perché l'istituto della rappresentanza sta perdendo progressivamente senso ed efficacia. Così fanno una tremenda fatica a trovare accordi e mediazioni d'intesa necessari per dare un senso alla delega avuta dagli elettori, mentre le collocazioni che contano sono sempre più confuse e la centralità dello stato è momentaneamente inerte.
Lo scenario complessivo che si prospetta, ogni giorno più smaccato ed evidente, è quello di una società che si sta decomponendo. Gli strumenti e le modalità di gestione che si erano affinati nei decenni funzionano sempre meno. I dirigenti non riescono a dirigere con funzionalità e i comandanti a comandare con la dovuta efficacia. Tutto si trascina in un costante aumento progressivo d'inefficienza in ogni ambito. L'unico aspetto buono e interessante, almeno dal punto di vista della libertà, è che lo stesso stato di cose sta dimostrando con efficace spontaneità quanto centralizzazioni e verticalità di gestione siano ingombranti, costose e, data la manifesta imperizia, dannose.

Dimensioni catastrofiche

Già tutto il “sistema mondo” sta mostrando criticità endemiche superabili solo con uno stravolgimento generale dell'impalcatura su cui si regge, a partire dalla “visione del mondo” dominante, impregnata com'è di cesarismi, volontà di accentramento e ansia di accaparramento, oltre ad essere intrisa di un diffusissimo antropocentrismo. Questi aspetti globali, già di per sé terribili, assumono dimensioni catastrofiche nella specificità del nostro sempre più invivibile “belpaese”.
Complessivamente l'insieme sociale italiano vive da decenni una condizione abnorme di endemica inettitudine a gestirsi, compromesso e corrotto a svariati livelli e intrinsecamente incapace di liberarsi di tutta la zavorra accumulata in decenni d'inerzia politica economica e sociale. Ci si è cullati nella fase di travolgente benessere postbellico senza mai volersi aggiornare, senza mai guardarsi con un sano spirito critico autocorrettivo, condannandosi nel tempo a diventare incapaci a rendersi agili quel tanto necessario a rimettersi in moto. Le complicazioni si sono talmente incancrenite che è sempre meno possibile identificare come risolverle.
Il fatto è che la politica è sempre più impreparata a trovare soluzioni soddisfacenti perché i problemi di fondo, quelli che condizionano tutto il resto, non sono specifici locali ma incombono su ogni singolo territorio come una cappa plumbea soffocante e annichilente. Lo stato, sempre meno luogo del potere sovrastante ogni cosa, è ormai sempre più un amministratore territoriale per conto di management sopranazionali e sovrastatali. Ha sempre meno capacità di audeterminazione gestionale “in patria”, mentre è sempre più alla ricerca di accomodamenti in grado di riportare le congiunture locali in linea con le dimensioni del dominio globale. Siccome tutto ciò che riguarda la politica nazionale per decenni è stato impostato secondo la logica di un inesistente stato autosufficiente e tendenzialmente autocratico, oggi gli strumenti a disposizione sono del tutto inadeguati e insufficienti.
I cittadini che votano, invece, sono convinti di contribuire a mettere in moto una macchina efficiente che sappia governarli, nella speranza che l'essere governati possa risolvere i loro problemi. Nessuno sta spiegando loro in modo chiaro che questa logica e queste aspettative non corrispondono più allo stato delle cose, perché il governo nazionale è sempre meno adatto a svolgere i compiti che l'immaginario collettivo, ingenuamente, continua ad assegnargli. Le soluzioni che le genti si aspettano, quelle vere che fanno sentire fuori dai problemi che attanagliano, da tempo non sono più circoscrivibili nell'ambito dello stato nazionale, il quale invece può al massimo dare dritte e direttive che permettano di non precipitare completamente e di sollevarsi.
Clima e condizioni che trasmettono un senso diffuso d'inettitudine e impotenza. Ci sentiamo attanagliati all'interno di una situazione paradossale, dove vige un climax generalizzato in cui si ha la sensazione che nessuno riesca a fare qualcosa di utile, in grado di dare avvio a una modificazione delle cose che abbia senso. Non si ha il coraggio di rifiutare il sistema che ci soprintende e nello stesso tempo si perde la fiducia in coloro cui sono state date le redini in mano. Un attendismo carico d'inquietudine e rabbia, d'impotenza e sfiducia, di attesa e pessimismo radicato. Si aspetta che qualcosa o qualcuno ci salvi. Per questo di volta in volta si continuano ad affidare i propri destini a uomini che siano convincenti, che in realtà ci imboniscono perché suadenti. Per questo ingenuamente si delega a dei leader il compito di salvarci. Anche se la comparazione è possibile solo in senso emblematico, perché sono troppe le differenze tra l'allora e l'oggi, non dobbiamo dimenticarci che anche Mussolini a suo tempo rappresentò qualcosa di simile.
Intanto il panorama della dimensione politica nostrana è desolante. Mentre l'economia nazionale sta procedendo a velocità incontrollata verso lo sfacelo (lo testimoniano i dati ufficiali), con conseguente aumento quotidiano di disoccupazione disperazione e povertà, le forze politiche elette (nessuna esclusa), cui è dato il compito di prendere le decisioni utili alla conduzione delle cose che tutti ci riguardano, si immobilizzano a vicenda incastrate nella “necessità” di approntare ruoli e cariche, senza la cui assegnazione, è scritto, non può funzionare il parlamento, unico luogo deputato ufficialmente a prendere le decisioni che possono diventare esecutive.

Liberiamoci dai vecchi schemi interpretativi

I fatti stanno dimostrando che le istituzioni si sono dotate di dispositivi procedurali pesantissimi, inefficienti e annichilenti. Eppure “lor signori” non possono che passare di lì e soltanto “loro”, è sempre scritto, possono modificarli e renderli confacenti alla bisogna, nonostante che ogni giorno di più si dimostrino inabili a intervenire. Non ce la fanno sia perché invischiati in una miriade di normative e procedure istituzionali, sia soprattutto per le lotte all'ultimo sangue per conquistare fette del misero potere a disposizione, paradossalmente sempre più privo di potere reale. Mi sembra sempre più evidente che i luoghi del cambiamento cui tutti auspichiamo non riescono ad essere il parlamento e le istituzioni vigenti.
L'inarrestabile declino cui stiamo assistendo porta a suggerire un'altra visione delle cose ed altre prospettive. Innanzitutto una prima spontanea considerazione che viene dal profondo del cuore: se gli “eletti” sono così inefficienti perché amalgamati in un devastante magma burocratico, assorbente e invadente, perché non si affida ai cittadini la soluzione dei propri problemi? Avrebbero senz'altro più possibilità di riuscirci, se non altro perché non si sentirebbero schiacciati dai vizi e dalle lentezze burocratico/giuridiche tipiche del politicantismo. Non si sentirebbero obbligati a dover sottostare ai molti sovrastanti condizionamenti, che ci sono a priori e a prescindere, che oggettivamente limitano l'operato dei professionisti della politica. Soprattutto prenderebbero direttamente decisioni autonome per ciò che riguarda il locale, smettendo di dover dipendere dal centro per ogni cosa.
Al di là della nostra volontà e della nostra consapevolezza veniamo costantemente inseriti in percorsi obbliganti che ci sfruttano e ci spolpano. Esempio eclatante il gioco sovranazionale dell'alta finanza, continuamente imposto senza averlo scelto e senza riuscire a comprenderlo. Nella prospettiva che sto proponendo, per affrontarlo dovremmo liberarci degli schemi interpretativi che ci hanno inculcato. In linea di principio, infatti, non è vero che non si possa prescindere dalle gabbie che ci vengono costruite attorno. Siamo coattivamente inchiodati ad esse soltanto se ci rassegniamo e accettiamo di esserlo. Con uno slancio d'immaginazione utopica potremmo predisporci per condizioni completamente diverse da quelle che stiamo subendo.
Il denaro che siamo obbligati ad usare serve per comprare beni di consumo e gestire la propria quotidianità. Il mondo della finanza però non lo concepisce per questo e non lo usa affatto per comprare cose, perché la sua prerogativa è di accumulare soldi attraverso i soldi. Non tanto per aumentare il capitale, ma per speculare e accumulare in continuazione ricchezze monetarie iperboliche, destinate a loro volta ad esercitare potere. A noi tutto ciò non serve, anzi ci danneggia, perché queste operazioni vengono fatte a nostra insaputa sulle nostre teste, investendo in modo virtuale (derivati) sul denaro reale, che al contrario viene conseguito attraverso l'economia produttiva e che ci siamo guadagnati lavorando con grande fatica. Ciò che si consuma sulle nostre teste è perciò una truffa colossale, di cui non siamo responsabili, che non vorremmo, che non possiamo governare, ma che si consuma sfruttandoci fino all'osso.
Lo slancio d'immaginazione utopica potrebbe pensare di sottrarsi a questa influenza che ci sovrasta e ci costringe a dipendere, che si muove in modo virtuale, ma che nel concreto ci sfrutta e ci massacra. Immaginiamo allora di organizzare una finanza nostra, gestita da noi per le cose che ci servono e che possiamo controllare direttamente, sganciata dall'alta finanza speculativa e non convergente con essa. Potrebbe voler dire una moneta nostra, ovviamente priva di funzione speculativa, oppure scambio di buoni, che in fondo sono sempre un tipo di moneta, oppure altra soluzione funzionale. Non è importante la forma che quest'immaginario può assumere. Il problema è la sostanza, cioè un modo controllato e gestito direttamente da noi, perché vogliamo difenderci dal gioco delle oligarchie finanziarie sottraendoci alla loro influenza nefasta, nella speranza di riuscire prima o poi a renderle inoperanti. Che continuino pure a muoversi con operazioni virtuali computerizzate, a noi interessa non servire più da loro supporto.
Spero che questo suggerimento divenga spunto per compagni e persone di buona volontà che hanno conoscenza approfondita in materia, per progettare qualcosa di fattibile e sensato che abbia però le caratteristiche sopra dette. Il problema finanziario è solo un esempio. Ma la nostra vita è piena di condizioni in cui non solo siamo obbligati, ma a nostra insaputa veniamo sfruttati, dilapidati, raggirati, usati e, se reticenti, repressi, frastornati, puniti, vituperati. Guardiamo per esempio all'uso criminale del denaro pubblico, sull'impiego del quale non abbiamo alcun diritto d'intervenire. Potremmo ripensarlo collettivamente in una prospettiva di distribuzione solidale della ricchezza. Eppure in linea teorica, da un punto di vista liberale fra l'altro, ognuno di noi avrebbe pienamente il diritto di partecipare alle decisioni che ci riguardano.
Ciò che so con certezza è che questo immaginario, che vorrebbe trovare soluzioni che mettono in discussione le fondamenta del vigente sistema di dominio, per sua natura non può passare attraverso le istituzioni che subiamo, proprio perché al contrario sono state impostate per salvaguardarlo.

Andrea Papi