rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013


democratici

Ma quel partito sembra proprio arrivato

di Andrea Papi


Al di là del recente successo alle elezioni amministrative il Pd vive una crisi di fondo. Che è crisi dell'intero sistema politico.


Non so cosa significhi esattamente per Grillo quando afferma che i partiti sono morti e non ci sono più, ma so che dice il vero perché in effetti sono venute meno le ragioni, profonde e concrete, del loro esserci. Nella realtà dei fatti quelli che ci sono non c'entrano più nulla col senso e con le ragioni per cui i partiti presero piede, anche se magari pretendono di chiamarsi ed essere tali. Perfino la Lega ha smesso di esserlo quando si è “ridotta a far politica” nell'arena attuale, dedicandosi come tutti gli altri a “sbarcare il lunario” del politicantismo. Fino a quando era seriamente secessionista invece, dal momento che sosteneva una specifica idea distinta di società, continuava a rappresentare ancora un esempio di partito vero.
I partiti politici nacquero per ragioni ben radicate nelle dinamiche sociali, venute meno le quali si preparò spontaneamente il terreno per la loro trasformazione in qualcos'altro. Naturale evoluzione nel divenire della modernità dei club sorti durante la rivoluzione francese, originariamente il “partito” incorpora due significati concomitanti. Da una parte indica che è entrato in movimento, partito appunto, dall'altra che è organizzazione di parte, intendendo per parte una specifica e ben connotata idea di società. Lo confermano i loro stessi nomi: partito repubblicano, monarchico, socialista, liberale, ecc. La rivoluzione francese aveva dato avvio al bisogno e alla ricerca di società alternative all'ancien régime. Di conseguenza vennero analizzate e ipotizzate, sotto forma di utopie futuribili, diverse visioni di società alternative e si formarono organizzazioni che si ponevano il compito di agire e promuovere il tipo di società di riferimento. Così presero avvio i partiti.

Vi ricordate il cattocomunismo?

In questi termini oggi il problema è completamente superato. Non si prefigurano più tipi di società definite in modo onnicomprensivo e proposte ideologicamente, illusoriamente ritenute capaci di risolvere al loro interno tutte le problematiche. L'esperienza stessa ha dimostrato l'intrinseca non veridicità di questo modo di procedere. La società liberale, la repubblica, lo stato socialista si sono in fondo realizzati in molteplici modi, dimostrando però nei fatti di non riuscire ad attuare ciò che avevano promesso. Da momenti di supposta liberazione si sono trasformati in incubi da cui non si riesce a liberarsi. Così quando si pensa a una vita e una convivenza sociale radicalmente alternative al presente sempre meno vivibile, non si prefigurano più immaginativamente nuove architetture politico-sociali, ma si ipotizza e si cerca di sperimentare diversi modi di convivenza, di gestione collettiva, di autogestione e si preconizzano altri modelli di sviluppo e produzione.
Si è invertito il problema. Il tipo di società ora è secondario e prende forma all'interno della diversa qualità dei metodi e delle scelte sociali. Ciò che rimane dei sopravvissuti non è assimilabile in alcun modo a partiti residui, perché si tratta di meri apparati alla ricerca disperata di nuove ragioni che ne giustifichino la sopravvivenza. Sono a loro volta residui dell'antica forma partito, senza più l'anima che li aveva generati. Così gli attuali cosiddetti partiti sono molto più assimilabili a lobbies, congreghe, confraternite, o associazioni, cioè aggregazioni per interesse, che agiscono come fossero conventicole partitiche.
Dentro questo contesto cultural-politico è esplosa la vicenda che ha evidenziato un deciso malessere costitutivo del Pd, manifestatosi in modo deciso durante le votazioni allo sbando per l'elezione del presidente della repubblica. Il forte smarrimento di cui continua ad essere protagonista ha fatto dire a molti che è un partito in agonia, per alcuni addirittura morto e defunto. Ma si può dire che qualcuno o qualcosa sia morto quando in realtà non è mai nato, o perlomeno non è mai riuscito a compiersi? Intendo dire che, nonostante sia perfettamente esistente un apparato partitico che si chiama Pd, al contempo non è mai riuscito a trovare una sua anima che ne giustifichi l'esistenza. Ed è questo il suo vero serio problema.
Se facciamo un excursus essenziale del percorso storico che ha portato alla sua genesi, non possiamo non accorgerci che il Pd si è formato per una specie di spinta di sopravvivenza da parte di professionisti della politica di lungo corso in seguito allo sfascio dei partiti di origine, travolti e sepolti dall'ineluttabilità del divenire storico. Da una parte i burocrati decaduti del vecchio partito comunista che avevano accettato la lezione della caduta del muro di Berlino nell'89, sganciatisi dai comunisti non pentiti che volevano tentare di “rifondarsi”. Dall'altra i democristiani delle correnti vagamente di sinistra a seguito dello sfascio della vecchia “balena bianca”, dispersa dallo scandalo di “mani pulite”.

Un nuovo apparato senz'anima

Volendo azzardare una metafora un po' ardita, di primo acchito potrebbe sembrare trattarsi del vecchio pensiero cattocomunista d'antan che avrebbe cercato di aggiornare il “compromesso storico” riadattandolo al contesto contemporaneo. Forse un tale “utopismo da realpolitik” può aver albergato segretamente nelle speranze non dichiarate di alcuni dei protagonisti. Ma nella realtà delle cose non può essere così. Il “cattocomunismo”, come pure il “compromesso storico” emersero quando ancora il mondo era diviso in due blocchi che, contrapposti ideologicamente, in realtà avevano molte più cose in comune di quello che volevano dar ad intendere, in particolare un interesse condiviso a mantenersi in piedi a vicenda per conservare la concordata spartizione in blocchi che si contrapponevano militarmente. Alternativi nell'ufficialità delle dichiarazioni, complementari sul piano della spartizione del potere globale.
Con l'abbattimento del muro di Berlino scomparve la condizione postbellica che i potenti di turno avevano tentato di congelare per sempre. Il regime bolscevico, che entrambe le parti avevano continuato a esibire alternativo al capitalismo, implose per incapacità intrinseca a perpetuarsi e la finzione di due mondi presentati contrapposti, ideologicamente oltre che militarmente, ebbe definitivamente termine. Così smise di aver senso in Italia la messa in scena dell'antagonismo partitico della “prima repubblica postfascista”. I comunisti, in quanto bolscevichi che facevano gli interessi dell'Urss, non esistevano più, come pure i democristiani che dovevano far argine all'avanzata del “comunismo incarnazione del male”. Al contrario esistevano ancora gli uomini che avevano agito da entrambe le parti, i quali continuavano ad aver bisogno di rimanere politicamente nell'arena.
L'improvvisa discesa in campo di Berlusconi, che da imbonitore di lungo corso aveva fiutato l'opportunità conveniente del vuoto generato dallo smarrimento per la situazione di trapasso che si era creata, in un certo senso costrinse gli ex contendenti a cercare di tentare nuove forme di alleanza per non trovarsi improvvisamente messi da parte. Non si trattava più, come ai tempi del compromesso storico berlingueriano, di un'operazione legata a una visione strategica con una sua dignità politica che s'inseriva in un processo di trasformazione riformista. No! Questa volta era una mera spinta di sopravvivenza dello status di potere, dettata dalla necessità di non trovarsi esclusi dai giochi che andavano definendosi.
Un processo di congiunzione tra quadri dirigenti sopravvissuti, provenienti in buona parte da due ex apparati di partito disfatti. Operazione nella sostanza dirigenzial-burocratica, tesa a fondere i rimasugli di due ex apparati demoliti in uno nuovo. Così è stato messo in piedi un dispositivo organizzativo non sostenuto da alcun calore d'anima, in definitiva senza la forza vitale indispensabile a dare senso all'esistenza di una struttura di azione politica coerente. Oltre ad essere un “non-partito”, perché in fondo non è mai riuscito a capire veramente perché c'è e dev'esserci, al di là delle consapevolezze dei suoi fautori si è trattato di una mera operazione di potere, in verità fallita perché, non sapendo definire né proporre un proprio compito chiaro, non si è mai veramente attrezzato per gestire il potere reale.
Mentre gli ex vertici si dilettavano a fondersi in uno nuovo, al contempo hanno portato con sé una consistenza preesistente di gruppi di persone, divisi tra loro, che ne costituivano la base militante ed elettorale. In un crescendo progressivo è stato fin da subito un problema poco gestibile. Non avendo infatti sfornato nessuna nuova identità sostitutiva, senza aver neppure idee un minimo chiare sul da farsi, il nuovo apparato senz'anima si è trovato di conseguenza pressato dai bisogni militanti di due popoli sconcertati e delusi. All'inizio in sordina non affiorante, poi in una progressione montante, il bisogno non soddisfatto di appartenenza, mai appositamente chiarito, ha bussato alle porte dirigenziali e ha cominciato a chiedere il conto. Ora la pressione è fortissima e rischia seriamente di rompere gli ormeggi e far saltare le paratie. Il nuovo “non-partito” non si è attrezzato, né poteva farlo, per reggere e gestire una mancanza di senso congenita.

“Compresso da feudalizzazioni e anarchismo”

Il problema dei capi di questo raffazzonato esercito alla deriva non appare tanto quello di comprendere se possono ancora rivestire un ruolo effettivo, di idee e di pratiche, in grado di incidere politicamente con coerenza e con riflessi incisivi nel corpo dei problemi sociali. Il problema vero che sembra concretamente preoccuparli è il mantenere in vita il loro protagonismo dentro ruoli di potere politico, autogiustificandosi con le “necessità imposte dal momento di difficoltà generale”. Non a caso ostentano in continuazione che rimangono lì e “continuano a provarci” per un non richiesto e non ben definito “senso di responsabilità”.
Il fatto è che molti militanti e votanti continuano a viverli come fossero ancora i due partiti del bel tempo che fu. Con più o meno consapevolezza non si rendono conto o non accettano, ma non fa differenza, che c'è stata una fusione calata dall'alto da parte di vertici che, finiti ideologicamente, non tollerano di essere dimessi, prima dalla storia poi dalla trasformazione insita nell'ordine delle cose.
Così il Pd è un partito nato con una congenita lotta intestina tra due fazioni di antica tradizione, che a loro volta hanno generato rivoli e sottofazioni, che non hanno nessuna intenzione di deporre le armi, mentre per sopravvivere sentono l'irrazionale e contraddittoria necessità di convivere nella stessa “domus”, che si sta dimostrando ben poco accogliente.
L'unica parte vitale del Pd è dunque il suo antagonismo interno. Un'insensatezza politica che non permette quell'identità partitica di cui sente necessità, che non riesce ad avere perché i due partiti di origine sorsero per ben altre ragioni ora del tutto estinte. La dirigenza politica non riconosce ufficialmente il conflitto interno, mentre vive la schizofrenia che non lo vorrebbe ma, siccome paradossalmente rappresenta la sua unica anima di vero non-partito, non può farne a meno. Il Pd è un esempio lampante del fallimento della politica istituzionale, filtrata dagli apparati partitici e affidata ad essi. Queste strutture burocratiche, appesantite fra l'altro da una tendenza congenita a un'esiziale gerontocrazia, sono sempre più un peso. Da tempo non rappresentano più, né può essere diversamente, il luogo e i momenti di dibattito e confronto per rinnovare una gestione della società che, per diventare efficace e utile, richiederebbe di essere il più possibile autogestita.
Prima di chiudere mi piace riportare, con ironia e placida soddisfazione, che Bersani il 23 aprile, durante il discorso dimissionario di commiato dalla segreteria nazionale, fra le altre cose disse, seriamente preoccupato, che uno dei motivi per cui il partito era crollato durante le votazioni per l'elezione del capo dello stato era l'incontrollabilità, “compresso contemporaneamente da feudalizzazioni e anarchismo”. Si era sentito stretto tra feudi in guerra tra loro e nello stesso tempo si era sentito travolto da un'indisciplina che impediva al gruppo dirigente di governare il partito. Gli ex bolscevici e gli ex clericali, uniti in un abbraccio mortale di reciproca autoconsunzione, sarebbero stati feriti da un'anarchia indisciplinata che gioiosamente ha invaso le loro file scomposte. A sentir Bersani, raramente l'anarchismo è stato così efficace nel nuocere agli autoritari.

Andrea Papi