rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013


 

I troll Mumin,
una famiglia allargata in piccola comunità

Lo spunto per parlare dei Mumin (Moomin) me lo offre l'edizione 2012 della festa dei libri per bambini e ragazzi “La tribù dei lettori”, che si è tenuta a Roma, al Maxxi (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) in via Guido Reni, dal 28 maggio al 2 giugno 2012. La Tribù li ha infatti premiati come i migliori, nelle edizioni Black velvet. Io invece li conosco da diversi anni nella mitica collana Gl'Istrici, diretta per Salani da Donatella Ziliotto.
I Mumin sono quanto di più anticonformista e libertario – autenticamente libertario – mi sia capitato di incontrare nel vastissimo panorama dei libri per bambini e ragazzi.
La loro comunità è nata nel 1946, in Finlandia, dall'immaginazione e dall'intelligenza di una raffinatissima disegnatrice e scrittrice appartenente alla minoranza di lingua svedese: Tove Jansson (Helsinki, 1914 - 2001). Dapprima le sue storie dei troll Mumin furono raccontate attraverso albi illustrati, poi divennero strisce a fumetti, infine veri e propri libri tradotti in più di trenta paesi. Lettura culto per generazioni di ragazzini in tutto il mondo ma soprattutto nordeuropei, che li hanno celebrati e li celebrano tuttora in numerosissimi fans club, i Mumin hanno guadagnato alla Jansson decine di riconoscimenti internazionali, tra cui nel 1966 la Medaglia H.C. Andersen (il Nobel della letteratura per bambini).
Tralascio tutti gli annessi e connessi di carattere commerciale (tv, merchandising ecc.) che hanno accompagnato nel corso del tempo il “fenomeno Mumin”, per dire piuttosto dell'incanto, perché di incanto si tratta, che questi esseri suscitano in egual misura in piccoli e grandi.
Prendiamo, per esempio, Il Cappello del Gran Bau (Adriano Salani Editore, Firenze 1990, pp. 157), un libro che Tove Jansson diede alle stampe nel 1968 e che, insieme con Magia di mezza estate, fu il primo della serie a essere pubblicato in Italia da Salani nel 1990. Non ne racconterò la trama. Ma in questo strampalato susseguirsi di avventure, il piacere dell'eleganza della scrittura (tradotta da Annuska Palme Sanavio e dalla stessa Ziliotto) e delle illustrazioni originali dell'autrice si accompagna a un altro piacere, senz'altro per me più sottile e stupefacente: quello della rappresentazione poetica e giocosa della coesistenza pacifica e non gerarchica di un gruppo di individui.
Nel breve prologo, sempre lo stesso, che accompagna tutti i suoi testi editi da Salani, Tove Jansson spiega che, a differenza dei troll comuni delle saghe nordiche, “che sbucano solo di notte”, questi troll Mumin “sono molto più civili e istruiti” e “hanno un grandissimo amore per il sole”. “D'estate naturalmente sono felici” afferma la scrittrice, che ci tiene anche a partecipare ai lettori come proprio la mezza estate, il 21 giugno, sia la loro festa più grande.
Dal mio punto di vista è proprio il sole la chiave di lettura per comprendere la visione del mondo e delle relazioni sociali che sta alla base di questa cosmogonia creata dalla Jansson.
I troll Mumin – "famiglia allargata in piccola comunità, che vive nell'omonima valle" – non sono esenti da invidie, gelosie o rabbia. Il loro universo non è affatto un eden. Anzi, se c'è un tratto nel quale ci si può riconoscere completamente è la verità di un quotidiano raccontato senza ipocrisie. La loro sostanziale solarità li spinge tuttavia ad adottare quasi sempre atteggiamenti aperti e tolleranti, spesso addirittura amorevoli nei confronti dei propri simili. E dettati da una grandissima gioia di vivere. Una joie de vivre esplosiva e liberatoria, che non conosce sensi di colpa.
È lo stesso Papà Mumin a esemplificare con una metafora la saggia filosofia che regola la vita nella Valle: considerando la fugacità dell'estate nordica, bisogna cercare di divertirsi il più possibile finché si è in tempo, dichiara nel Cappello del Gran Bau davanti a figli e amici riuniti.
Ma come sono risolti i conflitti qui, in questa specifica storia e anche nelle altre della saga? Accettando di partecipare tutti, troll piccini compresi, a un confronto aperto e leale, che non esclude la messa a nudo dei propri sentimenti, per quanto deplorevoli. Sembra molto banale, vero? Non lo è!
“Bisogna tenere consiglio. Tutti si trovino al cespuglio di lillà alle tre per discutere la questione”, stabilisce Grugnino, dovendo affrontare uno spinoso problema, qual è quello del “furto” di un “rubino grande come la testa di una pantera, incandescente come un tramonto, vivo come il fuoco e come lo scintillio dell'acqua”. (Che però non è stato rubato per il suo valore economico, bensì per la bellezza che promana). Nessuno nella comunità pensa di sottrarsi all'appello.
La scena del tribunale è spassosissima, giocata com'è sul filo della parodia dei tribunali veri. Ma è notevole soprattutto per l'epilogo. Un epilogo che sfocia nella mediazione, l'unica via realmente percorribile dopo aver riconosciuto le ragioni di tutti i contendenti. In tal modo il verdetto non potrà che essere equo, e questo grazie anche alla partecipazione attiva di ciascun membro del gruppo.
Qualche volta, leggendo, capita di commuoversi. A me è successo spesso di ridere e di sentirmi al contempo profondamente colpita dall'acutezza psicologica, delicata e leggera, con la quale la Jansson tratteggia i suoi personaggi.
Nel Cappello del Gran Bau è la descrizione dell'amicizia tra Tabacco e il troll Mumin a farmi un grandissimo effetto. Si tratta di un legame prezioso, fondato sul rispetto della diversità e delle esigenze reciproche. Quando infatti Tabacco, sentendo il richiamo di luoghi remoti dove “ha bisogno di andare da solo”, parte, il troll Mumin è così generoso da accettare la felicità dell'amico pur soffrendo moltissimo il distacco.
“Brindo a Tabacco, che stanotte vaga verso sud, solitario, ma certo felice quanto noi! Auguriamogli un posto tranquillo per la sua tenda e per il suo cuore!” afferma davanti alla comunità in festa questo piccolo grandissimo troll nascondendo le lacrime.
Il microcosmo dei Mumin è un esperimento di libertà che possiamo proporre ai nostri bambini e che possiamo condividere con loro in un percorso di crescita comune. Saremo sorpresi dalla franchezza con cui l'autrice parla... di noi. E anche dall'ironia, spesso sferzante, con cui lo fa.
Per quanto riguarda il piccolo troll Mumin, così triste per la partenza di Tabacco, vien quasi voglia di abbracciarlo, di averlo anche noi per amico tra quelli che possiamo contare sulle dita di una mano.

Emanuela Scuccato



Il ritorno di
Cristiano De André

Penso che si provi sempre un forte brivido ascoltare Le vent nous portera dei Noir Désir, avvertire come una ebbrezza la voce vellutata del leader ribelle (e maledetto) della rock band francese (scioltasi nel 2010), Bertrand Cantat, che intona “... mentre aumenta la marea/ognuno fa i propri conti/ io mi ritrovo in fondo alla mia ombra/polvere di te/il vento ti porterà/ ma il vento ci guiderà... ”. Un capolavoro assoluto di poesia e struggente malinconia dell'ultimo decennio (uscito nello stesso giorno dell'attentato alle Torri gemelle di New York), Cristiano De André ne ha rifatto una splendida versione tutta in italiano e l'ha inserita in Come in cielo così in guerra (Nuvole production), album comparso sugli scaffali a dodici anni di distanza dall'ultimo Scaramante.

Cristiano De André

Per realizzarlo De André è volato in California e si avvalso dell'aiuto di Corrado Rustici, che ne ha curato gli arrangiamenti, e della partecipazione di artisti sempre più richiesti a livello internazionale, come il bassista e compositore Kaveh Rastegar e il batterista Michael Urbano (che lavora da un po' di anni anche con Ligabue). Dieci tracce che si tengono insieme senza stridore anche se De André (che, oltre a cantare, suona violino, bouzouki e chitarra acustica) ha cercato di mischiare le carte del rock con l'etno, l'elettronica con la word music (qui i sentori di Peter Gabriel si avvertono, eccome). Un album curatissimo nei minimi dettagli con De André che si racconta senza nascondersi e lascia pulsare dentro le sue canzoni gli ideali, l'amore, il legame spesso conflittuale tra genitori e figli, l'affanno dell'affrontare la vita che è poi il disagio del vivere di tutti. Ci ha messo in questo lavoro il cuore e, soprattutto, la poesia che permette di osservare, abbracciare più in profondità le cose e la vita.
Dai dieci pezzi sicuramente viene fuori un Cristiano De André fortemente ispirato, che si veste da demone e angelo, da viandante con le sue certezze e insicurezze. Oltre alla cover dei Noir Désir che, tra l'altro, ha un testo tanto in sintonia col pensiero più deandreiano (nel senso che è affine tanto al padre Fabrizio che al figlio Cristiano) del sentirsi sulla terra profughi infiniti, si può provare una certa emozione nell'ascoltare altri brani ricchi di candore e delicate sfumature come Non è una favola, Disegni nel vento e Sangue del mio sangue, ma sono altrettanto da scoprire Ingenuo e romantico e Vivere, le cui sonorità più si ascoltano e più entrano dentro. Una nota a parte meritano Le bambole della discarica, testo scritto insieme al poeta pavese Oliviero Malaspina dove le donne (le bambole) di cui si parla sono le puttane di oggi che si vendono non per soddisfare il bisogno primario del pane, ma per arrampicarsi sullo specchio di un benessere illusorio, e sicuramente Credici, un pezzo indiscutibilmente politico in cui si può specchiare lo stato di un paese malridotto, “svenduto al peggior dei medioevi”, dove viene richiamata alle sue responsabilità anche la “Santa Madre Chiesa” che ha voltato le spalle a Cristo per inchinarsi allo Ior e all'Opus Dei.
In questa stagione mancava nel panorama della musica italiana un album così ricercato e ponderato su un ben definito stilema di generi, e ora è arrivato da Cristiano De André, come fosse un delicato fiore (dono) di primavera.

Mimmo Mastrangelo



L'insurrezione che viene.
Due letture

Provando a commentare – in un precedente numero di “A” (n.378) – il recente libro di Negri e Hardt, Questo non è un manifesto, si evidenziavano alcuni limiti interpretativi del volume riguardo agli attuali movimenti in corso d'opera, auspicando, come opzioni, necessarie rotture di piani affinché emergessero aperture di orizzonti più inclusive e di maggiore respiro, in grado di coniugare le proteste dei vari movimenti metropolitani contro la crisi economico-finanziaria con le conseguenze provocate dal disastro ambientale, nella considerazione che una sola è la crisi che dilaga, che ci attraversa e di cui si parla.

Produzione di verità e pratiche politiche
Il recente volumetto di Gustavo Esteva, Antistasis. L'insurrezione in corso (Asterios, Trieste, 2012, pp. 96, € 9,00), pur nella sua brevità, adempie meritoriamente a questa prospettiva inclusiva. Riprendendo Foucault (autore che taglia trasversalmente e sotterraneamente l'intero testo), la questione per Esteva non sta nel modificare le idee della gente, ma si tratta di lavorare sui dispositivi (politici, economici, istituzionali, ecc.) di produzione della verità, ovvero l'insieme di enunciati in base ai quali governiamo (o veniamo governati): noi stessi e gli altri, i corpi e le menti. Non a caso il libro si apre con l'affermazione che l'insurrezione inizia dal linguaggio. La sostituzione del sostantivo con il verbo – denominatore comune di molte delle attuali iniziative sociali e politiche – dichiara il passaggio dall'idea all'azione, all'utopia concreta: in questione è il mangiare degli uomini e delle donne, così come l'abitare, l'apprendere, il curarsi e via dicendo.
Fondatore nella città messicana di Oaxaca della Universidad de la Tierra (luogo in cui non vi sono insegnanti né esami o programmi da rispettare: lì, i ragazzi non sono consumatori dell'istruzione come merce, né rivendicano il diritto allo studio, ma esercitano in maniera conviviale la libertà di conoscere), Esteva – assai vicino, come si può intuire, alle posizioni di Ivan Illich – si definisce “attivista sociale e intellettuale pubblico deprofessionalizzato”.
“Stiamo vivendo una catastrofe di civiltà che mette a rischio la sopravvivenza della vita umana”: questo è il punto d'avvio del saggio e da qui l'autore prova a sondare i segnali di inversione, le vie di fuga e di rottura che si possono intravedere.
Un'insurrezione sta attraversando il mondo, dice Esteva, e alcune sue espressioni sono sotto gli occhi di tutti: la primavera araba, gli indignados spagnoli, le manifestazioni greche, il movimento Occupy statunitense, ma anche il dramma e la lotta dei popoli migranti, o il raggruppamento internazionale di via Campesina impegnato nella difesa della biodiversità, per la sovranità alimentare e per politiche in campo agro-alimentare più legittime e sostenibili.
A partire da ciò Esteva rielabora alcune domande, per così dire classiche, individuando al contempo possibili direzioni di percorso. In breve: ciò che sta accadendo (e l'attenzione del libro è rivolta in primis, anche se in modo non esclusivo, a quanto succede nel continente latinoamericano) ha la portata di un'insurrezione? Qual è la sua fisionomia? Quali rischi e quali potenzialità esprime? Possiede tratti realmente anticapitalistici o rischia di essere funzionale al regime dominante, un ulteriore tassello che, sebbene involontariamente, ne alimenta la sopravvivenza?

L'alternativa comunitaria
La sola alternativa, secondo Esteva, è quella comunitaria. Né individualismo capitalista né statalismo socialista, con le derive autoritarie verso cui entrambi degenerano (criminalizzazione dell'avversario, stato di eccezione), ma recupero pieno del valore della collettività, la quale può assumersi in prima persona compiti e responsabilità, senza accentramenti, deleghe o surrogati di sorta (vi sono qui interessanti riferimenti al pluralismo radicale di Raimon Panikkar). Non vi è ed è bene che non vi sia un centro-guida che articoli un unico movimento di resistenza e di protesta mondiale; ad esso è preferibile l'idea di una rete plurale, interconnessa e dinamica, che si muove ed entra in azione quando un nodo della rete agisce o viene aggredito. Così come va abbandonata l'ossessione della presa del potere (attraverso le tornate elettorali o con la lotta armata), concentrandosi invece verso una progressiva erosione dei meccanismi statali e dei suoi apparati (istituzioni, esperti, ecc.), per la creazione di una normatività “dal basso”, una democrazia davvero radicale. Il riferimento esplicito dell'autore va all'esperienza zapatista (di cui fu consigliere nel corso dei negoziati dell'Ezln con il governo messicano), al loro mandar obedeciendo (“comandare obbedendo”) e ben espresso dalle parole dello stesso Marcos: “Il nostro vantaggio è per l'appunto di non avere un centro-guida, né un piano preconcetto nel tentativo di omogeneizzare le parti di questa rete”. E ancora: “La maggiore scommessa dello zapatismo è nel proclamare la possibilità di fare politica senza prospettare la presa del potere”.

Gustavo Esteva

Il buen vivir
L'approdo e la forma stessa di questo percorso è il buen vivir, di cui si parla molto in America latina e pochissimo in Europa (quando non lo si confonde con le varie forme di benessere narcisistico: vedi il new age). Buen vivir è un'espressione spagnola che riprende a sua volta un termine di origine quechua e che può essere sintetizzato come la ricerca di armonia e benessere collettivo con la natura intesa come terra mater, come madre natura (Pacha Mama), laddove la concezione occidentale dominante della terra è quella di una mera estensione, passiva, res nullius da predare e colonizzare.
Su questo tema segnaliamo anche il volume di Carlo Sini, Del viver bene (Jaca Book, Milano, 2011), per molti versi differente da quello di Esteva ma non per questo distante, in cui viene compiuta una quanto mai articolata ricognizione genealogica – con gli strumenti della semiotica filosofica – riguardo l'economia dell'attuale mercato globalizzato, a cominciare dall'analisi delle strutture del sacrificio, del dono e dello scambio, fino a far affiorare le sottili relazioni intercorrenti tra scrittura, sapere e denaro con la conseguente mercificazione dei rapporti umani. Per giungere a riconoscere (in particolare nell'ampia appendice finale del saggio) nel buen vivir degli indios le tracce di possibili economie politiche alternative, fondate sul rispetto della biodiversità e del pluralismo culturale.

Federico Battistutta



Un passaggio
tra gli scheletri

Homo sapiens che, con le loro fughe di morte, raccontano un'epica quanto tragica rincorsa verso un'irraggiungibile immortalità, ma anche quella di “qualcun altro” che, esibito pornograficamente o consumato quotidianamente, sta lì – immortalato – a suggerirci di incarnare finalmente un quid comune che ci ri-guarda.
Una storia in-naturale, insomma, che è poi quanto prefigura Massimo Filippi in questo piccolo libro (Natura infranta. Dalla domesticazione alla liberazione animale, Ortica Editrice, 2013), organizzato in 18 tesi – che dalla preistoria arrivano fino ai nostri giorni – e arricchito da quattro tavole in bianco e nero dell'artista Luigia Marturano; libro in cui l'autore si fa interprete di emozioni vitali che indagano (lasciandosi indagare) l'indeterminatezza del senso, dei sensi e del sentire.
Uno dei protagonisti di questa storia altra è un cadavere. Un feto di maiale, “l'animale addomesticato e oppresso per eccellenza, con una sola testa e due corpi”. Il risultato di due violenze: quella incosciente della natura e quella istituzionalizzata dal devastante impulso di supremazia dell'umano che, sistematicamente e con “successo”, si è adoperato e si adopera in una guerra di presunta liberazione, ma che in realtà è una guerra fratricida che si concretizza nel millenario atto di autoaffermazione identitaria diretto contro la sua componente animale.
Questo feto di maiale è mostruoso, è il risultato di malformazioni moltiplicate oltre ogni misura dal contesto forzato, per quanto onnipresente, dell'allevamento. Un mostro che, però, è in grado di emettere un urlo muto capace di rievocare l'impotenza della creazione e l'insalvabilità che la percorre. Un'eco straziante che indica con insistenza assordante (nella fragorosa indifferenza sociale) che quella bocca, spalancata più che aperta, è una porta annidata dentro le porte normalmente chiuse dell'umano, una via di fuga dall'ignominia del presente. Apertura incancellabile che continuamente evoca la necessità di una rivoluzione immanente del “chi” – piuttosto che dell'eternamente procrastinabile “cosa” –, una rivoluzione che travalichi le barriere di un sistema che ci ha ridotti, insieme agli altri animali, a strumenti funzionali ad un presunto ordine naturale e che contemporaneamente sorvoli oltre i labirinti delle prospettive ideologiche oggettivanti. Apertura che ci permette di intravvedere un sentiero che non segue né le vecchie orme conformi alla prima legge né le fatidiche promesse normative di un irrealizzabile superamento della condizione di sfruttamento generalizzato in cui viviamo.
Un percorso che, abbandonando i disegni deliranti di liberarci dalla natura o di liberazione della natura, si incammina verso una liberazione alla natura ancora tutta da pensare. Un piccolo passaggio che ci fa intravvedere la possibilità “di costituirci come esseri naturali in quanto culturalmente coscienti della [nostra] finitudine”.
In questo libro, che senza dubbio rappresenta un contributo lungimirante al dibattito antispecista, l'autore svincola la questione animale dai recinti concettuali imposti sia dall'ecologia profonda che dalle varie culture di stampo umanista, proponendoci un excursus di natura politica e filosofica che giunge a conclusioni del tutto inedite e rispondenti all'esigenza da parte del variegato movimento di liberazione animale – in crescente sforzo di autonomia e di autodeterminazione – di contestualizzare storicamente e socialmente il proprio messaggio.

Davide Majocchi



Cantami
di questo vento

Girotondi di vaste solitudini si muovono tra le linee melodiche disegnate da un giovane cantautore del nostro tempo. Sguardo che sfila e cuce, come sospinto da un buon vento, i richiami di un sentire profondamente umano. Ogni espressione, traccia di un'opera letteraria o slancio d'inventiva poetica, avanza scandita da un cantato avvolgente e accende il tempo dell'ascolto per queste Storie in forma di canzone di Nicola Pisu. Raccolta di immagini narranti che cercano lo spazio per raccontarsi e riposano su paesaggi sonori abitati da movimenti strumentali in armonica mescolanza. Il mare, con il suo moto oscillante che culla e trasporta, diventa spazio prediletto che accoglie le lacerazioni del dolore. Nel mare si conserva un amore senza via di scampo e scivola il pianto di Maria Maddalena, amante e madre che guarda la vita da una feritoia. Sulla pianura di sale vive il pescatore con la sua pelle bruciata e imbevuta di solitudine, il cui destino si consuma nel sentiero suggerito da una pallida luna. Acqua che scorre e rovescia le vele gonfie di algebre del vittorioso Colombo, eroe perdente tra il massacro dei nativi. Mare che si infrange sulla riva di altri mondi emarginati, quelli da cui proviene la voce di un professore che si appella alla vita mascherandosi d'euforia.
Anche nel discreto passare della protagonista della prima storia tuona il delirio della solitudine, risolto invocando la salvezza nel richiamo di un amore di figlia.
E ancora si riflette sulla fatalità del destino umano nel nucleo dedicato alla Sardegna, dove si muovono comparse carnevalesche dai presagi funesti. Resta sospesa, tra le storie, la voce di un ideale smisurato: emerge dai frantumi della sua vita invisibile, l'incantevole ritratto del giovane Franco Serantini il cui grido libertario annegò sul Lungarno come un sogno impossibile. Girotondi segnati dalla carica vitale di una folla umana che si muove tra smarrimenti e speranze nel tracciato dell'esistere. Nella scrittura in musica di Nicola Pisu, autore e compositore delle tredici canzoni che compongono l'album, la forte propulsione narrativa si dissemina in un lungo percorso che non tradisce la cifra stilistica prescelta ma si carica di esperienza e sperimentazioni intrise di buon vento.

Laura Medda

L'album è disponibile presso i principali negozi di musica online. è possibile ascoltare un'anteprima delle canzoni su nicolapisu.zimbalam.com


Il pugile zingaro
che sfidò il Terzo Reich

Buttati giù, zingaro di Roger Repplinger (edizioni Upre Roma, Milano, 2013, pp. 292, € 12,00) si presenta come uno straordinario affresco sulla solitudine dell'uomo oppresso, forte anche dinnanzi alla consapevolezza della propria fine; una vicenda emblematica del coraggio di accettare l'esistenza comunque essa sia, anche quando condannata alla sofferenza e all'ingiustizia.
La penna di Repplinger, con grande profondità e lucidità, ritrae il percorso dall'infanzia all'età adulta del protagonista, il sinto tedesco Johann “Rukeli” Trollman, regalandoci un racconto molto intenso sul piano emotivo. La ricerca sui personaggi è approfondita (soprattutto su Trollmann). Lo stile è ricercato ma senza troppi stancanti virtuosismi: è un'opera piacevole, che può essere apprezzata soprattutto da chi si sente in un certo senso speciale e reietto nei confronti della società e degli altri. È un lavoro estremamente maturo per la compiutezza del contenuto e per l'alta tensione emotiva sviluppata: un crescendo di sensazioni che avviluppa l'anima del lettore, tra momenti di allegria, di tenerezza, di tristezza, di speranza e di morte.
Il libro trasuda umanità, prestando la voce a coloro che gridano aiuto e facendo entrare il lettore accorto nel mondo buio della diversità. Quella narrata da Repplinger non è una storia sconclusionata e surreale, ma è l'altra faccia della vita: quella meno fortunata, meno sorridente, meno scanzonata da una parte, e quella incanalata in un sistema totalitario dall'altra.

Johann Trollmann
(nome sinto Rukeli)

Questo è un libro che si legge in apnea e che in apnea ti lascia quando lo hai finito; sarà anche questo un indicatore che ci dice che è una buona opera destinata a rimanere nel tempo.
Johann Trollmann (nome sinto Rukeli) è nato il 27 dicembre 1907 a Wilsche e ha iniziato a tirare di boxe per caso a 8 anni, dopo essere capitato in una palestra dove un amico si allenava già da due settimane, al 10 di Schaufelderstrasse.
Campione della circoscrizione sud per ben quattro volte – la prima nel 1925, nei pesi medi, e campione dei dilettanti di Hannover dal 1925 al 1928, inizia a vincere spesso, in un periodo in cui il pugilato stava prendendo sempre più piede. Rukeli è agile come un gatto, molto veloce e così mobile sul tronco che non viene quasi mai colpito. Diventa una celebrità locale, piace alle donne, ha qualche soldo in tasca, diventa campione dei pesi medi della Germania nord-occidentale nel 1928 senza aver combattuto – l'avversario non si è presentato a causa di una malattia –. Il suo ultimo match da dilettante si svolge il 5 ottobre 1928 e vince ai punti. È proprio in quel periodo che Trollmann inizia a farsi conoscere per la sua boxe provocatoria e sopra le righe a cui si aggiunge un carisma che lo porta ad avere una reale presa sul pubblico. In effetti il suo modo di essere, spavaldo fino ad arrivare alla spacconeria, era una novità “spettacolare” per quei tempi ed esercitava un fascino immediato sul pubblico, sempre più assetato di sue notizie.
Venerdi 9 giugno 1933, Berlino. Trollmann è rapido sul ring, l'avversario Witt tenta di colpire, Trollmann sfugge, agile e leggero, l'arbitro ammonisce i pugili: “combattere con più agonismo”.Trollmann domina il ring, Witt non ha chance, dopo dodici riprese l'arbitro, Otto Griese, sale al centro ring, verdetto: non c'è un vincitore. Witt è stupito, il pubblico rumoreggia, si arriva alle mani. Trollmann piange: ha vinto ma non gli assegnano il titolo. Si riunisce la commissione sportiva: visti i cartellini, Trollmann viene ufficialmente dichiarato il vincitore. Nuovo campione tedesco dei mediomassimi. Ma un campione zingaro nella Germania nazista è inconcepibile. Il lunedi seguente si riunisce la Bbd, autorità tedesca per il pugilato: il titolo viene sospeso, la commissione annuncerà il prossimo incontro per il titolo dei mediomassimi. È la fine della carriera di Trollmann e si sta edificando una “nuova Germania”.
24 luglio 1933, Trollmann contro Eder. Le direttive per Rukeli sono chiare: deve perdere con dignità. Lui però è orgoglioso e reagisce: sfida gli ariani e nell'incontro si tinge i riccioli neri di biondo e si cosparge il corpo di borotalco. Accetta di stare al centro ring senza muoversi, alla tedesca, come vuole il regime, fermo, senza fare un passo indietro. Si fa picchiare, massacrare, finchè sfinito cade in una nube di bianco borotalco. Rukeli è fuori gioco e per lui inizia la paura, non degli avversari sul ring, ma di quelli fuori dal ring, che gli urlano: “Trollmann, buttati giù, altrimenti ti veniamo a prendere” e “Porco zingaro, vattene in Valacchia”.
Nel '34, mentre Rukeli prende parte ad alcuni incontri di pugilato nel luna park, si intensifica la persecuzione dei sinti. Dopo essersi nascosto nella foresta di Teutoburgo, aver divorziato dalla moglie per preteggerla dalla deportazione e dopo aver combattuto sul fronte russo per la Wehrmacht (ed esser stato ferito), nel '42 Rukeli viene arrestato e trasferito nel lager di Neuengamme. È qui che la sua storia si intreccia con quella di un altro comapione dello sport: Otto “Tull” Harder, “ariano”, membro del comando delle SS del lager ed ex stella del calcio, che dopo la guerra sarà condannato a 15 anni di detenzione, ma che per il natale del '51 sarà già un uomo libero.
Diverso è invece il destino di Johann, che nel 1944 muore assassinato dal triangolo verde Emil Cornelius, che Trollmann aveva umiliato, battendolo in combattimento. Cornelius, sconfitto, aveva minacciato: “gliela farò vedere io allo zingaro” e infatti Trollmann, sfinito dal lavoro, viene ucciso a randellate da Cornelius che occulta l'assasinio e ne denuncia la morte come incidente. Solo nel 2003 agli eredi di Trollmann viene consegnata la sua cintura da campione, in una mesta e disertata cerimonia. Gustav Eder, che aveva abbattuto l'inerme Rukeli in una nube di bianco borotalco, morì anziano nel 1993. Trollmann finì la sua vita assassinato a Wittenberge da un criminale comune per aver vinto un incontro di boxe.

Giorgio Bezzecchi
vice presidente nazionale Federazione rom e sinti insieme



Rom, questione
di sguardi

Briciole è il nome dato al trimestrale del Cesvot (Centro volontariato Toscana) che raccoglie gli atti dei percorsi formativi svolti dalle associazioni di volontariato attive in Toscana. Il numero 32 (aprile 2012), dal titolo RomAntica cultura, è dedicato alla questione dell'“invisibilità ed esclusione del popolo rom” ed è curato da Valentina Montecchiari, Martina Guerrini e Valeria Venturini.
Gli interessanti contributi raccolti nella pubblicazione sono il frutto di un lavoro collettivo che indaga esperienze e tematiche di notevole rilevanza e attualità. Offrono uno sguardo plurale e articolato che pone interrogativi, suscita dubbi, e allo stesso tempo rappresentano un'opportunità di approfondimento per una formazione interculturale.
Merita un'attenzione particolare il saggio di Martina Guerrini Pratiche di dis-identità. La discriminazione sessista contro le donne romni in una prospettiva anticolonialista. L'autrice propone un rovesciamento di prospettiva dello sguardo rivolto alla donne romni, attingendo a una metodologia comparativa antropologica – già applicata allo studio delle donne migranti – che impone di ri-guardare con occhi più critici anche la nostra società.
Qual è lo sguardo con il quale la nostra società considera quella rom? Caratteristiche patriarcali e sessiste esistono solo nella tradizione rom oppure, in qualche misura, persistono anche nella nostra società, che si considera “più emancipata”? O anche quest'ultimo non è forse uno stereotipo? La nostra società italiana sembrerebbe abilissima nel costruire “immaginari” a proprio uso e consumo. Quale rappresentazione ne dà delle identità delle donne romni? Zingara cartomante e un po' strega. Girovaga e felice per il mondo. Allo stesso tempo, povera vittima di un arcaico mondo patriarcale violento e misogino.
Il nostro immaginario cristallizza in forme rigide, semplifica e schematizza laddove la complessità, il non definito caratterizzano la quotidianità. Quanto sfugge alle maglie del conosciuto viene ricompattato secondo un'ottica che predilige il controllo dall'alto. Con la presunzione di conoscere la cultura, il popolo rom quando invece ciò che si conosce è la nostra rappresentazione mentale del loro mondo. Ed è ancora più vero per le donne romni, delle quali si crede di conoscere i problemi, i bisogni, le aspirazioni. Ma l'ottica è deformata. Quindi, prevale la visione unidirezionale delle istituzioni e non la realtà variegata, multiforme, sfaccettata e mai definita una volta per tutte del popolo rom e delle romni in particolare. Siamo noi ad aver bisogno di dare loro un'identità circoscritta da assimilare o differenziare a seconda del momento, delle necessità. Così, prima imponiamo la nostra idea della loro identità, ci convinciamo di rispondere alle loro reali necessità, e infine siamo disposti ad assimilarli, a condizione che dimostrino di essere bravi ad accettare le nostre regole di convivenza.
Ancora – si chiede Guerrini – non è il nostro sguardo sessista a prevalere negli elementi discriminatori verso le donne romni? Le donne sono le uniche alle quali le istituzioni chiedono conto dell'educazione dei figli, e le si condanna se li portano con loro quando vanno a chiedere l'elemosina, perché ritenute responsabili di coinvolgerli in attività degradanti. Forse la nostra società sta mostrando interesse per la crescente sofferenza di minori in situazioni di disagio nelle nostre famiglie, e troppo spesso sottoposti a violenza? Oppure, le istituzioni stanno facendo abbastanza per contrastare la persistenza di stereotipi sessisti nell'ambito dell'educazione scolastica? Solo le donne romni sono vittime di violenza domestica e dell'accettazione sociale di tale violenza? Quali conclusioni si possono trarre riguardo alle nostre donne italiane appartenenti alla società cosiddetta emancipata? Sono magari più fortunate, con i massacri quotidiani perpetrati a loro danno dai loro stessi mariti, compagni, conviventi? Sono solo alcuni interrogativi sollevati da Martina Guerrini. L'invito è quello di uscire dai panni delle “emancipatrici delle altre”, ri-orientare lo sguardo giudicante in un'ottica che osservi il mondo rom senza occhi da gagè e, soprattutto, includa e consideri “la voce delle altre e degli altri” e ne accetti posizioni antagoniste. Un esempio? Accettare il rifiuto, da parte del popolo rom, di prender parte alla guerra gagè delle identità. Allora, oltre allo sguardo bisognerà riorientare anche l'itinerario del viaggio.
La provocazione di Marcello Palagi espressa nel titolo del suo saggio Volete un progetto? Non fate progetti! sembra calzare a pennello. Se i gagè, le istituzioni, i tribunali, le forze dell'ordine, l'assistenza sociale, le fondazioni, il volontariato insistono nel decidere al posto loro, significa che rom e sinti sono presi in considerazione solo come oggetto di provvedimento, rivolto a chi è giudicato come un “caso da risolvere”, un problema di ordine pubblico che riguarda un'umanità da contenere. Sì, perché rom e sinti sono considerati fermi allo stadio infantile e inetto, incapaci di decidere in modo autonomo. Una volta relegati a una condizione di genetica inferiorità è più facile instaurare rapporti di potere. Così si decide a tavolino una soluzione abitativa, senza averli interpellati in base alle loro reali esigenze. Si impongono modelli di vita gagè. Vengono sottratti i figli ai loro genitori in nome della presunta tutela dei diritti dei minori, senza contemplare il diritto dei minori di rimanere con i propri genitori.
Si stipulano patti di legalità legittimando una legalità diversa, cucita su misura. E poi ci si indigna se rom e sinti continuano a vivere come se il patto non esistesse. Ma è un patto non patteggiato, piovuto dall'alto, declamato dai rappresentanti delle istituzioni, che dettano regole, magari nemmeno capite dagli interessati. Prevalgono l'imposizione, la repressione. Confronto alla pari, mediazione, dialogo sono i grandi assenti. Eppure rom e sinti hanno una funzione politica importante: tengono allarmata l'opinione pubblica, che poi si coalizza per sostenere programmi politici antidemocratici. Non ci sono, infatti, controindicazioni a perseguitare i rom. E oggi il razzismo mostra la sua duplice faccia. La propaganda che fa leva sull'immagine dello straniero percepito come pericoloso, deviante, criminale influenza e autoalimenta sia il razzismo popolare, sia quello istituzionale. A sua volta, si verifica una ricaduta nelle modalità di intervento dell'assistenza sociale, delle amministrazioni pubbliche e si condizionano altresì le valutazioni dei giudici, con grande amplificazione anche da parte dei mass media. Allora, cosa rimane da fare, secondo Marcello Palagi? Niente! Se si vuole fare qualcosa di buono, non si facciano progetti. Nessun progetto per rom e sinti, quindi, ma difesa del loro diritto a decidere da soli di se stessi, a scegliere per se stessi. Un valido progetto? Essere solidali e rispettosi dei loro diritti fondamentali. A partire dal rispetto del loro diritto a una visione minoritaria, originale del mondo. Visione, in un certo senso, profetica e critica del presente.
Lo stesso giornalismo cova dentro di sé il germe del razzismo e della discriminazione. Lo sottolinea Lorenzo Guadagnucci in Giornalisti contro il razzismo. Come distruggere lo stereotipo negativo dei rom e degli immigrati. La questione immigrazione nelle varie redazioni – è risaputo – viene affidata ai cronisti di nera, ma i dati Istat confermano che non c'è correlazione tra i fatti reali, la criminalità in atto e il rilievo attribuito. L'enfasi sulla cronaca nera, il linguaggio usato negli articoli, le fonti considerate hanno portato alla falsa emergenza sicurezza. L'angolo visuale dei media è distorto. La discriminazione parte dall'uso del linguaggio. Al riguardo, nel 2008 il gruppo dei Giornalisti contro il razzismo ha messo in campo una proposta di autoregolamentazione. Al bando le parole tossiche. Clandestino. Perché evoca sospetto e la condizione di fuorilegge. Nomade. Si riferisce a un inesistente nomadismo, in quanto i rom e i sinti che vivono in Italia sono quasi tutti stanziali. Il termine serve però a giustificare la segregazione di gruppi familiari nei cosiddetti “campi nomadi”. Zingaro. Ha assunto nel tempo un'accezione dispregiativa ed è rifiutato dallo stesso popolo rom. Extracomunitario. Ha perso la sua originaria connotazione di extra rispetto alla Comunità europea e ora indica persone “extra” rispetto alla comunità maggioritaria, nel senso di “altre”, “escluse” per il colore della pelle o per la condizione di povertà. Ma il termine “extracomunitario” viene forse usato per indicare un cittadino statunitense o svizzero? Oppure per designare altre persone di pelle nera, ma famose nell'ambito del calcio, della moda o dello spettacolo? La Carta di Roma è un documento professionale importante per un uso del linguaggio rispettoso e non discriminatorio, pertanto tenuto a essere rispettato da tutti i giornalisti iscritti all'albo. Ma non basta. Guadagnucci sottolinea che anche ognuno di noi può dare un contributo rilevante. In che modo? Accogliendo l'invito a depurare l'immaginario comune dal lessico velenoso. Estirpare non solo nei discorsi pubblici, ma anche nell'uso quotidiano tutti quei termini impregnati di stereotipi mistificanti. Non solo. Serve una partecipazione ancor più diretta dei cittadini. Lettere al direttore, esposti all'ordine dei giornalisti, fino alla denuncia alla magistratura dei casi più gravi di violazione della deontologia professionale. Sono prese di posizione volte a contrastare queste forme di discriminazione, proprio a partire da un uso pubblico non stereotipato e stigmatizzante del linguaggio.

Claudia Piccinelli

Il volume è gratuito. Se si vuole scaricarlo in pdf (gratuitamente), si può farlo sul sito del Cesvot (cesvot.it).
Se invece si desidera il libro cartaceo (per malati della carta stampata e delle grandi librerie), si può richiedere a questo indirizzo, pagando le sole spese di spedizione: altra_info@yahoo.it.


Donne, con equilibrio
e tenacia


Ascoltare la rabbia di una donna è ascoltare l'urlo di tutti gli oppressi. E se avete timore di ascoltare la voce di chi lotta contro il proprio padrone, Dio o marito che sia, allora Funambole di Isabel Farah (Marco del Bucchia Editore, € 11,50) non è libro che fa per voi. Se al contrario avete il desiderio di aprire questo immenso vaso di Pandora, allora fatelo con tutta l'attenzione e la cura necessaria, proprio come fanno le funambole quando camminano sul filo sottile che le sorregge.
Sedici donne, sedici voci che raccontano storie lontane nel tempo ma tremendamente vicine al nostro presente; il mito greco e la sua storia ufficiale tutta al maschile per una volta sono ribaltati e denudati dalle maschere di ipocrisia che lasciano sentire dietro il “profumo di giustizia, la puzza di legge”.
La narrazione si tinge allora di rosso, come il sangue dell'oppressore ucciso, e di nero, come la rivolta “dinanzi al progetto della [propria] esistenza scritto da terzi”; la donna può finalmente gettare quegli abiti portati da anni per volontà altrui, scegliere di non vestire nessuna maschera e di non “interiorizzare nessun dogma” come gli uomini hanno invece fatto fino a perderne coscienza.
La sua rabbia si intreccia stretta con la voce di tutte le altre donne, il suo progetto di rivalsa a quello di tutte le compagne di cammino, proprio come il filo sottile, e al tempo stesso forte, che lega tutte le oppressioni ma anche tutte le ribellioni, un filo su cui le donne hanno imparato a camminare con equilibrio e tenacia, proprio come le funambole.

Laura Gargiulo

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