rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013


Orsetta Bellani

Quando la fine verrà

 

La sicurezza del potere si basa sulla insicurezza dei cittadini.
Leonardo Sciascia

Orsetta Bellani (La Spezia, 1982),
laureata in scienze della comunicazione a Bologna
e in relazioni internazionali a Genova, vive tra La Spezia e l'America Latina.
Giornalista free-lance, scrive su varie testate italiane,
latinoamericane, spagnole e statunitensi.
Dal 2011 collabora con la nostra rivista, principalmente con articoli
e reportage fotografici dall'America Latina.
Questo è il suo primo racconto pubblicato.



1. Oggi
Anche stamattina Anna si è svegliata alle 5.29, un minuto prima che la sveglia suonasse. Si è fatta una doccia e si è cosparsa di crema solare. Poi è tornata in camera e ha indossato una maglietta con su scritto “Incontro oltreumanista dei cittadini della Libertà”, macchiata da un alone d'olio più o meno al centro. Si è infilata i jeans, soffermando lo sguardo sullo strappo che li attraversa all'altezza delle ginocchia. Da ragazzina, all'inizio degli anni '90, li portava sempre così: lo faceva per imitare il cantante dei Nirvana e la sua compagna di banco, che aveva iniziato a portarli prima di lei. Ora, a più di quarant'anni, i jeans strappati li usa solo per lavorare.
È scesa in cucina, ha ingoiato una Pillola Blu e messo a scaldare il caffè di zucca. Non si può più far arrivare nulla da lontano: niente più caffè, banane, cacao, cotone. Le navi che per cinquecento anni avevano attraversato l'Atlantico e il Mediterraneo sono ora ferme nei porti.
Il caffè di caffè in Italia non cresce, e si beve caffè di zucca. Anna non ricorda il sapore del caffè vero, quella bevanda nera e forte che aveva accompagnato i risvegli di quasi tutta la sua vita, e le pare di non aver mai assaporato altro caffè che quello di zucca. “Caffè di zucca Torbellina, per iniziare bene la mattina”, dice la pubblicità alla tv.
Anna si è sdraiata sul tappetino per fare qualche esercizio per prolungare la vita. Ne ha imparati molti all'ultimo incontro oltreumanista e la fanno sentire bene. Poi ha preso Il Giornale d'Italia e si è seduta sul divano, strappando piccoli e rumorosi sorsi dalla tazza. Sfoglia sempre tutte le quattro pagine del quotidiano, e poi decide quale articolo leggere.

Torino. Piove a dirotto e pioverà anche domani”.
Padova. Tutti pazzi per lo spritz”.
Genova. Ottimo pesto se si aggiunge un poco di pecorino”.
Bologna. Virtus vince ancora campionato di basket”.

Bologna. Anna non è più tornata a Bologna da quando la Fine è passata: il viaggio sarebbe stato troppo lungo, e poi ora ha da badare ai campi. È fortunata Anna ad avere i campi, almeno ha da mangiare.
Con Petra all'università dicevano sempre che avrebbero lasciato la città per aprire un agriturismo. Anna ci è andata davvero a vivere in campagna, ma senza Petra, che chissà dov' è finita, e senza turisti. Nessuno viaggiava più.
Petra. Bologna. Anna ricorda ancora qualcosa, anche se è difficile scovare quelle immagini lontane nella sua memoria sterile. È una delle poche persone che riesce ancora a ricordare qualcosa, a ripescare alcuni frammenti del suo passato, e ci riesce grazie ai libri, che non ha venduto come hanno fatto quasi tutte le persone della sua Posizione. In realtà, sono anni che non legge più niente, ma non ha dimenticato l'intreccio di quelle storie, il significato di quelle parole.
E un tempo scriveva Anna, da ragazza scriveva moltissimo. Pensava che scrivere fosse necessario, le sembrava fosse l'unico modo per tendere verso qualcosa d'altro. Poi aveva smesso: la Fine era stato un periodo duro e ora che è passata bisogna badare ai campi, alla casa, alla vita. Ora non ci trova alcun senso nello scrivere.
Non ricorda se erano racconti, poesie o lettere quelle che scriveva. Ricorda solo che negli anni dell'università lo faceva con speranza e poi, quando aveva iniziato a sentire che la Fine stava per arrivare, scriveva con angoscia che il Liberismo aveva i giorni contati.

2. Oggi
Petra chiude il libro sulle ginocchia, imprigionando l'indice tra le pagine per non perdere il segno. Si appoggia lentamente allo schienale e chiude gli occhi, riflettendo su ciò che ha letto:

L'obiettivo della rivoluzione è dissolvere le relazioni di potere. Quello che non ha funzionato è l'idea che la rivoluzione significhi prendere il potere per abolire il potere. L'unico modo in cui si può immaginare oggi la rivoluzione è come la dissoluzione del potere, non come la sua conquista1”.

Si alza e va verso la finestra, fermandosi qualche istante davanti allo specchio, come fa ogni volta che ci passa davanti. Sistema i capelli dentro l'elastico che li racchiude, lasciando fuori qualche ciocca perché le cada sul viso e ne copra le imperfezioni. Poi si mette a posto la canottiera in modo da farla aderire al bordo del reggiseno e lo nasconda, senza però coprire completamente i seni che le piace mostrare. Le sembrano molto belli e non le dispiace se qualcuno ci fa caso.
A Petra è sempre piaciuto curare il suo aspetto, e non trova in questa esigenza nessun tipo di incoerenza con le sue idee politiche. Il femminismo è per lei un progetto politico, una forma nuova di intendere i rapporti familiari, lavorativi e amicali. Sa che la serenità nel rapporto con se stessa passa anche per l'estetica: non è mai stata una persona appariscente ma le piace mostrare una bellezza che necessita di una certa cura. A volte, ma questo non lo ha mai detto a nessuno, le capita di farsi bella non per se stessa, ma perché un uomo la guardi.
Il suo sguardo lascia lo specchio e si rivolge alla finestra poco più in là. L'ufficio è collocato nel seminterrato di una vecchia villa liberty e dalla finestrella al livello della strada si vedono solo il manto di foglie secche che copre il suolo, e i tronchi ordinati degli alberi del giardino trascurato e deserto della villa.
Spesso immagina il mondo oltre il muro fitto di alberi e foglie, la vita di quelle persone che rinchiudono il proprio grido tra le costole, nascondendolo in un lavoro massacrante. Li stuzzicheranno finché impareranno a gridare nuovamente.
«Ti stiamo aspettando di là, Petra. Siamo pronti per la riunione», dice una ragazza affacciandosi dalla porta.
«Arrivo.»

3. Oggi
Anna getta a terra le forbici con cui sta potando le viti e corre in casa per rispondere al telefono. Le sembra strano sentirlo squillare, non la chiama mai nessuno.
«Pronto.»
«Anna?»
«Sì?»
«Sono Petra, ricordi?»
«Sì, certo» dice Anna stupita.
«Ora non posso parlare. Riesci a venire alle 4 sotto il monumento al Campione di Piazza Vittorio Mangano?»
«Ok.»
Riattacca. Dopo anni di silenzio Petra, ma cosa vuole? Sente una sensazione forte all'addome, era tempo che non provava nulla e si deve sedere. Da qualche parte dentro di sé scova i ricordi di quel tempo che le pare lontanissimo, immagini che sembrano far parte della vita di qualcun altro.
Non è possibile che fosse lei la ragazza che girava in bicicletta nella zona universitaria di Bologna, che distribuiva volantini in Piazza Verdi. Riesce a dare un volto alla voce di Petra e un luogo: il 36 di Via Zamboni. Era al 36 che andavano a studiare, mentre le riunioni le facevano a casa di Aldo. Erano in pochi ma sicuri di raggiungere il loro scopo. Poi erano nate delle divergenze: Anna voleva costituire un gruppo armato, voleva farlo fuori il Mercato, eliminarne tutti gli ingranaggi uno a uno. Petra e gli altri non erano d'accordo, dicevano che la lotta armata non aveva più senso, che l'avevano sepolta le Brigate Rosse con l'omicidio di Guido Rossa. Volevano mettere in crisi il sistema dall'interno.
Anna aveva deciso di lasciare i suoi amici e dopo la laurea si era trasferita a Milano, dove ottenne un contratto co.co.pro. Fu lì che iniziò a leggere la Fine dappertutto: ogni cosa che la circondava, ogni evento in cui si trovava coinvolta, la portavano a pensare che la Fine fosse inevitabile. La vedeva ogni mattina in metropolitana, quando si sedeva sulla panchina fredda ad aspettare il treno, osservando gli annunci pubblicitari che si susseguivano sul megaschermo. Leggeva la Fine negli occhi della prostituta che le si sedeva accanto, nei gesti violenti con cui i vigili sequestravano le borse di Dior taroccate ai cinesi nel sottopassaggio. Percepiva la Fine nell'entusiasmo con cui i suoi colleghi passavano le domeniche al centro commerciale.
Sentiva con chiarezza che il Mercato stava cedendo, che tutto sarebbe crollato. Usciva di casa la notte per scrivere sui muri che la catastrofe era inevitabile, che ormai non c'era più modo per rimediare. Così che tutti lo sapessero, che si preparassero.
Quando poi la Fine arrivò nessuno era abbastanza preparato per accoglierla, neanche Anna, che la aspettava da tempo. Si presentò all'improvviso la Fine: l'ultimo giorno di Liberismo fu per Anna un giorno come un altro. Il giorno dopo, invece, lo passò guardando attonita il cadavere del Mercato in Piazza Duomo, davanti alla Rinascente.

4. Oggi
Anna si fa un'altra doccia per lavarsi via la terra e si cosparge nuovamente di crema solare. Ha la pelle molto chiara e il sole, i cui raggi ormai non incontrano più ostacoli tra la sua orbita e la superficie terrestre, batte fortissimo.
In sala il vecchio televisore a colori trasmette il Messaggio Giornaliero del Campione:

Cittadini tutti, sono lieto di annunciarvi che il progetto di sperimentazione riguardante l'impiego di paraumani nell'agricoltura sta conducendo ad ottimi risultati: gli Amici della Libertà sono pienamente soddisfatti del lavoro che questa nuova tecnologia sta portando avanti nelle loro piantagioni. Oggi è una grande giornata per la nostra democrazia: oggi affranchiamo l'uomo dai lavori più pesanti e li affidiamo ad esseri capaci di lavorare senza sosta. Ancora una volta siamo stati in grado di migliorare le condizioni dell'uomo: una nuova tappa per il progresso, un nuovo gradino verso la libertà. Viva la Democrazia! Viva la Libertà! Viva il Progresso! Viva il Campione!”.

Anna tiene spesso la tv accesa ma non la guarda quasi mai. Lo faceva anche sua nonna mentre cucinava, quando Anna era piccola: la tv passava quiz, telenovelas e talk show, ma sua nonna si riposava dai lavori domestici solo per guardare il Tg4.
Chiude il recinto che delimita la sua proprietà e s'incammina. Ci vogliono almeno tre ore per arrivare in città a piedi, ma l'autobus costa troppo. Nessuno della Posizione Media possiede auto o moto, la bici gliel'hanno rubata e i trasporti collettivi arrivano a costare fino a 10 soldi a viaggio.
I trasporti collettivi sono una delle maggiori fonti di guadagno per quelli della Posizione Alta, gli Amici della Libertà. Possiedono i veicoli e le immense piantagioni in cui coltivano astrim per far andare i motori. La grande siccità che è iniziata prima della Fine s'è inghiottita quasi tutto il sud, ma l'astrim cresce comunque, e chi possiede terreni abbastanza grandi da renderne redditizia la coltivazione è diventato ricchissimo. Sono tutti latifondisti quelli della Posizione Alta, i primi discepoli delle teorie oltreumaniste del Campione.
La terra è l'unica fonte di ricchezza che è rimasta. Le fabbriche hanno chiuso e l'Autarchia ha sostituito il Mercato. Autarchia e autoproduzione, è stata una scelta obbligata: non si sente parlare di carburanti fossili da più di dieci anni, e il prezzo dell'astrim per muovere le fabbriche è così alto che hanno dovuto tutte chiudere. Non si importa e non si esporta, non si viaggia.

5. Oggi
Anna passeggia con piacere sul cammino di terra battuta che difficilmente si trova a percorrere. A fianco del sentiero si snoda la strada asfaltata, lungo la quale gli scheletri delle industrie si sciolgono lentamente e rilasciano i loro liquidi fetidi nel terreno. Un tempo dal paese sulla collina si sentiva il sibilo continuo delle auto e dei tir che correvano sulla strada, oggi interamente ricoperta di buche. Grazie a quel ricordo, Anna è in grado di apprezzare il silenzio e la pace che ora avvolgono la valle.
Alcune nuvole coprono il cielo terso, creando macchie d'ombra sui campi di astrim dove lavorano instancabilmente i paraumani. Originati a partire dall'innesto tra genomi umani ed animali, i paraumani rappresentano una nuova classe di lavoratori, creata a seconda delle esigenze dell'impresa che ne fa richiesta. Un'invenzione che rivoluzionerà il mondo.
A pochi metri dall'entrata della città, un corridoio di sacchi di sabbia obbliga il passaggio verso una torretta di cemento. All'interno, due militari con il volto coperto da una maschera nera seguono la linea dell'orizzonte con armi di lunga gittata. I colleghi ai piedi della torretta nascondono la fronte umida sotto gli elmetti verdi, imbracciando i fucili come fossero semplici protesi delle loro tute mimetiche.
«Polso, prego.»
Anna offre il suo polso al militare, che lo passa attraverso una fotocellula.
«Scopo della visita in città?.»
«Visita di piacere.»
«Chi deve incontrare?»
«Una vecchia amica.»
Il ragazzo, che giocherella con il dito sul grilletto del fucile, legge su un monitor i dati contenuti sul cheap impiantato nel polso di Anna.
«Alla sua Libera Credenziale Elettorale manca un timbro di presenza.»
«Ero gravemente malata» si giustifica estraendo un certificato medico dalla tasca. «E come può leggere dal cheap non mi sono persa un Incontro Oltreumanista.»
«Il coprifuoco inizia alle 22, può passare. Viva il Campione!» dice il militare più giovane dopo averla ispezionata con uno scanner.
«Viva!»
Da molto tempo Anna non andava in città e la trova più vuota e spenta dell'ultima volta. In Piazza Vittorio Mangano c'è una donna davanti al monumento del Campione: ha un maglione nero con il collo alto e i capelli castani raccolti in una coda. Lo sguardo è quello di Petra. Anna contrae i muscoli della schiena, Petra va verso di lei e quando si trovano a pochi passi le sorride negli occhi. Anna sente le braccia dell'amica avvolgersi intorno al suo corpo ossuto e stringerlo forte. La sente ridere per l'emozione, con il mento appoggiato alle sue spalle, mentre il corpo di Anna s'irrigidisce sempre più. Prova un senso di fastidio ed inadeguatezza: si chiede perché sia corsa fin lì e non trova risposta.
«Andiamo» dice Petra con gravità, sciogliendosi dall'abbraccio. «Intanto ti spiego.»

6. Oggi
La cantina è umida e buia, ma è evidente lo sforzo che è stato fatto per renderla accogliente. Al centro un grande tavolo tondo, circondato da sedie con lo schienale di paglia, riempie tutto lo spazio disponibile. Su una parete è appesa una caricatura di Francesco Darini, l'uomo che ha condotto l'opposizione verso la Fine, che non è stato in grado di proporre un'alternativa all'avanzata del Campione e trasformare la crisi in opportunità.
Un ragazzo con la barba incolta e i capelli rasati prende la parola: «Compagne e compagni, siamo qui chiamati a decidere del nostro futuro. Decidere se continuare a sopportare passivamente questa dittatura che ci atrofizza il cervello o organizzarci per prendere il potere e porlo al servizio del popolo. É una discussione che affrontiamo da tempo, e mi sembra che sia per tutti ormai chiaro che è arrivato il momento di imbracciare le armi, distruggere il sistema attuale e crearne uno nuovo e giusto» disse battendo rumorosamente la mano sul tavolo.
Un brusio di voci e sguardi riempie la stanza, ma s'interrompe quando Petra si alza, creando un silenzio pieno di aspettative: «Compagne e compagni, dicevano che la Crisi economica sarebbe passata come tutte le altre crisi cicliche del capitalismo, ma così non è stato. Il Liberismo è finito, generando panico e riportandoci al sistema feudale. Come in altri momenti della storia la crisi non ha prodotto rivoluzione, ma fascismo. Invece che condurre ad una riflessione collettiva, ha segnato la morte di ogni tipo di dibattito. Basta con questo regime tecnofascista, con queste teorie oltreumaniste che si fingono a disposizione del benessere umano. Gli Amici della Libertà sono i soli a beneficiare del progresso scientifico, dell'allungamento della vita dell'uomo. Noi siamo sempre più poveri e povere, costrette a lavorare come mule. Ma oggi la dignità di cui ci hanno private ritrova la sua rabbia. Non vogliamo paraumani che lavorino i campi, vogliamo che tutti abbiano il proprio campo. Vogliamo la riforma agraria. È questo che faremo quando il potere sarà nelle nostre mani, nelle mani del popolo: riforma agraria. Uomini e donne, della Posizione Bassa e di quella Media, è arrivato il tempo della rivoluzione.»
Tutti i presenti si alzano in piedi applaudendo. Petra urla a gran voce: “Potere al popolo, morte al Campione” e l'assemblea le fa eco.
Anna è rimasta seduta. Ha voglia di uscire da quella cantina. Si domanda cosa faccia lì, in quella stanza invasa da una retorica che appartiene a generazioni passate, a chilometri di distanza dalla sua casa, dal suo campo, dalle sue sicurezze.
La realtà così com' è le va bene: ha il suo terreno che le permette di mantenersi nella Posizione Media e del resto non le importa. Si perde nei suoi pensieri: tutto il lavoro che oggi ha tralasciato e che dovrà fare domani, i panni da lavare nel cesto del bagno, la puntata di “Sospirando” che si sta perdendo.

7. Oggi
Fuori sta facendo buio. Il vento s'infila dentro la giacca di Anna, gonfiandole le maniche. Accende una sigaretta e guarda le colline dietro la città: erano verdi un tempo, ma ad Anna sembra siano sempre state aride. Ricorda poco di quando, da ragazzina, saliva fin lassù per guardare il mare. Si sedeva sulla panchina davanti alla chiesa di Marinasco verso l'ora del tramonto e osservava in lontananza i pescherecci che uscivano in mare, le navi cariche di container entrare nel porto, le nuvole rosse che il buio assorbiva lentamente.
Le piacevano soprattutto le barche a vela, che segnavano la loro rotta in silenzio. Ora nessuno ha più il coraggio di uscire con una barca a vela, vista l'incredibile forza che il mare è capace di scatenare. Ora il mare, sempre disabitato, non è più un'entità che divide e unisce le terre, ma una superficie bagnata che abbellisce il paesaggio e segna l'infinito.
Anna si avvicina a Petra per salutarla.
«Non te ne andare così» dice Petra. «Vieni, ti offro una birra nel bar qui a fianco. É di un compagno e possiamo fare due chiacchiere tranquillamente.»
Anna non ha voglia di chiacchierare, ma non riesce a dire di no.
Il locale è quasi deserto, come sono sempre tutti i bar. Scelgono il tavolino più isolato e ordinano una birra chiara. Anna è tesa e impaziente.
«Come hai fatto a trovarmi?» La domanda le gira in testa da quando ha riagganciato il telefono.
«Ti ho semplicemente cercata. Dove vivi esattamente?.»
«Sulla collina ovest, nella casa che era dei miei. Quando ero piccola spesso passavamo lì il fine settimana.»
«Ti sei sposata?»
«Sì, ma ora non la sono più» risponde Anna leggermente imbarazzata. Non ha certo voglia di trattare questioni personali.
«Che ne pensi della riunione?» chiede finalmente Petra accarezzando con l'indice il bordo del bicchiere.
«Senti Petra» risponde gonfiando il petto, «io non so perché mi hai chiamata dopo tanti anni, dopo tutto quello che è successo. Io non so come sia la tua vita, ma ti assicuro che la mia va più che bene com'è.»
Petra abbassa lo sguardo un istante, per poi riportarlo con affetto su Anna.
«Ti ho chiamata perché malgrado quello che è successo fra di noi non ce l'ho mai avuta con te. Ti conosco bene e so quanta rabbia ed indignazione puoi provare. Non ci credo che tu sia soddisfatta della tua vita, solo agli Amici della Libertà le cose possono andare bene come stanno.»
«Che ne sai tu della mia vita? Io sono felice.»
«Dì un po', prendi delle pillole, vero? Quelle blu scommetto.»
«Stai esagerando», dice Anna alzando la voce. Fa per andarsene ma Petra le immobilizza il braccio al tavolo.
«Aspetta Anna. Non essere impulsiva, aspetta.»
Anna si risiede senza capirne il motivo. Fuori il buio ha avvolto la piazza, illuminata da un'unica e piccola torcia.
«Non lo vedi come ci hanno ridotti? Ci hanno tolto la dignità, la vita, la capacità di ricordare. È una dittatura questa, come quella che hanno vissuto i nostri nonni.»
«Ma che dici?»
«Sì, Anna, è una dittatura postmoderna quella che viviamo. Lo era già prima della Fine, ma eravamo troppo ciechi per rendercene conto. Si sono radicati nel potere così profondamente da diventare essi stessi il potere: il Campione ha televisioni, giornali, catene di negozi, controlla le banche. E quelle pillole....»
«Le pillole rappresentano un grande progresso per l'umanità», la interrompe.
«Pensaci bene. Stanno modificando l'essenza dell'essere umano, e a loro vantaggio. L'allungamento della vita riguarda solo loro, noi non avremo mai abbastanza soldi per intervenire sul nostro cervello ed aumentarne le potenzialità, anche se esiste la tecnologia. Moriremo di fatica lavorando i campi e prendendo pillole colorate che ci stabilizzano l'umore e ci inibiscono il cervello. E questa novità dei paraumani. Lo chiamano progresso dell'umanità, ma è solo un modo per sottometterla.»
«A me non interessa, Petra. Anzi, sono contenta che il Campione si sia fatto Oltreuomo, mi da sicurezza saperlo. È ora che me ne vada.»
Anna si alza, raccoglie la giacca ed usce senza voltarsi. La radio passa una vecchia canzone dei Baustelle che dice “Vivere per sempre, ci vuole coraggio”. Ora sembra una frase ironica.

8. Oggi
Gabriele ha paura. Ne ha da quando all'ospedale pubblico gli hanno diagnosticato la malattia, ed è cresciuta con l'inizio dei vuoti di memoria.
Si siede davanti alla scrivania e accavalla le gambe. L'ambiente asettico del laboratorio lo mette a disagio e gli sembra strano vedere un laboratorio così moderno nel seminterrato di una villa liberty diroccata. È già stato un paio di volte nel quartier generale, ma non conosce quell'ala dell'edificio.
«Io sono Antonio Parodi. Il mio collega dottor Cozzani oggi non è potuto venire, è molto dispiaciuto.»
«Sì, mi ha avvisato.» Gabriele è stupito: Cozzani gli aveva detto che il collega era molto giovane, ma quel ragazzo avrà avuto sì e no vent'anni.
«Come si sente, compagno?» chiede Antonio Parodi.
«Confuso. Non credo a questa storia dell'influenza che raccontano, secondo me è una bufala, ma vivo in un stato di tensione costante. A volte ho dolori fisici insopportabili che non so a cosa imputare, e quei vuoti di memoria.»
«Mi può spiegare cosa intende con vuoti di memoria?»
«Mi riferisco al passato più recente. Mi mancano dei giorni.»
«In che senso? Mi può spiegare cosa le è successo?»
«A fine luglio sono stato in un ospedale pubblico a causa di una forte bronchite e mi hanno diagnosticato un'influenza di tipo ovino. Io non gli ho creduto, sono loro le pecore! Lo so che lo fanno solo per intimorirmi. Sa, io sono stato prigioniero politico, loro sanno come la penso.»
«Senza dubbio» dice Antonio Parodi annuendo.
«Da agosto in poi iniziano i vuoti di memoria. Mi capita di non poter ricordare neanche un solo minuto del giorno precedente, come se non fosse esistito. Questo sì, mi turba molto. E nello stesso periodo ho pure iniziato a perdere l'appetito, e tanti chili.»
Antonio Parodi lo guarda attentamente. Ha gli zigomi sporgenti, e due occhi azzurri e spenti incavati profondamente nel cranio. La pelle ha il colore del legno di ulivo.
«Non deve temere. Procederemo alle analisi nel modo più accurato possibile e scopriremo cosa sta succedendo. A lei come a tutti noi.»

9. Oggi
Appena uscita dalla porta del bar, Anna sente il sollievo dell'aria fresca pungerle il viso. S'incammina nella sera, che è riuscita a infilarsi in ogni angolo della città: si è stesa lentamente sui palazzi, coprendo di buio tutto ciò che tocca. Poi compaiono le stelle, disordinate come delle briciole cadute su una tovaglia.
L'illuminazione pubblica da anni è quasi inesistente e le torce che puntellano le strade sono poche e deboli. Per un decreto del Campione del 2016, le case devono spegnere le luci a partire dalle nove di sera. Ora, vista da lontano, la città di notte non sembra più una campagna piena di lucciole.
Si può però indovinare ancora il profilo delle colline che circondano la città e il contorno delle case vicino al molo, dalla parte opposta. Anna ricorda di quando, da ragazzina, passava le sere d'estate con le amiche sul lungomare: si spostavano da una panchina all'altra, cercando di attirare l'attenzione dei gruppetti di ragazzi che passeggiavano.
Non c'era ancora Petra allora. Era arrivata molto dopo, quando in Anna la rabbia era talmente forte che durante la lezione di storia contemporanea le tremavano le mani. Petra, seduta due file più avanti nell'aula IV di Via Zamboni 38, masticava in continuazione il cappuccio di una Trattopen.
Anna iniziò una nuova vita con Petra e i suoi amici, scoprì un mondo dove poter sfogare quel tremolio che le intrappolava le mani. Ma ora le mani non le tremano più: il lavoro nei campi le ha rese forti e ruvide.
Anna decide che quel bar sarebbe stato l'ultimo ricordo di Petra. Si lascia invadere dalla pace della notte deserta, e sente di lasciare poco a poco dietro sé il pesante ricordo della discussione. Il nocciolo duro che si ancora creato sotto il suo sterno si va piano piano sciogliendo.

10. Oggi
Anna riempie la tazza di caffè di zucca ed usce nel cortile per bagnarsi del tepore del primo mattino. Il sole spunta da dietro la montagna mangiata dalle cave, e sparpaglia i suoi raggi in mare. È rimasta solo la cima della Pania a ricordare di quando la montagna, coi suoi picchi striati di marmo, riempiva l'orizzonte. Pietra per pietra, lastra di marmo per lastra di marmo, la montagna ancora andata pian piano assottigliandosi, e la sua anima bianca e dura si ancora sparsa nei bagni dei ricchi di tutto il mondo, negli atri, nelle colonne che sorreggono le loro case.
Anna raccoglie il Giornale d'Italia che trova ogni mattina davanti al cancello. C'era ancora un unico titolo quella mattina, a caratteri più grandi del solito:

Scoperto focolaio di nuova febbre mortale: sarà presto pandemia”.

L'articolo, che copre tutte le quattro pagine, racconta che nella provincia di Campobasso una decina di persone sono state colte da un'improvvisa influenza ed erano morte nel giro di un paio di giorni. La febbre, spiega l'articolo, sembra essere di origine ovina e si trasmette con la facilità di una normale influenza.
Anna chiude il giornale sulle ginocchia e sospira abbandonandosi contro lo schienale della poltrona. Accende la tv sperando di essere in tempo per ascoltare il Messaggio Giornaliero del Campione.

Cittadini tutti, oggi la Nazione si è svegliata con una terribile notizia. Una notizia che ci riempie di angoscia e timore: un nuovo e sconosciuto morbo si sta propagando fra le nostre case.
Gli incredibili progressi a cui la scienza ci ha condotti negli ultimi anni ci permettono di assicurare una risoluzione del problema, ma fino a quel giorno è necessario, Cittadini tutti, che collaboriate con il vostro comportamento al benessere della Nazione. La rapidità con cui questo virus si propaga ci ha costretti ad adottare misure drastiche, ma necessarie:
1. Vietato salutare dandosi la mano.
2. Vietato salutare baciandosi, e baciarsi in generale.
3. Obbligo di indossare la mascherina copribocca per strada e coprirsi il più possibile.
4. Obbligo di lavare le mani ogni mezz'ora.
5. Vietato parlarsi ad una distanza inferiore al metro e mezzo.
6. Vietato parlare o riunirsi con più di tre persone alla volta.
Seguiranno specifiche misure per i locali pubblici, riguardanti la distanza minima a cui sistemare i tavoli, l'orario anticipato di chiusura e il divieto di trasmettere musica ed organizzare eventi culturali.
Mantenete la calma Cittadini: il Campione sta lavorando per la Nazione. Viva la Democrazia! Viva la Libertà! Viva il Progresso! Viva il Campione!”

Forse un'altra Fine sta arrivando, forse questa malattia porterà a una vera conclusione, al termine di tutto ciò che di umano è ancora presente nel mondo.
Anna ha paura: e se la febbre fosse già arrivata in paese, avesse già contagiato i suoi vicini? Si alza e chiude la porta con il catenaccio. Così che i muri della sua casa la proteggano, e non entri neanche un sospiro di quell'aria infetta.

11. Oggi
È una settimana che Anna non usciva di casa e non ha nessuna voglia di farlo, ma deve pagare la bolletta dell'acqua per non rischiare che le taglino il servizio di fornitura. Da quando luce, gas e acqua sono stati “nazionalizzati nelle mani degli Amici della Libertà”, i prezzi sono parecchio aumentati. Ma Anna non si lamenta: la luce c'è quasi sempre, l'acqua è spesso calda e si sente in un certo senso parte delle compagnie di gestione dei servizi. “Quello che è nelle mani degli Amici della Libertà è anche nelle tue”, dice il manifesto negli uffici pubblici.
Anna passa gli elastici della mascherina dietro le orecchie per fissarla bene al viso, e isolarsi il più possibile dall'aria malsana che si respira al di fuori della sua proprietà. Chiude il cancello, percorre il sentiero di terra battuta e si avventura nei vicoli del paese, che da quando è stato proclamato lo stato di pandemia sono quasi deserti. Le ronde civili picchiettano i manganelli sul palmo della mano, annoiate per la mancanza di lavoro.
Anna apre la pesante porta dell'ufficio postale e inspira profondamente, come se si potesse mantenere in apnea per tutto il tempo che avrebbe passato lì dentro. Non appena rilassa i polmoni e il suo respiro riprende un ritmo normale, si sente invadere dell'aria viziata di quel luogo. Le sembra di poter ascoltare il rumore dei batteri che si muovono, invisibili e minacciosi, nello spazio che la circonda. Le pare di sentirli penetrare le strette maglie della mascherina che le copre naso e bocca, e depositarsi sulle pareti dei suoi organi interni.
Si mette in fila davanti allo sportello e guarda le persone al suo fianco: non hanno una semplice mascherina copribocca come la sua, ma maschere che lasciano scoperti solo gli occhi, e guanti di lattice trasparente che arrivano fino al gomito. Avverte che ciascuna coppia di occhi che spunta da quelle maschere di plastica dura e nera la sta osservando con severità. Un dubbio la colse: e se fosse proprio lei la portatrice di quel male incurabile? Se quel virus mortale si fosse già impadronito del suo corpo?
Proprio Anna, che si crede tanto cauta, è in realtà la meno rispettosa delle misure straordinarie disposte dal Campione. Pensa che quell'inutile copribocca non impedirà ai germi presenti nel suo sangue di spargersi nell'ambiente sterilizzato dell'ufficio postale, ed uccidere tutti con la rapidità di una fucilata.
Si gira verso il fondo della stanza per scappare dagli sguardi accusatori. È lì che vede Gabriele, chinato sul tavolino nel tentativo di compilare un bollettino postale. Esibisce con arroganza il viso scoperto: gli era sempre piaciuto comportarsi in modo anticonformista per farsi notare, mostrarsi diverso dagli altri per urlare al mondo la sua esistenza.
Anna paga velocemente il bollettino e si dirige decisa verso l'uscita, per tuffarsi finalmente nell'aria aperta che circonda l'edificio. Spera che Gabriele non si accorga di lei e si possa così sottrarre ad una conversazione noiosa ed inutile. Quando muove il primo passo verso la salvezza, sente una mano grande e calda appoggiarsi sulla sua spalla, e una voce familiare pronunciare il suo nome.
«Ti vedo proprio bene», le dice Gabriele non appena Anna si gira verso di lui.
Indossa una camicia di flanella a quadri bianchi e blu. Dalle maniche rimboccate escono le braccia forti e sicure che tante volte l'hanno raccolta. Gabriele studia il viso di Anna con interesse e tenerezza.
«Anche tu mi sembri in forma. Sei dimagrito se non sbaglio.»
«Già. A lavorare tutto il giorno nel campo si fa una gran fatica. Ora abito nella casa qui a fianco, vieni su che ti preparo un tè?.»

12. Oggi
«E così sei venuto a vivere in paese», dice Anna guardandosi attorno.
Gabriele è in piedi al suo fianco, appoggiato al bordo del tavolo della cucina. «Preferisco non vivere isolato, mi piace stare in mezzo alla gente. Certo, la mattina per arrivare fino al campo mi devo svegliare prestissimo.»
«E il lavoro come va?», chiede Anna senza interesse.
«Ora bene, ma ho passato un periodaccio», risponde Gabriele assumendo improvvisamente un'espressione seria. «Un giorno mi arriva una lettera degli Amici della Libertà, con tanto di timbro e tutto il resto: volevano espropriare il mio terreno per costruire un centro benessere per la Posizione Alta. Dicevano che si trattava di un esproprio per motivi di “interesse collettivo”, e la collettività mi avrebbe indennizzato con mille Soldi. Cosa ci faccio io con mille Soldi? Ci compro dieci chili di caffè di zucca, e poi?».
Gabriele si siede davanti ad Anna, dalla parte opposta del tavolo. Accende una sigaretta ed inizia a molestare la punta incandescente contro il posacenere. «Mi sono unito agli altri contadini che avevano ricevuto l'ordine di esproprio: abbiamo manifestato, bloccato strade, sabotato i camion dell'impresa di costruzione. É stato duro, Anna: la repressione è stata tagliente come immaginavamo. Una settimana chiuso in una caserma, torture, umiliazioni, ma non sono riusciti a togliermi la dignità. Ogni scarica di energia elettrica che mi ha attraversato il corpo è servita solo a far crescere la mia rabbia. Quando mi hanno liberato sono tornato dai miei compagni e ho continuato a lottare. Alla fine abbiamo vinto.»
Anna lo guarda con compassione. Gabriele le prende le mani fra le sue: «Ti ho pensato tanto mentre ero in isolamento. Il pensiero di te mi dava forza.» Si alza dalla sedia e si china verso di lei. Anna si gira di scatto non appena avverte i peli della barba incolta di Gabriele pungerle la pelle.
«Che fai? Ci abbiamo messo due anni per lasciarci. Che senso avrebbe baciarci ora? Non ti voglio più, Gabriele, non ti amo e non ti desidero» lo pugnala con tono finale.
«Io non so che t'è successo» dice Gabriele lasciandosi andare sconfitto sulla sedia. «Quando ti ho conosciuta eri così impulsiva, così passionale. E non solo a letto: vivevi tutto con passione.»
«Mi è successo che mi sono accorta che non ha senso vivere la vita sognando di averne un'altra. Si può essere felici solo accettando ed approfittando di ciò che si ha di bello.»
«Pillole Blu, vero?» la provoca Gabriele.
«Smettila, per favore. Sembri Petra.»
«Hai visto Petra?»
«Sì, ma non è stato un incontro piacevole. Ha perso completamente la testa.»
«Petra è una persona lucidissima. É forte e carismatica, è la persona adatta ad essere il nostro leader», dice Gabriele alzandosi in piedi.
«E sei sicuro che il tuo leader quando avrà il potere si comporterà in modo diverso dal Campione? Che forma di governo avete intenzione d'imporre dopo la vostra rivoluzione? La dittatura della Posizione Media?»
«Il potere non sarà suo, sarà del popolo. Petra sarà solo il tramite che permetterà al popolo di governare. La Posizione Alta non avrà più latifondi dove incarcerare la Posizione Bassa, l'estensione della proprietà sarà limitata a quella coltivabile da una persona, non esisteranno più braccianti, salariati e paraumani. La terra sarà di chi la lavora.»
«Questa l'ho già sentita più di una volta», dice Anna senza più nascondere il nervosismo. «Non avete studiato la storia tu e i tuoi compagni? Continuate a pensare che tanto potere nelle mani di una persona possa portare alla giustizia? Siete degli illusi, sei un illuso Gabriele», urla fissandolo negli occhi, con aria di sfida. «E perché non usi la mascherina? Pensi che la tua ideologia ti possa difendere dal virus?»
«Non c'è nessun virus, Anna. È un'invenzione degli Amici della Libertà per creare il panico. Già hanno fatto passare leggi contro il diritto di riunione ed altre libertà civili: hanno fiutato la nostra presenza, la presenza di un'opposizione che si sta organizzando.»
«Ti rendi conto che ti ostini a negare l'esistenza di una cosa che ha già ucciso centinaia di persone? Sei sempre stato pieno di te ma ora...» dice Anna prima di chiudere la porta dietro di sé e scomparire tra i caruggi del paese.

13. Oggi
Anna apre le cassette delle verdure ed inizia a sistemare le zucchine sul banco. Le piaceva disporle parallele fra loro, facendo in modo che i grandi fiori gialli e arancioni siano ben visibili ai passanti. I pomodori invece li impila a piramide, preoccupandosi di nascondere le ammaccature.
Un boato rompe il silenzio che invade il mercato, svuotato dalla paura dell'influenza ovina. Anna si affaccia dalla colonna che impedisce la vista della strada: in lontananza si scorge un mucchio di persone che si avvicina urlando minacciosamente, sventolando bandiere e impugnando pali di legno. Un carroarmato passa davanti al banco di Anna, diretto verso il corteo.
In pochi istanti, una nebbia densa e lacrimogena riempie l'aria. Anna sa di non poter lasciare il suo banco incustodito: quei pazzi estremisti lo saccheggerebbero. Rimette velocemente la verdura nelle cassette di legno e le carica sul carretto. Copre tutto con un telo e inizia a spingere il suo carico, che le sembra pesantissimo, verso casa. Parcheggia il carretto dentro la sua proprietà, scosta un poco il telo che lo copre e trova due occhi grandi e neri che la fissano impauriti.

14. Oggi
Il vento che soffia sul molo è gelido. Dopo una serie di giornate soffocanti è finalmente piovuto, abbassando la temperatura ai livelli stagionali.
Petra sorride guardando il berretto di lana blu che Paolo tiene calato fino agli occhi: sembra un vecchio lupo di mare. È abituata a vederlo in calzoncini corti, come sa che lo rivedrà presto: malgrado sia autunno, la temperatura non regge sotto i venti gradi per più di due giorni consecutivi.
Il sole si sta posando dietro le colline alle loro spalle, striando di rosa le nuvole setose. I lampioni che costeggiano il molo sono ancora lì, malgrado non funzionino da decenni. In pochi minuti arriverà il buio.
C'è silenzio sulla banchina, e tutto sembra essersi fermato a prima della Fine, quando era un via vai di pescherecci, containers e pilotine. I containers, svuotati dalle razzie nel periodo del Caos, macchiano di ruggine buona parte del golfo, nella zona dove una volta c'era il porto mercantile. Ora era fermo il porto, fermi i containers, fermi i pescherecci attraccati alla banchina. Ma sono ancora lì, disposti in fila uno accanto all'altro, con le boe e i palloni per pescare i tonni appesi ai lati, e le reti marce accatastate sul pontile.
Petra e Paolo si fermano di fronte al peschereccio Michelangelo, guardandosi attorno per assicurarsi di non essere stati seguiti. Non c'è nessuno sulla banchina del molo, attraversata solo dal sibilo del vento.
Paolo salta sul ponte di Michelangelo e tende una mano a Petra per aiutarla a salire. La accompagna sotto coperta, dove l'odore nauseante della nafta si mischia con un forte tanfo di pesce. Sul fondo della cabina Paolo scosta un telo che copre un cumulo:
«Con questo arsenale facciamo bum.»
Petra sorride soddisfatta.

15. Oggi
Il camino ci mette un po' ad accendersi: non viene utilizzato da mesi e la legna della cantina è molto umida. Anna offre una tisana calda al ragazzo che continua a tremare.
«Non penso che ci sia bisogno di chiederti cosa ci facessi nascosto nel mio carretto.»
Il ragazzo la guardò di sottecchi mentre beveva dalla tazza, e accennò un sorriso.
«Come ti chiami?» continuò Anna, studiando l'imbarazzo che lui cercava di camuffare. Doveva avere poco più di venti anni.
«Antonio.»
«Sei stato fortunato, ho visto uno dei tuoi compagni con la testa spaccata in due.»
«Mi denuncerai?», chiese.
«Non preoccuparti. Non vedo il motivo di quello che state facendo, ma non sono una spia.»
«Puoi accendere la tv? Probabilmente il Campione sta lanciando uno dei suoi messaggi.»
«Infatti, eccolo», disse Anna fissando lo schermo con un interesse che non la muoveva da tempo.

Cittadini tutti, è con profonda preoccupazione che vi informo dei fatti avvenuti quest'oggi. Un gruppo di fanatici ha assaltato i nostri militari, mentre svolgevano pacificamente il loro lavoro di routine. Gli estremisti si sono serviti di metodi violenti, e devono essere considerati come individui altamente pericolosi. Non costituiscono un pericolo per la solidità della nostra Democrazia, ma invito ad ogni modo tutta la Nazione a prendere le dovute precauzioni nei confronti di questi gruppi terroristi, e ad informare tempestivamente le autorità nel caso in cui veniate a conoscenza di particolari utili all'identificazione dei facinorosi. La nostra sicurezza, già minacciata dalla terribile influenza ovina, è sempre più in pericolo.
Invito quindi la Nazione tutta a mantenersi all'erta e al sicuro nelle proprie case, fino a quando l'emergenza non sarà rientrata. Viva la Democrazia! Viva la Libertà! Viva il Progresso! Viva il Campione!”

Anna, normalmente molto sensibile ai messaggi allarmisti del Campione, si sentì per la prima volta in dubbio: che quel ragazzo dallo sguardo triste fosse un terrorista le pareva davvero strano.
Antonio si alzò ed iniziò a camminare per la stanza. «Gli credi?»
Anna tacque imbarazzata.

16. Oggi
Anna apre delicatamente la porta della sala, va verso l'angolo cottura e mette il caffè di zucca sul fuoco, cercando di non fare rumore. Riempie la tazza e si avvicina al divano, il cui pensiero dalla sera precedente esercita su di lei un'attrazione incontenibile. L'idea di quel divano l'ha tenuta sveglia a lungo la sera precedente, e l'ha tirata giù dal letto appena mattino: l'inquietudine che causa in lei quel corpo snello ed abbronzato è un pizzicorio che non la stuzzica da tempo.
S'incanta guardando Antonio dormire supino. Osserva la linea del taglio dei capelli, che forma un triangolo sulla nuca liscia, e si sofferma sulle braccia asciutte che avvolgono il cuscino. Cerca poi di indovinare la forma delle natiche del ragazzo, nascoste dal lenzuolo che Anna gli ha disteso addosso.
Antonio apre gli occhi, guarda Anna, le sorride e rituffa la testa nel cuscino. Anna pensa a Petra, che spesso faceva quello stesso gesto. Ricorda il corpo nudo dell'amica disteso sul letto di casa sua, a Bologna: Anna aveva dimenticato quello che ora, improvvisamente, le torna alla memoria con tanta nitidezza. Le sembra di poter sentire il profumo della pelle di lei, il calore di quell'intimità. Petra che le parlava a pochi millimetri di distanza, accarezzandole il viso, prima di scoppiare a ridere nascondendo la faccia nel cuscino.
Anna accarezza timidamente i capelli di Antonio, che si volta per guardarla. Si riempie improvvisamente di una gioia che aveva dimenticato, le ginocchia le tremano e le cosce si bagnano di un calore insopportabile. Si alza di scatto e stringe la tazza che tiene tra le mani.
«Vuoi un caffè?» chiede Anna allontanandosi verso i fornelli.
«Sì, grazie. Dopo me ne andrò.»
«Dove pensi di andare?.»
«Non lo so.»
«Mi sembra troppo pericoloso andartene di qui.»
«Sì, ma non voglio metterti in mezzo. Non sei neanche nella resistenza», dice Antonio sorseggiando il caffè. «Sai che succede a chi nasconde dissidenti politici?»
«Puoi fermarti fin che vuoi, qui sei al sicuro.»

17. Ieri
Milano accolse Anna in un giorno nebbioso.
“Alla fine il cielo non è peggiore di quello di Bologna”, pensò scendendo dal treno. Si diresse lentamente verso la metropolitana, scavalcata dalla gente che le correva affianco, caricandola d'ansia.
Il manifesto pubblicitario di una compagnia telefonica assicurava che i suoi cellulari sarebbero resistiti all'imminente fine del mondo, che la profezia maya collocava il 12 dicembre 2012. Il manifesto mostrava un telefono mobile che s'innalzava in volo sulla piramide maya di Chichen Itzá, ed Anna sorrise pensando ad Aldo, che davvero credeva in quella profezia.
Salì sulla metro gialla e poi sulla rossa, che la portò fino a Bande Nere. Uscì dalla stazione della metropolitana e si avviò lungo il viale, per raggiungere la casa che le aveva lasciato Margherita.
Entrò in un supermercato e cercò il banco frigo. Vide i petti di pollo: erano grassi e lisci, disossati, sciacquati e confezionati quasi sottovuoto, schiacciati tra un vassoio di polistirolo e un velo di plastica. Lasciò il pollo nel frigo e comprò un pacco di pasta, una birra e una cucchiaiata di pesto al banco gastronomia. Pagò la spesa e cercò l'appartamento di Margherita. Era stata davvero gentile, una buona compagna: con i suoi risparmi Anna non avrebbe mai potuto pagarsi un affitto. Doveva trovarsi un lavoro al più presto.
Appoggiò le borse sul tavolo e si sedette sul divano, ma non riusciva a liberarsi dall'inquietudine che aveva trovato in metropolitana. Si alzò e andò verso la finestra del salotto: giù in strada la gente correva sul marciapiede e le macchine s'impilavano una dietro l'altra davanti al semaforo. Cercò un senso a quello che vedeva, mentre la sua inquietudine continuava a crescere.
Aprì la birra e mise su l'acqua per la pasta. Qualcosa dentro la logorava e le toglieva l'aria.

18. Oggi
«Quanta frutta! Che c'è, hai ospiti?»
La signora Bonanni guarda Anna dal balcone della casa affianco. A differenza della maggior parte della gente che fa delle vite altrui il principale argomento di conversazione, la signora Bonanni non ama abbellire i suoi racconti con episodi o particolari di fantasia, e si attiene ai fatti nudi e crudi. Anna non l'ha mai potuta sopportare: non regge i suoi commenti e i doppi sensi. Quella donna maligna adora sottolineare, appena ne ha l'occasione, la solitudine che copre la vita di Anna. Non sa che in realtà Anna non si sente per niente sola: ci si sente soli quando si avverte la necessità di stare con gli altri, cosa che a lei non succede mai.
Anna gela con lo sguardo la vecchia che la provoca dal balcone, tira le cassette della frutta dentro la sua Proprietà ed entra in casa. Sceglie le arance più grandi e rosse e ne schiaccia la polpa sullo spremiagrumi, mentre Antonio sistema la legna nella cesta vicino al camino.
«Conosci Gabriele?», chiede Anna mentre versa il succo d'arancia nei bicchieri.
«Il compagno alto con la barbetta?»
«Sì.»
«Lo conosco. È morto la settimana scorsa: influenza ovina, dicono.»
«Santo cielo», dice Anna lasciandosi andare sulla poltrona. Un dolore tagliente la colma, un dito premuto forte la bocca dello stomaco. Da quando ha rincontrato Gabriele non riesce, per quanto ci provi, a liberarsi del suo pensiero. Molti ricordi assopiti si sono fatti vivi, a volte le sembra di poter ricordare nitidamente intere giornate e le sensazioni che le avevano accompagnate.
«Lo conoscevi bene?», chiede Antonio dando l'ultima sorsata al succo d'arancia.
«Siamo stati sposati.»
«Ah, davvero?», esclama stupito. Si fa improvvisamente serio.
«Non stavamo più insieme da molto tempo. E così l'ha ucciso l'influenza ovina: e pensare che sosteneva che fosse una menzogna degli Amici della Libertà.»
«E aveva ragione», esclama Antonio con rabbia. «Non è stato ucciso dall'influenza, ma dagli Amici della Libertà. Ho documenti che dimostrano cose che neanche ti immagini.»
«Cose di che tipo?», chiede Anna perplessa.
«Lascia perdere.»
«Stai parlando del mio ex marito e della vita di tutti. Non puoi fare un'affermazione del genere e poi lasciarla cadere.»
«Ne parleremo un'altra volta», dice Antonio chiudendo.

19. Oggi
Anna sfila i vestiti e si mette davanti allo specchio, spazzolandosi i capelli. È un'abitudine che le ha lasciato sua nonna, che lo faceva tutte le sere in estate, quando Anna era bambina. Prima di andare a dormire si sedeva davanti alla specchiera, sorseggiando una tazza di camomilla e miele, mentre la nonna le spazzolava lentamente i capelli.
Non ricorda sua nonna, ha dimenticato la sua infanzia. Come si può ricordare qualcosa successo quarant'anni prima? Esistono in realtà nella sua testa frammenti d'immagini lontane, ma non sa a quale epoca appartengano, e non è neppure in grado di capire se erano ricordi veri o ricostruzioni mentali di episodi che i suoi le hanno raccontato.
Ad Anna piace guardarsi allo specchio, malgrado non sia per nulla vanitosa: non trova alcuna bellezza nelle sue forme e non le interessa sentirsi attraente o esserlo per qualcun altro. Si diverte però a giocare con le espressioni del viso: allarga le labbra, spalanca gli occhi, gonfia le guance.
A volte si avvicina a pochi centimetri dal vetro e, individuata una ruga, ne segue il percorso fino alla fine. La prima volta che ne ha scoperta una, pochi anni prima, l'ha accolta con gioia. Le piacciono le rughe: senza quei piccoli solchi che le attraversano il viso potrebbe sembrare una quindicenne. D'estate, quando il lavoro nei campi le annerisce la pelle fino a renderla ardente, le rughe si trasformano in sottili sentieri bianchi che le corrono sulla fronte.
Anna si mette sotto le coperte e spenge la candela. Dopo pochi istanti sente dei passi leggeri attraversare la stanza, e il letto abbassarsi sotto un nuovo peso. Una mano afferrare la sua e delle labbra umide baciarle il collo. L'odore di Antonio le riempie le narici e le sembra abbracciare tutta la stanza. Le sfila la maglia e dopo pochi istanti è dentro di lei.

20. Ieri
«Anche tu qui.»
Anna si voltò e si accorse di un tipo biondiccio seduto di fianco a lei.
«Già», disse guardandolo con aria interrogativa.
«Non hai capito chi sono, vero? Abito davanti al tuo palazzo, ti ho vista un paio di volte al supermercato. Ma è la prima volta che ti vedo all'ufficio del lavoro», disse il ragazzo, sfoggiando un sorriso simpatico e due occhi di un azzurro intenso.
«È che vivo a Milano da poco tempo.»
«Benvenuta in lista d'attesa allora! Io sono Gabriele: ingegnere, baby sitter, lavapiatti, volantinatore e imbianchino.»
Anna sorrise.
«C'è poco da ridere!», l'ammonì lui ridendo.
«Io sono Anna: architetta disposta a qualsiasi lavoro per tirare su due soldi.»
«Stai tranquilla, arriveranno tempi migliori», disse Gabriele afferrando saldamente la mano che Anna gli stava porgendo, scrollandola un poco.
«Magari no. Questa crisi potrebbe essere l'inizio della catastrofe, non ci avevi mai pensato?»
«No, non ci avevo mai pensato, cerco di essere ottimista. Se penso che le cose possano andare ancora peggio entro in depressione, e già ora ci sono vicino. Sai che? Una birra potrebbe risollevarmi di morale. Che dici se te ne offro una quando usciamo di qui?»

21. Oggi
Il ciliegio è già carico di frutti. “E siamo solo in ottobre”, pensa Anna chiedendosi se potrebbe iniziare a coltivare manghi.
La notte con Antonio le ruba i pensieri e la porta lontano. Mentre lavora, con la schiena curva sui campi, spostando sacchi o cassette, la mente è sempre altrove. Non ha bisogno che stia dove il suo corpo, che s'impegni sul lavoro. Può vagare liberamente sulle colline a volo d'uccello, immaginando la forma del mondo oltre la sua Proprietà, o cercare di infilarsi nelle sue viscere, tentando di dipanare la matassa dei suoi pensieri, quando sono confusi e densi. A volte cerca, soprattutto quando fa il lavoro con piacere, godendo della bellezza della campagna che la circonda, di ripercorrere il passato, strappando dei frammenti di ricordi che la aiutino a ricostruire la sua storia. Ma è un'operazione molto faticosa, e presto abbandona il tentativo.
È sicura che ad ogni modo, per quanto il suo lavoro sia pesante, è sicuramente migliore di quello di suo padre: i campi che Anna coltiva sono suoi, e può decidere cosa coltivare e come farlo. È lei a preparare la terra, lei a seminare e raccogliere, senza schiavi della Posizione Bassa o paraumani.
Suo papà aveva trascorso la maggior parte della sua vita infilando, per otto ore al giorno, una rondella attorno ad un tubo di alluminio. Costruivano macchine che venivano utilizzate per costruire automobili, anche se negli ultimi anni suo padre aveva iniziato a dire che forse in realtà con quelle macchine ci facevano le gru del porto.
Anna getta l'ultimo sacco di mais sul mucchio, si asciuga il sudore con la manica e un sorriso le si apre sul viso quando pensa ad Antonio, che la aspetta a casa. Ha paura che sia già riuscito a rintracciare i suoi compagni e che se ne vada per raggiungerli, è sicura che la lascerà.
Si pulisce rumorosamente gli stivali sporchi di fango sullo zerbino, apre la porta di casa e rimane pietrificata. Il corpo di Antonio giace a terra in una pozza di sangue. La pelle del viso, strappata dalla faccia, è al suo fianco adagiata sul tavolino di un microscopio. Anna esce dalla stanza, appoggia la testa al muro e vomita. Fa pochi passi e si lascia cadere a terra, dove rimane un lunghissimo istante. Si rialza ed entra nella sala dove c'è il telefono.
«Pronto»
«Sono Anna, ho bisogno di vederti subito.»

22. Oggi
Il cielo torbido minaccia di esplodere da un momento all'altro le gocce che si nascondono nelle nuvole. Ma è un'illusione: per quanto si possa gonfiare, la pioggia resta intrappolata in cielo e di rado cade sulla terra rossa e bruciata dal sole.
L'autunno porta pomeriggi afosi, in cui il calore rimane chiuso sotto la coperta di nubi, cristallizzandosi in un'umidità appiccicosa che copre tutto ciò che tocca. La mascherina antinfluenza imprigiona il fiato caldo intorno alla bocca di Anna, e il sudore che cola dalla fronte le appesantisce le ciglia e annebbia la vista.
Il paesaggio è era un monotono susseguirsi di campi aridi, in cui il sole ha creato lunghe ferite tra le zolle di terra, prive di vita e speranza. Un tempo, prima che l'utilizzo dei prodotti chimici e dei semi transgenici rendessero la terra incoltivabile, la regione era macchiata da rettangoli geometrici e colorati: grano, mais, pomodori, viti ed uliveti. Adesso solo più lontano, verso nord, si scorgono terreni coltivati, sopravvissuti alla terza rivoluzione verde e ancora produttivi.
Anna cammina lenta e piena di pensieri, apprezzando lo spirito ecologista del padre che, non avendo mai utilizzato prodotti chimici per coltivare le terre della sua Proprietà, le ha lasciato una speranza di futuro.
Scorge in lontananza una camionetta verde e l'elmetto di un militare: si sente arrivare il cuore fino in gola, ma le chidono solo la Libera Credenziale Elettorale senza fare domande. Ricorda che da ragazza aveva spesso provato quella sensazione, quando faceva delle azioni con i suoi compagni. Le viene in mente una volta in cui, dopo uno scontro con la polizia, nascosta sotto una macchina parcheggiata, sentiva i poliziotti girarle accanto e picchiettare con i manganelli i palmi delle mani. Ricorda la sensazione del passamontagna di lana che il sudore le appiccicava al viso: a quei tempi quello che sta facendo ora non le avrebbe causato alcun brivido.

23. Ieri
Anastasia galleggiava flaccida guardando Portofino. Le piaceva ondeggiare al largo del molo del paese, mostrando le sue forme rotonde e sensuali. Tutti la guardavano, la ammiravano, la desideravano.
I ricchi radical chic, scesi dalle loro barche a vela per fare shopping nel piccolo centro abitato, per abbuffarsi di pesce o prendere un aperitivo nei localini disposti a semicerchio attorno al porticciolo, la guardavano pieni d'invidia. Anastasia era bella, sapeva di esserlo, e tutti la volevano.
Anna salì sull'interregionale 511 per Santa Margherita Ligure alle 7.50. Il viaggio sarebbe durato circa un'ora, e ne approfittò per leggere:

In principio è il grido. Noi gridiamo. Il punto di partenza della riflessione teorica è l'opposizione, la negatività, la lotta. Il pensiero nasce dalla rabbia, non dalla calma della ragione2.”

A volte allontanava lo sguardo dal libro e scrutava il paesaggio oltre il vetro sporco del treno: gallerie che scoprivano borghi di colori, case in bilico sulle scogliere da cui s'affacciavano i pini marittimi. Anna guardava la sua terra e pensava a quanto fosse bella e radiosa.
Arrivata alla stazione di Santa Margherita Ligure, scese la scalinata e si trovò nella piazzetta del paese. Ferrari, Porche, Maserati, Bmw coupé d'epoca: il parcheggio ne era pieno. Pensò alla vecchia Punto dei suoi, che la immaginavano a Bologna, impegnata a preparare la discussione della tesi. Non potevano certo sospettare che Anna stesse preparando ben altro.
Imboccò la strada per Portofino che costeggiava la scogliera: in un'ora circa sarebbe arrivata. Decise di godersi la bella passeggiata, rinfrescata dal vento che portava il mare, cercando di scacciare la tensione che passo dopo passo cresceva sempre più. Osservava la gente andare in spiaggia, con la borsa di paglia e le scarpe da scoglio in plastica, e si chiedeva come facessero a convivere con la ricchezza e l'ostentazione che si respiravano dappertutto, con quelle macchine, quelle barche, quelle ville di lusso. Come facessero a non gridare.
Paolo la stava aspettando un centinaio di metri prima di Portofino. Era abbronzato ed aveva un sorriso irresistibile stampato sul volto. Era attraente e ad Anna era sempre piaciuto: la intrigava il modo in cui scherzava per sedurla e si divertiva a flirtare con lui. Le piaceva giocare con gli uomini, anche se in realtà era piuttosto selettiva nella scelta dei suoi partner sessuali. Ad ogni modo, Paolo l'avrebbe senz'altro selezionato. Petra non sarebbe stata contenta, ma non ne avrebbe nemmeno fatto un dramma; quello che Anna stava per fare - quello sì - avrebbe sicuramente causato lunghe discussioni con Petra.
Paolo accompagnò Anna attraverso una scalinata intagliata tra le case del paese, fino ad un piccolo molo nascosto dalla vegetazione.
«Ecco qui il mio piccolo gioiellino», le disse soddisfatto. «Non devi far altro che spostare questa levetta.»
Anna si mise muta, maschera e pinne. Si chiuse la cintura con la zavorra attorno alla vita e Paolo l'aiutò a sistemarsi il giubbetto equilibratore con appesa la bombola. Prese tra i denti l'erogatore e si lasciò andare giù dal bordo del moletto: in pochi istanti si trovò sul fondale limpido di Portofino, sorvolò la posidonia e si fece spazio tra i saraghi e le donzelle di mare. Sott'acqua, dove il mondo appare fermo e muto, il suo respiro che usciva pesante dall'erogatore sembrava essere l'unico suono.
Dopo pochi minuti, Anna si trovò sotto la pancia grassa di Anastasia. Varata alle Isole Cayman, era uno yacht privato di settantacinque metri di opulenza: suite di lusso, jacuzzi, palestre e una discoteca. Anna s'infilò nel ventre cavo e aperto di Anastasia, nascondendosi tra gli aquascooter, i windsurf e i motoscafi che ospitava. Fece tutto ciò che Paolo le aveva detto e lo raggiunse poi sul moletto, dove l'aiutò a sfilarsi velocemente l'attrezzatura.
Salutò il compagno e s'incamminò verso la stazione di Santa Margherita. A metà strada, mentre osservava l'acqua cristallina della baia di Paraggi, sentì il botto: era Anastasia che esplodeva la sua grassa ingordigia. Un'esplosione compatta segnò la sua morte, sminuzzando il suo ricco corpo in migliaia di piccoli ed inutili pezzi.
Le auto si fermarono, i passanti si affacciarono dal corrimano guardando verso Portofino, cercando di capire cosa avesse causato quel rombo e quella nube grigia che si stava alzando dal mare.
Anna proseguiva la sua passeggiata tranquilla, gridando dentro di sé tutta la sua soddisfazione: nessuno avrebbe più desiderato quell'inutile yacht. Guardò il castelletto che aveva davanti, sul promontorio della baia di Paraggi, con la stessa rabbia che le aveva causato la vista di Anastasia. Non sapeva che era una delle tante tenute estive dell'uomo che decenni dopo si sarebbe fatto chiamare Campione.

24. Oggi
Un centinaio di metri prima del secondo posto di blocco militare, Anna imbocca un sentiero: è malmesso ed accompagnato da un tratto di ferrovia a cui è stata rubata una fila di binari. Cammina per circa un chilometro e trova il grande pioppo, sotto il quale un uomo con un fucile a tracolla le fa un cenno con la testa, indicando un cavallo.
«Mi spiace ma dovrà portare questo per tutto il tragitto, motivi di sicurezza», le dice l'uomo estraendo un cappuccio nero da una borsa. Anna ci suda dentro e, mentre il cavallo si avvia al trotto, ripensa alla sensazione del passamontagna. Dopo un tempo che le pare infinito il cavallo si ferma, l'uomo l'aiuta a scendere e la libera dal cappuccio.
Si trova di fronte ad una villa in stile liberty, evidentemente abbandonata da tempo: i rovi hanno inghiottito completamente l'ala destra e l'intonaco cade a pezzi. L'uomo la conduce fino a una piccola entrata sul lato sinistro della villa.
«Ti stavo aspettando», dice Petra aprendo la porta di legno. Indossa una canottiera viola e una gonna lunga indiana, di quelle che portavano da ragazze. Una pinza arancione le fissa i capelli, che le cadono sulle spalle in piccole ciocche. “Non ha certo l'aria di una guerrigliera”, pensa Anna.
Camminano attraverso un breve corridoio umido ed arrivano in quella che doveva essere stata la cantina della villa. Attraversano velocemente la stanza, dove un gruppetto di persone discute animatamente, e ad Anna cadono gli occhi sul tavolo centrale pieno di armi.
Arrivano finalmente in una piccola stanza, dove è stato installato l'ufficio di Petra. Il muro è tappezzato di mappe piene di segni e la stanza arredata con un tavolo, una sedia, alcuni sgabelli e – cosa che Anna non vedeva da molto tempo – un computer. “Come è potuto sopravvivere alla Fine?”, si chiede Anna mentre si siede al tavolo di fronte all'amica.
«Che è successo? Mi sei sembrata molto spaventata al telefono», dice Petra rompendo il ghiaccio.
Anna prende il coraggio ed inizia: «Mi rendo conto che nella posizione in cui siamo può sembrare strano che ti cerchi per questioni personali. Ma davvero mi trovo in una situazione... non sapevo a chi rivolgermi.»
«Non ti preoccupare, hai fatto bene a chiamarmi. Cosa credi, che farei venire chiunque nel nostro quartier generale?», dice Petra, immaginando che Anna non abbia molte persone da chiamare in caso di bisogno.
Guarda Anna senza espressione, posa i gomiti sul tavolo e appoggia una mano sull'altra: «Quello che voglio dire è che puoi parlare liberamente, non m'importa se l'ultima volta che ci siamo viste c'è stata tensione fra noi. Se vuoi che ti aiuti non puoi far altro che fidarti di me, rilassati e raccontami cosa ti è successo: dall'espressione che hai sembri averne bisogno.»
Anna si alza e si mette a camminare per la stanza: le tremano le gambe e ha bisogno di muoverle. Sa che Petra ha ragione.
«Quando vi siete scontrati con i militari al mercato ero lì col mio banco. Arrivata a casa, trovo un ragazzo nascosto sotto il telo che copriva il carretto: si chiamava Antonio, non so se lo conosci, uno studente di biologia.»
Petra assente con un lieve cenno della testa, mentre Anna cammina per la stanza con più sicurezza: «Antonio si è nascosto in casa mia per qualche giorno. Ieri sono entrata in casa e l'ho trovato morto ammazzato: gli hanno fatto lo scalpo e hanno lasciato la pelle del viso sul tavolino di un microscopio.»
«Dio, è orribile», dice Petra facendo una smorfia di disgusto.
«Già. Mi chiedo perché l'abbiano ammazzato.»
«Benvenuta nel mondo al di fuori della tua Proprietà. Sono tanti i compagni uccisi o che sono stati fatti sparire», dice Petra accavallando le gambe.
«Era così giovane, perché uccidere proprio lui?», chiede Anna con la voce rotta.
«Antonio non era un ragazzino: stava conducendo una ricerca sull'influenza ovina molto importante.»
«L'influenza ovina ha ucciso il mio ex marito.»
«Mi spiace», dice Petra, guardandola per la prima volta con comprensione. «Credo che gli assassini di Antonio siano gli stessi di tuo marito.»
«Che significa?»
«Che ciò che ha ucciso tuo marito è stato creato da qualcuno che ha poi fatto in modo che Antonio non continuasse le sue ricerche. Le cartelle che contenevano le conclusioni di Antonio sono sparite dal laboratorio.»
«Ma chi?», urla Anna con rabbia.
«Lascia perdere, sarebbe un suicidio. È gente della Posizione Alta, non ti puoi mettere contro di loro.»
«Come non mi posso mettere contro di loro? Non sei tu a parlare di rivoluzione?»
«Sì, ma la rivoluzione non si fa da soli. Ti vedo proprio cambiata», dice Petra dopo una breve pausa, con tono calmo e soddisfatto. «Vieni fin qui per cercare spiegazioni, l'ultima volta che ti ho vista non avevi certo tutta questa curiosità. E nascondi in casa dissidenti politici. Che c'è? Hai iniziato a ricordare?»
«Che intendi?», chiede Anna bruscamente.
«Ultimamente ti capita più spesso di ricordare episodi del passato? È così che succede: s'inizia a ricordare il passato e piano piano si raggiunge coscienza della propria condizione.»
«No», risponde Anna mentendo. Ora che ci pensa Petra ha ragione: molti ricordi del passato le sono affiorati alla memoria nell'ultimo periodo.
«Stai mentendo, vero? Non riesco proprio a capire perché sei così ostile nei miei confronti. Non sarà ancora per il fatto di Sandra?», scherza Petra.
Anna abbassa gli occhi e aggrotta le ciglia pensosa.
«Non ricordi?», chiede Petra stupita.
«No, non ricordo», dice Anna a bassa voce.
«Almeno ricordi di noi due?»
«Solo alcuni fatti, ma è tutto molto confuso.»
«Dovresti proprio smetterla con quelle Pillole Blu», dice Petra avvicinandosi ad Anna. Le bacia leggermente le labbra, facendola trasalire. Improvvisamente Anna ricorda tutto: il corpo nudo di Petra contro il suo, i litigi a casa di Aldo prima di trasferirsi a Milano, le braccia di Petra che l'avvolgevano mentre piangeva.
Quando il suo pensiero torna nella stanza in cui si trova, Petra è già uscita.

25. Ieri
A quell'ora, quando il sole era già tramontato, l'asfalto non sprigionava più afa e l'aria si faceva fresca. Ad Anna piaceva Bologna in quel periodo: l'autunno piano piano si risvegliava e gli studenti tornavano a popolare la città.
Superate le due torri imboccò i portici di Via S. Vitale, arrivò in Piazza Aldrovandi e girò a sinistra per Via Petroni. Comprò un paio di Moretti da 66 da un pakistano e citofonò. Non rispose nessuno: tenevano sempre la musica troppo alta. Si attaccò al citofono una seconda volta.
«Chi è?»
«Io, Anna.»
Spinse il portone con la schiena e salì fino al secondo piano. Aprì la porta della casa di Aldo e sentì un forte odore di chiuso e marijuana.
«Dio, si muore qui dentro. Aprite un po' la finestra.»
«Ma fa freddo», reclamò Giulia dalla poltrona su cui era spaparanzata.
«Che dici? Non fa freddo per niente», disse Anna spalancando la finestra della sala. «Di che stavate parlando, rivoluzione?»
«No, tutt'altro, si spettegolava un po'», disse Marco divertito. «Sai che Claudia è incinta?»
«Claudia? Ma dai. Che bella notizia! E che dicono, sono contenti?»
«Un po' in paranoia ma contenti. Federico è messo male con il lavoro e Claudia non ne ha mai trovato uno.»
Aldo spuntò da dietro il muro e guardò Anna con gravità: «Puoi venire di là? Io e Petra ti vogliamo parlare.»
Anna seguì Aldo ed entrò nel suo studio: trovò Petra in piedi al centro della stanza, inespressiva e gelida. Sembrava furiosa.
«Sei stata tu, vero?» disse Petra sbattendo La Repubblica sulla scrivania.
Anna prese il quotidiano e lesse il titolo:

Attentato a Portofino: esplode yacht di lusso. La Marchesa Von Robbalt tra i quattro feriti.

«Se lo meritavano, no?», disse riappoggiando con calma il giornale sulla scrivania.
«No, Anna. Nessuno si merita di esplodere in aria», l'ammonì Petra. «Ti avrà aiutata Paolo, immagino: a quello gli piace giocare con le armi e gli esplosivi.»
«Quello che hai fatto è contrario ai nostri principi», esordì Aldo. «Non ci resta che allontanarti dal gruppo.»
«Lo so che è contrario ai vostri principi, ma è perfettamente in linea con i miei», disse Anna cercando di non surriscaldarsi troppo. «Me ne vado volentieri dal vostro gruppetto. Continuate pure a fare la rivoluzione appiccicando manifesti ai muri.»
Raccolse lo zaino che aveva lasciato a terra: «Me ne andrò a Milano dopo la laurea, non mi mancherai», disse guardando intensamente Petra. «Neanch'io ti mancherò: a te importa solo di te stessa. E di Sandra, forse.»

26. Oggi
Anna arriva nella sua Proprietà stanca e con un mal di testa insopportabile. Entra in cucina e getta la mascherina antinfluenza sul tavolo, si versa un bicchiere d'acqua ed ingoia una Pillola Blu, sperando la calmi.
Prende un broccolo dal cesto della verdura, lo sciacqua e separa i fiori dal gambo: li mette a soffriggere con olio e aglio, mentre il gambo lo mette da parte per la conserva sottaceto. Taglia a fettine il formaggio che ha scambiato al mercato con un chilo di patate e scalda le tortillas di mais preparate il giorno prima. Anna è molto orgogliosa del suo mais: non ha solo quello giallo, che gli europei hanno preso agli indigeni messicani, ma ha pannocchie blu, rosse e nere. La varietà che la natura ha regalato alle popolazioni centramericane si ritrova intatta nei suoi campi.
Si siede a tavola e, malgrado la Pillola Blu, non riesce a smettere di pensare. Finita la cena decide di coricarsi nel letto ma Gabriele, Petra e il corpo senza vita di Antonio non le danno tregua: è ossessionata dalla stanza in cui lo ha trovato, immerso nella pozza di sangue scuro e pulsante.
Verso le due del mattino, quando si è ormai arresa all'insonnia e ai fantasmi che popolano l'oscurità della sua camera, scende dal letto e va nel ripostiglio. Sposta le cose che si trovano su un vecchio baule e cerca di togliere la polvere che lo ricopre. Trova alcuni album di fotografie e li porta in camera, sedendosi sul letto per sfogliarli: centinaia di immagini si susseguono una dietro l'altra, ripercorrendo un passato dimenticato che ora torna attraverso quelle foto: un luogo, un viso, il richiamo all'odore di una stanza, al sapore di una cena tra amici. È tutto lì: i suoi genitori e sua nonna, Gabriele, Petra, Aldo, Paolo e Margherita, la sua casa di Bologna, quella di Aldo, le domeniche con la famiglia in campagna, nella casa dove ora vive. È la prima volta che sente l'esigenza di riappropriarsi del suo passato, della sua storia. Non le è mai interessato, ha sempre preferito non sapere da dove viene e dove ha sperato di poter arrivare.
Ora le immagini dimenticate sono tutte lì, una dietro l'altra. Il dolore che le brucia il petto la scalda sempre più, ora che sembra tutto più chiaro, ora che il suo passato le regala una capacità analitica, le impone una coscienza. Tra le pagine di un album trova un ritaglio di giornale ripiegato con cura, datato ottobre 2014:

L'idea che sta alla base dell'oltreumanesimo è che le scoperte scientifiche e tecnologiche possano aumentare le capacità fisiche e cognitive degli esseri umani, migliorando gli aspetti della vita umana che sono considerati indesiderabili, come la malattia e l'invecchiamento, anche in vista di una trasformazione postumana. Il concetto di oltre-uomo, di chiara ascendenza nietszchiana, può condurre a separazioni e discriminazioni di natura sociale fra i migliorati/modificati (in quanto detentori delle risorse economiche necessarie) e chi non lo è, rischiando di sfociare in un contrasto tra “superiori” ed “inferiori”.
L'oltreumanesimo è quindi una dottrina pericolosa, e la sua diffusione va contrastata con tutti i mezzi possibili.

Anna appoggia la testa al cuscino e finalmente piange. Non lo faceva da mesi, forse anni. Piange finché i visi dei suoi defunti vengono inghiottiti dalla stanza e crolla addormentata, sfinita.

27. Oggi
Nicola si passa la mano sulla guancia: è ora di farsi la barba. Guarda oltre la finestra la moglie mentre innaffia le piante in cortile, incrociano gli sguardi e si scambiano un sorriso. Cerca di non farsi vedere preoccupato per non sentirsi costretto a raccontarle tutto, deve proteggere Marta dalla paura che gli ha preso la gola e che sta in tutti i modi cercando di dominare.
Bagna la saponetta preparata dalla figlia e se la sfrega fra le mani, fino a creare una schiuma che cosparge sulle guance con movimenti lenti e circolari. Prende il rasoio e lo guida lungo il collo. Lo batte poi sul bordo del lavandino per liberarlo dai peli che si sono infilati tra le lamette, e si rasa anche le guance. Si passa un asciugamano sulla faccia ed entra nella doccia: il getto di acqua fresca gli sembra capace di sciacquare anche i pensieri.
Esce dal bagno e va verso la camera da letto, punto dal freddo che gli intirizzisce la pelle nuda. Infila un paio di pantaloni blu e si guarda riflesso allo specchio mentre abbottona lentamente la camicia. Liscia i pochi capelli che gli sono rimasti, indossa un impermeabile e prende la sua valigetta in pelle, infilando nel doppio fondo il fascicolo che ha nascosto sotto il mucchio di biancheria sporca. Esce in giardino e si avvicina a Marta, intenta a curare i suoi fiori.
«Io esco, ci vediamo più tardi.»
«Ok. Dove vai?»
«Devo vedermi con una persona.»
«Come sei misterioso in questi giorni. Che c'è, hai un'amante?»
Nicola le sorride e la bacia sulla fronte, prima di allontanarsi con il cuore stretto nel petto.

28. Ieri
«Consegna cataloghi Mobilifelici, mi può aprire il portone per cortesia?»
«No, non apro agli sconosciuti.»
“Ma va a quel paese”, pensò Anna pigiando un altro tasto del citofono. «Consegna cataloghi Mobilifelici, mi può aprire per cortesia?»
«Sì, ma si ricordi di chiudere bene il portone quando esce che Milano è piena di zingari.»
Anna prese tre pacchi di cataloghi dal carretto ed entrò nell'androne del palazzo. Strappò l'involucro che li conteneva e li inserì velocemente in ciascuna buca delle lettere. Uscì dal portone preoccupandosi di non farlo chiudere, per permettere a qualsiasi “zingaro” di entrare per rubare, e continuò a spingere con fatica e controvoglia il suo pesante carretto. Iniziava a piovere una pioggia che si fece sempre più fitta, il cielo tuonava e la sua giacchetta non avrebbe retto più di tanto. Una macchina entrò in una pozzanghera a grande velocità, svuotandogliela addosso.
Anna si fermò sul marciapiede, sola tra i passanti e completamente bagnata. Non poteva credere che le stava succedendo davvero, dopo tanti anni di università passati inseguendo il suo sogno d'architetta, com'era possibile trovarsi con un lavoro del genere per cinque euro l'ora?
Non capiva come fosse possibile che la gente non si ribellasse. Quelle persone che le correvano attorno, massa di precari plurilaureati, erano consapevoli dell'ingiustizia che vivevano ogni giorno? Sapevano di guadagnare così poco perché qualcuno sopra di loro guadagnava troppo?
Prese il carretto e lo scaraventò contro il muro. Si diresse di corsa verso la metropolitana, sotto lo sguardo stupito di un cameriere che si trovava fuori dal bar. L'unico in quella moltitudine che aveva fatto caso al suo gesto.

29. Oggi
Anna ingoia una Pillola Blu, scende con fatica dal letto e va lentamente verso il bagno. Si mette sotto la doccia, dove rimane una decina di minuti guardando il getto d'acqua che le si rompe sul naso. Si asciuga con un asciugamano pulito e si guarda allo specchio: le lacrime della notte precedente le hanno gonfiato gli occhi fino a renderli una piccola fessura che lascia intravedere solo il suo iride nero. Si cosparge di crema solare e indossa gli abiti da lavoro.
Scende in cucina e mette il caffè di zucca sul fuoco, taglia due fette di pane e le cosparge di burro e marmellata di fichi. Si siede sulla poltrona, sorseggiando il caffè e mangiando controvoglia il pane: si sente apatica e non ha voglia di far niente, solo continuare a dormire per evitare di pensare. Il sonno getterà nell'inconscio ciò che in stato di veglia non è in grado di sopportare.
Guarda la sua Proprietà che si estende fino al termine della collina e decide di non lavorare. Il cielo si è improvvisamente trasformato in una coperta grigia da cui cade una pioggia sottile ed insistente, che batte sulla campagna bagnandola di tristezza. Sente l'angoscia premerle lo stomaco: ha bisogno di riposarsi, mangiare e trovare un modo per sciogliere quel peso che la opprime.
Sente bussare alla porta, trasale: possono essere la polizia o i militari. Forse qualcuno ha scoperto che nascondeva Antonio in casa sua, che è stata sposata con Gabriele o che si è incontrata con Petra.
Appoggia le spalle al muro e guarda di sbieco oltre la finestra, facendo in modo che da fuori non s'intraveda la sua figura. Davanti alla porta vede un uomo ritto sotto la pioggia, con i capelli radi e brizzolati. Non porta la mascherina antinfluenza e regge una valigetta di pelle.

30. Ieri
Qualcuno suonò il campanello. Tutti nella stanza si zittirono, mentre i battiti del cuore acceleravano rumorosamente.
Anna raccolse il respiro e andò verso la porta. Attraverso lo spioncino vide un ragazzo la cui figura era ingigantita dalla lente, con un cartellino del Comune di Milano appeso alla camicia: doveva essere del censimento. Si assicurò che ridiscendesse le scale e si girò verso i ragazzi seduti nel salotto: «Tranquilli, nessun pericolo».
Entrò in cucina e spense la moka che stava bollendo, versò il caffè nelle tazzine e le dispose su un vassoio.
«Grazie Anna», disse Edoardo quando la vide entrare con il caffè. «Quindi siamo d'accordo. Anna si occupa di gestire le relazioni con Paolo: lo chiama, gli spiega esattamente di che cosa abbiamo bisogno e tiene in casa sua l'esplosivo che Paolo porterà con sé. Martina e Gabriele passeranno la settimana sorvegliando la zona dell'azione, informandoci su tutto ciò che noteranno. Io e Marilena ci occuperemo di piazzare l'esplosivo sotto il traliccio dell'ENEL. L'azione si svolgerà nella settimana del 15 maggio, i dettagli li decideremo durante la prossima riunione».
Tutti i presenti espressero il loro accordo, mentre Anna se ne stava pensierosa e muta sulla sua poltrona.
«Che c'è Anna, ti sembra che qualcosa non vada nell'operazione?», chiese Edoardo preoccupato.
«No, compagni, non c'è nulla che non va nel modo in cui stiamo organizzando l'operazione. È che non ne vedo lo scopo in un momento come questo, non mi sembra certo prioritaria.»
«In che senso?», chiese Martina.
«Ve l'ho già detto, io sento che sta per succedere qualcosa di grosso, qualcosa che ci fotterà molto più di quanto non faccia ENEL. Penso che dovremmo prepararci ad affrontare la situazione piuttosto che piazzare bombette qua e là.»
Gabriele sospirò, guardandola negli occhi.
«Ne abbiamo già parlato, Anna», intervenne Edoardo, spazientito. «Questa tua sensazione è condivisibile, ma è una sensazione. Non possiamo mobilitarci contro qualcosa che non sappiamo cos'è, e che forse neanche esiste.»

31. Oggi
«Buongiorno signora, mi chiamo Nicola, Nicola Rocchi. Sono venuto per portarle notizie di Antonio Parodi.»
Anna ascolta dall'altra parte della porta, con la mano tremante afferrata alla maniglia.
«La prego, mi faccia entrare», prosegue Nicola.
«Entri, non è sicuro stare là fuori», dice Anna aprendo la porta, dopo aver controllato che non ci sia nessuno intorno alla casa.
Nicola struscia con energia le scarpe infangate sul tappettino ed entra. Sfila l'impermeabile gocciolante e lo porge ad Anna, tenendolo davanti a sé con la punta delle dita come un lenzuolo da ripiegare. Anna lo mette sull'appendiabiti, si asciuga le mani nel grembiule che indossa e guarda Nicola da capo a piedi.
«È davvero zuppo», constata. «Venga, si accomodi.»
Raccoglie un po' di legna dal mucchio e cerca di accendere il camino. «Così almeno si asciuga. Questa stanza è così umida...»
Nicola la osserva imbarazzato dalla poltrona. Tiene la valigetta sulle ginocchia, stringendola come un bambino un peluche. Anna dà un'occhiata alla valigetta e si chiede cosa possa contenere di tanto importante, mentre con la pinza muove la legna che inizia ad incendiarsi. Tira un sospiro per prendere coraggio: «Che genere di notizie ha su Antonio?».
Nicola si morde le labbra e per un istante guarda a terra: «Faccio parte della resistenza, o per meglio dire, appoggio i compagni ribelli. Spesso do una mano al quartiere generale per quanto riguarda le questioni logistiche. Qualche giorno fa, mentre ordinavo il ripostiglio in cui teniamo vecchi documenti, ho trovato questo.» Nicola apre la valigetta e dal doppio fondo estrae un fascicolo. «Sono i risultati della ricerca di Antonio Parodi sull'influenza ovina. Il documento è stato rubato dal laboratorio in cui lavorava, ma evidentemente Antonio aveva previsto la possibilità e ne ha nascosta una copia nell'archivio, sapendo che qualcuno prima o poi l'avrebbe trovata.»
Anna guarda stupita il fascicolo che Nicola teneva in mano. «Com'è arrivato a me?», chiede quasi balbettando.
«Quando ho trovato i documenti sono corso dalla compagna Petra. È stata Petra a dirmi di cercarla, dice che è importante che ne prenda visione.»
«L'ha letto?» chiede Anna interrompendolo.
«Sì. Quello che c'è scritto è spaventoso, e ben documentato. Le lascerò il fascicolo e tornerò fra tre giorni, in modo che abbia il tempo di leggerlo con calma. Lo nasconda bene e non faccia copie. Lo dico per la sua sicurezza: se vengono a fare un controllo in casa sua e lo trovano è spacciata.»

32. Oggi
Anna si trova nuovamente sola nel salone grande e pieno di silenzio. Non riesce a sopportarlo, cerca un vecchio registratore che tiene in ripostiglio e libera un sacchetto pieno di audiocassette dalla montagna di oggetti che lo seppelliscono. Ne inserisce una a caso nell'apparecchio, preme su PLAY e finalmente archi, fiati e pianoforte iniziano a mescolarsi al calore emanato dal camino. È musica classica, Anna non sa cosa sia ma si addice al suo umore teso e speranzoso.
Prepara una camomilla, si siede sulla poltrona e appoggia il fascicolo sulle ginocchia. Rimane a guardarlo per qualche minuto, come si guarda un attrezzo di cui non si capisce l'utilità. Sono più di 100 pagine, di cui molte scritte in un linguaggio scientifico difficile da interpretare.
Dopo aver letto l'ultima parola sospira profondamente, appoggia la testa alla poltrona e chiude gli occhi, lasciando cadere le lacrime che si sono raccolte sotto le palpebre. Che fare ora? Chiamare Petra? Aspettare Nicola? Deve stare attenta a non agire d'impulso. Poi il sonno la vince.

33. Ieri
La luce recise lo strato di nuvole e smog, filtrando nella stanza attraverso le tende rosse. Anche a Milano a volte c'era il sole.
Anna aprì gli occhi lentamente e vide Gabriele che dormiva accanto a lei. Le teneva la fronte appoggiata alla schiena e il braccio a peso morto sul fianco, bloccandola al letto. Lo guardò e lo trovò bello. Poi affondò di nuovo la testa nel cuscino, aspettando inutilmente di riprendere sonno.
Dopo un po' Gabriele spense la sveglia, le diede un bacio sulla testa e si alzò con energia.
«Sei sveglia? Che fai, non ti alzi?»
«No, non penso che oggi mi alzerò.»
«Che dici? E il lavoro?»
«L'ho lasciato ieri. Mi sono rotta le palle di tirare un carretto pieno di cataloghi per cinque euro l'ora. Sono architetta e non capisco perché dovrei fare altro, tutti dovrebbero fare il lavoro che vogliono fare», disse con tono fiacco, senza muovere il viso dal cuscino.
«Hai ragione, ma bisogna pur campare in qualche modo», rispose Gabriele urlando dalla cucina. Rientrò portando due tazzine di caffè, ne appoggiò una sul comodino di Anna e ci annegò dentro il cucchiaino dopo averlo girato nella sua.
«Ho paura, Gabri. Sento che sta per succedere qualcosa di catastrofico, che sta crollando tutto e noi passiamo l'ultimo periodo che abbiamo a disposizione lavorando, invece di godercela.»
«Ancora con questa storia, Anna? Di che ultimo periodo stai parlando?»
«Sento che sta arrivando la fine.»
«La fine di che?», chiese lui con pazienza.
«Non lo so, del Liberismo forse.»
«Magari!»
«Magari si potrebbe dire se fossimo pronti, ma non lo siamo affatto. Che sarà se tutto crollerà improvvisamente? Il caos, e chiunque ne potrà approfittare.»
«Se il liberismo crollasse sarebbe una gran festa, e troveremo subito un sistema migliore con cui sostituirlo. Non ci vorrà tanto, voglio dire, peggio di così!»
«Tu non capisci e mi tratti come una pazza.»
«Senti Anna: io ora vado a imbiancare la casa della mia vicina e stasera mi bevo una birra con Beppe. Tu intanto ti rilassi e smetti di farti seghe mentali su cose che non stanno né in cielo né in terra. Il liberismo purtroppo è vivo e vegeto amore mio, non ci sarà nessuna catastrofe.»
Indossò velocemente una maglietta macchiata di vernice bianca e si abbassò sul letto, baciandole le labbra.
«E per favore alzati di lì che non ti posso vedere in questo stato. Ci vediamo domani», disse prima di chiudersi dietro la porta.
Anna rimase nel letto, nascose la faccia sotto il piumone e strizzò con forza gli occhi per non lasciarli piangere.

34. Oggi
«Sono Nicola.»
Anna guarda oltre la finestra per assicurarsi che sia davvero Nicola e apre la porta. Nicola la saluta con un cenno del capo e si dirige sicuro verso la poltrona. Porta con sé la stessa valigetta, che appoggia sulle ginocchia.
«Ha letto, immagino.»
Anna annuisce.
«Mi può restituire il fascicolo, quindi», dice Nicola con tono calmo.
«Sì, certo.» Anna porge il fascicolo, che Nicola mette nel doppiofondo.
«Lei sa perché Petra ha voluto che leggessi la ricerca?»
«No, sinceramente non so nulla di lei, signora. Petra m'ha detto di farle avere il fascicolo, e io ho ubbidito agli ordini. Ciò che vogliamo costruire è una società di uguali, ma finché non raggiungeremo il potere dobbiamo rispettare una catena di comando, una gerarchia, come un esercito. L'ultimo anello della catena - io in questo caso - non è tenuto a sapere tutto.»
«E siete armati come un esercito?», chiede Anna maliziosa.
«Io sicuramente no, sono un fifone e non ho mai sparato in vita mia!», risponde eludendo la domanda.
Anna si alza e inizia a camminare per la stanza, respira profondamente e trattiene il fiato per qualche secondo. «Sono due giorni che non faccio che pensare a quello che ho letto. Voglio sapere i nomi di chi ha ucciso Antonio e il mio ex marito. Lei è disposto ad aiutarmi?», chiede Anna guardandolo con fermezza.
Nicola alza le sopracciglia stupito. «Io? Lei può fare quello che vuole, signora, ma io non ho nessuna intenzione di farmi coinvolgere in questioni pericolose e su faccende che non mi riguardano. Non sono il tipo di persona adatta a questo genere di cose: c'è un motivo se ho sempre appoggiato la resistenza solo per questioni logistiche» dice alzandosi dalla poltrona. «È stato un piacere conoscerla.»
«Il piacere è stato mio», dice Anna stringendo la mano che Nicola le porge. «E grazie per essere venuto fin qui.»
«Ordini, ho solo ubbidito.»
Nicola fa un leggero cenno di saluto, sorride debolmente e se va.
Anna si abbandona sul divano, stanca e preoccupata. Ha bisogno dell'aiuto di qualcuno, ma non ha nessuno. Per la prima volta in vita sua si sente sola.

35. Oggi
I pomodori sono molto maturi: se non li vende li dovrà buttare. Anna carica la cassetta sul carretto e va a recuperare le patate e le mele che ha lasciato nel campo. Le trasporta con fatica: sono pesanti e da tempo, a forza di portare pesi, è costretta a convivere con il mal di schiena. Ad ogni modo si sente meglio: dopo giorni passati a letto o alla finestra, guardando la pioggia cadere, è finalmente riuscita ad animarsi. La vista del sole e l'idea di potersi bagnare del suo calore le hanno dato la forza per andare al mercato.
Spinge il carretto fuori dalla sua Proprietà, raccoglie il Giornale d'Italia che trova davanti alla porta e la chiude a chiave. La mascherina antinfluenza non la porta più, ora che sa non avere nessuna utilità, e non le importa se la gente la guarderà male. Arrivata nella piazza del mercato, al centro del paese, sistema il banchetto al solito posto.
«Tutto bene, signora?», le chiede l'uomo che vende formaggi nel banco a fianco. Anna pensa che da decenni la gente a malapena si saluta, ma che un tempo era comune parlare con le persone con cui si condivideva uno spazio.
«Sì tutto bene, grazie. E lei?», replica Anna guardando il suo vicino ordinare la merce.
Prende il Giornale d'Italia e legge il grande titolo che capeggia in prima pagina: “Siamo salvi: trovato il vaccino per l'influenza ovina”. Lo stupore le accelera i battiti del cuore e prosegue nella lettura:

Il Campione lo aveva promesso. Il vaccino per l'influenza ovina è stato trovato in tempo record, e proprio dai suoi ricercatori: è infatti di proprietà del Campione la ditta farmaceutica che ha annunciato la grande scoperta. Il prodotto, che si chiama Nosirveparanada, da domani sarà reperibile nelle farmacie di tutta la Nazione. Il Campione ha inoltre annunciato che, per salvare dalla pandemia i bambini e gli anziani – categorie verso cui ha sempre mostrato particolare sensibilità -, lo Stato comprerà ingenti quantitativi di vaccini, che a partire da mercoledì saranno disponibili in tutti gli ospedali.”

Anna chiude il giornale e tira un sospiro. Il progetto degli Amici della Libertà è un disegno sempre più chiaro.
«Mi dà un chilo di zucchine per queste?», chiede una signora anziana con i capelli arruffati, mostrandole delle saponette. «Le ho fatte io, sono molto delicate per la pelle.»
«Va bene», dice Anna dopo averle annusate.
«Lei già non porta più il copribocca?», chiede la signora, il cui viso è quasi interamente tappato da una mascherina. «Ha già fatto il vaccino forse?», dice indicando il quotidiano appoggiato sul banco.
Anna mette le zucchine nel sacchetto di carta e lo porge alla signora: «No, non l'ho fatto.»
«Finalmente siamo usciti da quest'incubo», dice l'anziana. «Siamo salvi. Grazie a Dio e al Campione.»

36. Ieri
Anna stava in piedi sul tram, schiacciata tra schiene, borse e tette, tenendosi al corrimano e con lo sguardo fisso a terra. Si fece spazio nella calca, sgusciò fuori e guardò il cielo: grigio e compatto, come sempre. Si strinse nel giubbotto e camminò velocemente verso casa.
Mentre stava tentando di infilare le chiavi nella serratura, il portone si aprì scoprendo la signora del terzo piano che usciva di fretta, con la pelliccia di chissà quale animale morto legata al collo ed un minuscolo cane glabro al guinzaglio. Guardò Anna negli occhi, ma non mosse neanche un muscolo del viso in segno di saluto.
“Stronza”, penso Anna salendo gli scalini due a due. Entrò in casa sbattendo la porta e si sedette sul divano, dove rimase immobile guardando davanti a sé per qualche minuto, con le mani dentro le tasche del giubbotto e il collo rincalcato nel bavero. Si alzò di scatto, tirò la giacca sul divano e sfilò le scarpe aiutandosi con i piedi. Accese il computer, aprì un file openoffice e iniziò a scrivere: i versi scorrevano uno dopo l'altro sullo schermo con la stessa facilità con cui li trovava dentro di sé. Mise un punto e rilesse, rivedendo nelle sue parole tutta l'angoscia che provava nel sentire la Fine avvicinarsi. Ne era sempre più certa, anche se nessuno le credeva e i suoi compagni la deridevano.
Si preparò un piatto di pasta che accompagnò con una Pedavena fresca. Sedette sul divano e accese la tv per guardare il notiziario, che non faceva che confermare la sua impressione. L'Europa era quasi interamente bruciata dagli incendi, il Sud-Est Asiatico ricoperto d'acqua, in America Latina i colpi di stato erano all'ordine del giorno, mentre in Afghanistan e Medio Oriente proseguivano guerre il cui inizio era così lontano che le cause si erano perse nella memoria degli eserciti. Assassini vestiti da presidenti, con eleganti giacche italiane e le guance grasse e rosse, assicuravano che la situazione fosse assolutamente sotto controllo.
Anna finì la cena, lavò i piatti e si rimise a scrivere. Sentiva di poter svuotare la sua inquietudine in quei versi semplici, ma la paura no, quella non la lasciava. Spense il computer e si avvicinò alla finestra: fuori la città aveva abbandonato la frenesia diurna e si era arresa al silenzio. Le strade erano illuminate ma deserte, percorse solo da qualche ubriaco di ritorno a casa.
Indossò un paio di jeans, una maglietta a maniche lunghe e una felpa nera. Si tirò su il cappuccio, afferrò una bomboletta di vernice rossa e uscì, scendendo le scale velocemente. Camminò dentro la fresca e vuota notte milanese, fermandosi di tanto in tanto per scrivere sui muri: “La Fine sta per arrivare”, “Prepariamoci al peggio”, “La catastrofe è inevitabile”. Forse qualcuno, leggendole, avrebbe pensato che non erano le parole di una pazza.

37. Oggi
Anna impila le cassette sul carretto e le copre con un telo di plastica.
«Arrivederci», dice al signore dei formaggi prima d'incamminarsi.
«Arrivederci a lei», risponde stupito del saluto spontaneo.
La giornata di mercato è andata bene e il buon risultato ha alleggerito il peso del carretto, che Anna inizia a spingere per il vicolo che esce dal paese. Il borgo è tornato al suo originario aspetto medievale da quando, dopo la Fine, le automobili non percorrono più il centro.
Anna raggiunge la fine della discesa, dove il pavimento di sanpietrini lascia il posto a una strada asfaltata che l'incuria degli ultimi decenni ha riempito di buche ed avvallamenti. La porterà fino alla sua Proprietà, un paio di chilometri più a ovest, costeggiando la collina su cui s'appiglia il borgo antico. L'intreccio di vicoli stretti, tipico dei paesi della zona, e la grande chiesa che si affaccia sulla piazza del mercato sono sopravvissuti alle pestilenze medievali, alla caccia alle streghe, alle guerre mondiali e alla Fine del capitalismo: il borgo è ancora intatto e bello, noncurante dei cicli che sconvolgono la vita umana.
Anna spinge il suo carretto, cercando di evitare le buche che rallenterebbero il suo cammino, respirando a pieni polmoni il profumo dei fiori cresciuti sul bordo della strada. La pioggia dei giorni precedenti ha rinvigorito la natura, martoriata dal sole che solitamente batte senza sosta.
Guarda la collina scendere dolcemente alla sua sinistra, formando la valle in cui durante i secoli passati la città ha preso forma. Si è sviluppata intorno ad un piccolo nucleo di pescatori e ha poi incorporato i paesi vicini, dormitori degli operai delle fabbriche sorte nell'entroterra, fino a diventare la grande città che è oggi. Grande ma disabitata, svuotata dalla Fine che ha cacciato i suoi abitanti nelle campagne attorno, alla ricerca di qualcosa da mangiare, di una ragione per continuare a vivere nonostante la povertà, la fame, la morte di quegli anni bui.
Ad Anna sembra tanto lontano il periodo del Caos, la paura e le razzie, ora che ne ha ritrovato la memoria, ora che ricorda chi era allora e come ha resistito alla Fine del Liberismo, che per molti era stata la fine della vita, per altri l'inizio di una nuova speranza.

38. Ieri
I quotidiani gratuiti che distribuivano nella metro erano sempre pieni di notizie insignificanti. La gente era stata abituata a dare peso al nulla, a riempirsi la testa di informazioni leggere e senza nessuna rilevanza per la coscienza, che si svuotava tanto da far perdere al cervello la capacità di attivarsi.
Anna tirò il giornale dal suo divano, sistemò la coperta in modo da isolarsi dal freddo e raccolse il libro da terra:

La rivoluzione non dev'essere un momento insurrezionale con cui prendere il potere, situato in alto, e modificare la società. Rivoluzione dev'essere invece allargare dal basso le esperienze autogestionarie, contropotere, fino a farle diventare la “società” tutta, la cui gestione dall'alto sarà poi svuotata di significato dal cambiamento strutturale della società stessa.3

Si appoggiò il libro aperto sulla pancia con la copertina rivolta verso l'alto, e rimase a riflettere qualche minuto. Poi cercò il telecomando sul divano, tastando con la mano lo spazio tra lo schienale e il cuscino su cui era sdraiata, e si mise a fare zapping in tv. Si fermò su Lost, una serie statunitense su un gruppo di sopravvissuti a un disastro aereo, che ai tempi in cui era uscita la teneva incollata allo schermo. Ricordava che allora il giovedì sera era dedicato a Lost, niente avrebbe potuto trascinare fuori di casa Anna e la sua coinquilina.
Le trasmissioni s'interruppero durante una scena che teneva col fiato sospeso. Anna imprecò mentre partiva la sigla del notiziario, che lasciò spazio a una giornalista seria e preoccupata. Si alzò sbuffando e aprì la credenza, tagliò una fetta di pane e la cosparse di Nutella. Poi versò un bicchiere di succo d'arancia e si sedette nuovamente sul divano guardando Tina, che si godeva il cuscino che le faceva da cuccia a pancia all'aria, come sempre. L'odore della Nutella animò la cagnetta: si avviò scodinzolando verso il divano e le appoggiò il muso sulle ginocchia.
«No, Tina, la Nutella non è per te. Guarda lì la tua ciotola, è ancora piena di crocchette. Che hanno queste crocchette che non ti piacciono?»
Tina la guardò con occhi compassionevoli.
«Fammi vedere il telegiornale in pace, piccolina», disse Anna accarezzando il pelo nero e ruvido della cagnetta.
La giornalista guardò la telecamera con gli occhi spalancati e lesse il foglio che teneva in mano:

Gentili telespettatori, interrompiamo le trasmissioni per informarvi che le borse dei valori di tutto il mondo sono crollate e le banche hanno chiuso gli sportelli. Molti paesi hanno bloccato le frontiere ed è stata annunciata un'imminente crisi alimentare. Il panico si sta diffondendo tra la popolazione, che si sta riversando nelle strade. Il Presidente rassicura: “Faremo del nostro meglio per contenere...”

Anna rimase a fissare lo schermo per un lunghissimo istante, senza guardare le immagini che materializzavano la Fine del Liberismo. Entrò in camera, s'infilò con fatica un paio di stivaletti e uscì di fretta in strada. Davvero non sapeva cosa si sarebbe potuta aspettare fuori da quella porta.

39. Oggi
Anna si lascia distrarre dalle forme che uno stormo di uccelli compone nel cielo, ma cambiano troppo rapidamente per indovinarne la figura. Perde il controllo del carretto e lo vede affondare lentamente in una pozzanghera piena di acqua e fango. Impreca, afferra il carro con entrambe le mani e lo tira verso di sé con forza: le ruote escono dal pantano, ma una volta raggiunto il bordo della buca vengono ringhiottite dal fango. Prova nuovamente, ma neanche il secondo tentativo riesce.
Si ferma per riprendere fiato, appoggia le mani sulle ginocchia e respira profondamente, finché il cuore non ritrova il suo battito regolare. Guarda la città che si estende sotto la strada, e pensa all'ultima volta che l'ha vista: l'incontro con Petra, la riunione nella cantina, la chiacchierata in quel bar che puzzava di crauti e birra annacquata.
Vede un sottile fumo in lontananza alzarsi dal centro della città e si chiede cosa sia, ma non riesce a capire da dove provenga. Un rombo riempie la valle, coprendo il silenzio che sonnecchia dappertutto, e un'altra colonna di fumo denso e nero s'innalza sulle case. Una raffica di spari, forte e pulita, percorre l'aria. Dopo pochi istanti un'altra, e un'altra ancora. Un silenzio preoccupante vince nuovamente lo spazio attorno.
Anna guarda intorno a sé cercando qualcuno con cui condividere la preoccupazione, ma la strada è deserta. Afferra il carretto e lo tira con tutta la forza che ha, liberando finalmente le ruote dal pantano. Circumnaviga la buca e si avvia velocemente verso casa, dimenticandosi dei profumi, dei colori e dell'aria che rendevano tanto piacevole la sua passeggiata. Ora sente solo paura, e sa che in questi casi la cosa migliore è rinchiudersi il prima possibile al sicuro.

40. Ieri
Il primo suono fu un cucchiaio di metallo contro una pentola. Era la signora del palazzo di fronte a quello di Anna, che gridava la sua indignazione dalla finestra di casa. Non era l'unica: la strada era piena di gente che batteva pentole e coperchi, fischiando e urlando.
«Signorina», la chiamò la signora alla finestra. «Faccia qualcosa anche per me, che son qui malata e non posso uscire di casa.»
«Qualcosa in che senso?», chiese Anna.
«Mandatelo via il Fondo Monetario Internazionale, mandateli via questi farabutti del governo che c'hanno rovinato la vita, che c'hanno rubato tutto. Spacchi tutto!»
«Va bene», rispose Anna divertita dallo spirito della signora.
Percorse il viale che portava in centro, cercando di rubare frammenti di conversazione alle persone che si stavano riunendo in strada nel tentativo di spiegare l'incomprensibile, di immaginare un futuro inimmaginabile.
«Che faremo ora? Le banche hanno chiuso lasciandoci senza soldi. Il lavoro lo perderemo, che facciamo?»
«Andiamo alla banca!», urlò un signore di mezz'età agitando il palo che teneva in mano.
Il gruppo si avviò lungo il viale, ingrandendosi nel cammino che lo portava alla banca, presidiata da tre guardie armate e terrorizzate. La folla si parò davanti alle guardie, che puntarono i fucili.
«Abbassate le armi e andatevene, non vi faremo nulla», urlò un ragazzo con una fionda in mano.
I tre si guardarono tra loro e, prima che avessero il tempo di allontanarsi, la folla spinse verso l'entrata della banca, investendoli. Quelli delle prime file spaccarono il vetro con le mazze facendo spazio alla moltitudine che, entrando, trovò il direttore intento a contare i pochi spiccioli rimasti. Appena vide la folla, l'uomo si riparò il viso con le braccia e si accasciò su se stesso piagnucolando. Un uomo sulla cinquantina ben vestito lo afferrò per il collo della camicia e lo trascinò in strada.
Anna guardò attonita la scena e decise di riprendere il cammino: voleva raggiungere la piazza centrale, andare di fronte al Palazzo Presidenziale e finalmente vedere quello che da tanto aspettava: la caduta del Liberismo. Gruppi di persone percorrevano il viale nella solita direzione, con il suo stesso intento, trascinati forse più dalla rabbia che dalla speranza che muoveva lei. Quasi non poteva credere che, dopo decenni di assopimento, la gente si fosse ridestata con tale forza.
Il sole stava scendendo dal suo picco e cercava un monte dietro cui nascondersi, spalmando lunghe ombre sulla piazza gremita di gente. Il Palazzo Presidenziale era protetto da esercito e poliziotti antisommossa, i cui scudi brillavano degli ultimi raggi di sole.
Si sentì un'esplosione e un intreccio di gas fumogeni si disegnò in cielo. Anna si trovò schiacciata dalla folla che cercava di indietreggiare: una serie di cariche della polizia colpirono il corteo, che si aprì come una latta di tonno in scatola.
Riuscì a sgusciare tra i corpi che la premevano e si diresse in direzione contraria alla spinta della folla, fino ad arrivare a pochi metri dal cordone di militari e poliziotti. Si coprì il viso con un foulard, afferrò un sasso che trovò in terra e lo lanciò contro i militari con tutta la forza che aveva in corpo. Alcuni ragazzi si unirono al suo sforzo e, quando l'aria dissolse il vapore dei fumogeni, si accorse che tanti si erano sommati al gruppo.
«Il popolo non se ne va», iniziarono a cantare in coro. La piazza era loro.

41. Oggi
L'automobile esplode con un rombo assordante e una nuvola di fumo scura, spessa e maleodorante si apre orizzontalmente sulla città.
Paolo si copre la bocca con il paliacate comprato durante un viaggio in Chiapas, per isolarsi dal fumo che esce dallo scheletro dell'auto e dai gas lanciati dall'esercito. È soddisfatto: l'operazione sembra filare liscia. Guarda oltre il muretto e incrocia gli occhi di Aldo, affacciato dall'aiuola che gli fa da riparo. Ha un passamontagna nero calato sul viso e tiene la mitraglietta premuta contro il petto.
Da quando è iniziata l'azione le strade si sono svuotate: i venditori ambulanti hanno chiuso le loro attività in tutta fretta e i pochi passanti sono corsi via. A Paolo l'atmosfera ricorda una foto della città nell'800 che ha visto in un café del centro, dove gli unici soggetti, una coppia con una carrozzina, sembravano inchiodati allo sfondo fisso. Aldo invece, guardando il viale deserto che corre fino al Palazzo Presidenziale, pensa a quella stessa strada nei giorni della Fine e in quelli successivi del Caos. Ricorda la speranza che lo animava al tempo, quando credeva che la caduta del Liberismo avrebbe portato giustizia, e la rabbia che lo aveva vinto quando vide la sfilata di carri armati scortare il Campione al Palazzo Presidenziale.
Aldo fa segno con la mitraglietta indicando davanti a sé, e un gruppo di persone armate e con i volti coperti sbuca da dietro l'angolo, correndo verso il Palazzo. Fa poi un cenno a Paolo e iniziano entrambi a correre nella stessa direzione, seguiti da un altro gruppo di compagni.
L'elicottero militare continua a sorvolare la città, ma ha smesso di fare fuoco contro di loro: evidentemente gli alti comandi hanno già ordinato di smettere di sparare, di non proteggere più il Campione. Petra sa che la riuscita di un golpe dipende dell'appoggio dell'esercito, e ha preso provvedimenti. Ad ogni modo, sicuramente una parte dei militari rimarrà fedele al Campione.
Durante la corsa una raffica di spari li investe: Federica cade a terra.
«Continuate a correre», grida Aldo a Paolo e Mina, che si erano accasciati su di lei. Paolo tira per un braccio Mina, che non riesce ad abbandonare il cadavere dell'amica sull'asfalto caldo, in cui il sangue scuro e denso sembra ribollire.

42. Oggi
Il sole cuoce l'asfalto, che fuma catrame e polvere. La piazza del Palazzo Presidenziale, il suo palazzo, è deserta come sempre da quando ha preso il potere con un colpo di stato.
Guarda fuori dalla finestra e vede quel rassicurante silenzio, quell'ubbidienza assoluta che la città, con la sua inettitudine, sembra volergli dimostrare. Percorre con lo sguardo il viale che dal Palazzo si allunga fino all'arco di trionfo, costruito da un governante egocentrico intenzionato a lasciare, come lui, i segni del suo glorioso passaggio nel mondo. Lui non ha eretto un arco di trionfo, ma una sua grande statua al centro della città e un'altra in omaggio a Vittorio Mangano, l'uomo che ha permesso la sua fortuna nei primi anni di carriera.
Guarda il viale e ricorda il giorno in cui lo ha attraversato a bordo del carrarmato, accompagnato da una silenziosa sfilata di veicoli dell'esercito che lo hanno scortato fino al Palazzo Presidenziale. È stato semplice entrarvi: il Caos aveva invaso la città e le sue anime, e nessuno in quello stato di panico, confusione e fame avrebbe fatto qualcosa per fermarlo. Era riuscito a cogliere il momento migliore per mettere a punto il suo golpe; o meglio, era stato fortunato ad essere stato scelto. Ricordava perfettamente quella mattina di novembre, quando suonò il telefono del suo ufficio elettorale, in quell'epoca lontana in cui esistevano ancora le elezioni.
«Signore, è per lei», disse la segretaria con voce emozionata. Non succedeva tutti i giorni di trovarsi al telefono con una persona così importante.
«Si tenga pronto», gli avevano ordinato dall'altra parte del filo. «Tutto crollerà e lei ne dovrà approfittare.»
«Tutto cosa?»
«Il sistema e di conseguenza la vita quotidiana così come la conosciamo. Crollerà e sarà il Caos, e a quel punto lei entrerà in azione: farà un colpo di stato, sarà facile e avrà tutto il nostro appoggio. Denaro, donne, avrà tutto quello che vuole. Ma si ricordi che saremo noi a decidere per lei, non avrà autonomia politica e dovrà rispettare le nostre decisioni. Sarà un nostro burattino e il suo paese al nostro completo servizio.»
Accettò con gioia la proposta, ma ancora non aveva capito quello che sarebbe successo: non poteva immaginare che stessero preparando un Governo Mondiale, che la caduta del capitalismo - contemporanea in tutti i paesi - avrebbe portato alla nascita di governi fantoccio in tutto il mondo, manovrati dalla stessa e occulta regia.
Si guardò di lato allo specchio e misurò l'ampiezza della pancia, passandoci una mano sopra. Forse era ingrassato un po' ma non gli importava, e non sarebbe importato neanche alle ragazze. Diede un'occhiata all'orologio e pensò che stavano per arrivare. Sentì un rumore di freni e vide le sue automobili sotto il Palazzo, ne scesero una quindicina di poliziotti che aprirono le porte a quegli splendori sui tacchi, che sempre più spesso lo andavano a trovare.

43. Oggi
Il caldo aveva pietrificato la città muta. Sulle scale del Palazzo giacevano i cadaveri di alcuni compagni: quelli che si erano offerti volontari per accompagnare Petra, i primi che avevano affrontato le guardie del Campione.
Aldo, Paolo e quelli rimasti erano riusciti a riunirsi nel parco antistante il Palazzo, dove muretti ed alberi offrivano un riparo ai colpi che gli ultimi soldati fedeli al Campione sparavano dalle finestre. Le raffiche partivano costanti e taglienti, ricevendo risposta continua. Si potevano ascoltare, durante i brevi silenzi tra una e l'altra, gli spari e le grida di chi stava combattendo all'interno.
Aldo si chiese cosa stesse facendo il Campione quando Petra e gli altri erano entrati di sorpresa nel palazzo. Poi decise che il momento era arrivato: «Voi venite con me» - ordinò a un gruppo - «voialtri copriteci.» Afferrò la mitraglietta e, seguito dai compagni, corse verso l'entrata del Palazzo senza smettere di premere il grilletto, sovrastato dalla cortina di pallottole che i suoi sparavano per proteggere la corsa. Si appoggiò a una colonna del porticato, controllò che Paolo e gli altri fossero riusciti ad attraversare la piazza indenni, ed entrarono prudentemente nell'edificio. Non sapeva cosa avrebbero potuto trovare.
Il cortile centrale, circondato da tre piani di portici in marmo bianco apuano, era un silenzio pesante di cadaveri e sangue. Non si sentivano più né urla né spari. Aldo cercava di dare un ritmo regolare al respiro in modo da decelerare i battiti del cuore, che sentiva pulsare in gola. Si girò di scatto: una porta si aprì improvvisamente scoprendo due guardie che si misero a correre verso l'uscita del palazzo, sparando alla cieca nella loro direzione.
Aldo avvicinò l'occhio destro al mirino del fucile e chiuse il sinistro, ma un dolore caldo e fulminante gli impedì di premere il grilletto. Vacillò, guardò il petto che gli doleva tanto da schiacciargli il fiato e si accorse che stava perdendo molto sangue. Cadde in ginocchio, abbondonò il fucile e si lasciò andare a terra. Il cuore faceva sempre più fatica a trovare il respiro, e in pochi secondi smise di cercarlo.
Paolo vide Aldo accasciarsi e morire. Sentì la rabbia esplodergli dentro: si affacciò dalla colonna, puntò la mitraglietta contro le guardie in fuga e le colpì con due soli e precisi colpi.
Si appoggiò nuovamente alla colonna di marmo e guardò i compagni rimasti, anche loro ansimanti e tesi. Indicò con la mitraglietta la porta socchiusa da cui erano uscite le guardie e con la testa fece segno di procedere in quella direzione. Spalancò la porta con un calcio e puntò la mitraglietta dritta davanti a sé: cinque soldati s'inginocchiarono nella penombra della stanza gridando di non sparare. Paolo sentiva dietro le spalle il respiro caldo dei fucili dei compagni, puntati contro i militari per proteggerlo.
«Gettate le vostre armi verso di me», ordinò ai soldati.
«Ragazzi, siamo quassù, venite che il campo è sgombro.»
Paolo riconobbe la voce di Lucia, che urlava dal porticato del piano superiore. «Fuori tutti», ordinò ai prigionieri. «Mina e Giulio: rimanete qui nel cortile e teneteli d'occhio. Gli altri, con me.»
Paolo raccolse i compagni e salirono di corsa le scale.
«Ce l'abbiamo fatta!», disse Lucia appena li vide. «Non vi potete neanche immaginare come abbiamo trovato il Campione.»

44. Oggi
Il Campione scese nell'atrio per accogliere le ragazze. Le baciò tutte, una ad una, accarezzando le schiene velate dalle sete giapponesi che aveva regalato loro, annusando i profumi sensuali con cui innaffiavano le giovani pelli.
Le accompagnò fino alla sala da pranzo e le fece accomodare alla tavola ricca di cibo e piante fiorite, vini e acqua di frutta. Mangiarono, scherzarono e cantarono con Piricella, l'amico fedele che sempre lo accompagnava nei festini. Regalò fiori e pietre preziose a tutte le ragazze.
«E ora alla Sala Grande!», annunciò quando l'alcool e i doni avevano intorpidito a sufficienza le remore.
Accompagnò le ragazze nel patio centrale del Palazzo, attraversarono un grande portone in legno e percorsero un corridoio che sembrava non avere fine, carico di tappeti persiani, piante esotiche e quadri imponenti. Le ragazze sorridevano, lo adulavano, si avvicinavano a lui nel tentativo di farsi contaminare dall'aurea di potere e denaro che la sua persona emanava. Il Campione approfittava degli sguardi e di quei giovani corpi, accarezzandoli mentre si dipanavano nel lungo corridoio, sfiorando braccia, spalle e natiche. Erano nient'altro che corpi, solo corpi di donna, non donne. Donna era stata solo Barbara, che l'aveva lasciato perché non amava i suoi rituali, perché riteneva che il bunga bunga fosse una cosa da “vecchio porco pervertito e maschilista”. Non capiva che era un gioco, che niente aveva a che vedere con la stima e il rispetto nei suoi confronti.
Entrarono nella grande sala del bunga bunga, di cui aveva personalmente seguito i lavori di costruzione. Piricella si sistemò sul piccolo palco nel fondo e iniziò a suonare la chitarra. Intonò una vecchia ballata popolare, una canzone d'amore. Il Campione si accomodò nella sua poltrona-trono, appoggiò i gomiti sui braccioli e sorrise soddisfatto, guardando le ragazze che iniziavano a sfilarsi i vestiti, liberando corpi di cui nascondevano solo le parti intime con mutandine di pallettes e disegni di felini.
Si sedettero sul bordo della piscina, al centro della quale il Campione aveva fatto sistemare una ceiba, un imponente albero arrivato appositamente dalla selva del Messico meridionale. La vegetazione tropicale cresceva rigogliosa in tutto l'ambiente, intrecciandosi sinuosamente con quei corpi femminili.
Le guardava bagnarsi, tuffarsi, parlare tra loro. Le guardava guardarlo: nessuna distoglieva gli occhi da lui, l'uomo che, seduto in disparte, riempiva tutta la stanza con l'imponenza della sua persona, con il suo potere.
Un gruppetto di ragazze si alzò dal bordo della piscina e camminò con passi ricercati verso di lui, che le osservava camminare, muovere ritmicamente le gambe sottili e lunghe come fili di lana, mentre i seni fermi e duri ondeggiavano leggermente. Una ragazza si mise alle sue spalle e iniziò a massaggiarlo. Un'altra lo fissò con aria di sfida e gli afferrò la camicia per slacciarla. La terza gli alzò il viso con un dito e gli sussurrò nell'orecchio qualcosa che non riuscì a capire, visto il volume della musica che copriva qualsiasi suono. Poi gli baciò le labbra e gli affondò con decisione la lingua dentro la bocca, ancora presentabile grazie alla dentiera nuova di zecca.
Così si trovava il Campione quando Petra aprì con un calcio il magnifico portone in legno. Le ragazze si alzarono dal bordo della piscina e iniziarono ad urlare: fu solo allora che il Campione capì che, in quella stanza di lusso e piacere, stava succedendo qualcosa che non entrava nei suoi piani, qualcosa che non faceva parte del suo solito rituale. Tutte scapparono lasciandolo lì, nella sua poltrona-trono, con la camicia strappata e il rossetto sbavato sul viso. Due uomini gli puntarono il fucile contro, mentre Petra gli si parò davanti e lo guardò con disprezzo e soddisfazione: «In nome del popolo italiano, in nome di tutti quelli che a causa tua hanno sofferto, in nome di tutte le persone a cui hai sottratto la dignità, in nome delle donne che hai umiliato, io ti dichiaro in arresto, grandissimo porco schifoso.»

45. Ieri
Da tre giorni la città puzzava di bruciato. Auto, copertoni, banche, uffici del governo e negozi: le fiamme avevano pulito tutto. Alimentari e supermercati erano stati saccheggiati ed era difficile trovare cibo.
Anna si svegliò con un forte mal di testa causato da una manganellata con cui, il giorno prima, un poliziotto aveva rotto il casco che indossava durante i tafferugli. Alzò la mano di Gabriele addormentata su di lei, si liberò dal suo abbraccio e andò verso la finestra. Guardò un albero incendiato che si consumava lentamente ritirandosi nel suo tronco, e pensò all'odore che il crepitio della legna bruciata lascia sulla pelle e i vestiti. Sorrise pensando alle sere passate davanti al caminetto con gli amici, nella casa in campagna dei suoi.
Gabriele si alzò dal letto e andò ad appoggiarle la pancia contro la schiena, le mise le mani sui fianchi e le baciò i capelli. Rimase anche lui in silenzio a osservare la città che si allontanava dalla finestra, riempiendo di edifici tutto lo spazio visivo. Guardò attraverso la ferita di un vetro che scomponeva il paesaggio come un quadro cubista e vide cadere una neve leggera e corposa, che si appoggiava su superfici troppo calde per non sciogliersi come un gelato sulla lingua di un bambino.
«Pensavo ai compagni che sono rimasti sulle barricate, chissà che freddo hanno», disse Anna preoccupata.
«Già. Possiamo preparare del tè caldo e portarlo quando andiamo a dargli il cambio.»
Anna sospirò senza distogliere lo sguardo dall'estensione grigia che le si parava innanzi: la città che aveva odiato, le persone che aveva snobbato e che ora l'affiancavano in piazza e sulle barricate. La fame, la disperazione, la scoperta dell'inganno a cui erano stati sottoposti avevano improvvisamente destato tutti, come una campana che suona appena fuori dalla stanza da letto.
«Hai paura?», chiese Gabriele sottovoce.
«Sì, un po'. L'esercito ha riconquistato la piazza, il Presidente e il governo sono riusciti a non perdere il Palazzo. Possiamo resistere e impedire ai militari di entrare nel quartiere, il popolo è tutto con noi. Ma non so se abbiamo abbastanza forza per cacciare i governanti.»
«Il problema è che non siamo ben organizzati e troppo affamati.»
«Se mi aveste ascoltato avremmo potuto organizzarci per affrontare la Fine del Liberismo. Ora invece non sappiamo che fare, né cosa ci aspetterà, volevamo l'anarchia e invece abbiamo avuto il Caos. Quello che sta succedendo non è altro che Caos: tutta questa violenza, i saccheggi, la fame. E non abbiamo un piano politico né di vita, come faremo a vivere quando il cibo finirà per davvero?»
«Non lo so. Tutti hanno perso il lavoro e allo stesso tempo sembra non avere più senso guadagnare soldi, se tanto quasi non c'è più cibo da comprare», disse Gabriele seguendo con gli occhi la lenta caduta di un fiocco di neve.
Pensò a quando, da bambino, amava l'immobilismo della città durante le nevicate, il tappeto bianco e poroso che impediva ad auto e persone di correre, rilegando il mondo in una dimensione sospesa. Spesso il primo giorno di neve sua mamma gli permetteva di rimanere a casa da scuola e passare la mattina nascosto sotto il piumone, o con la schiena contro il termosifone, guardando il cielo giallo e soffuso. I pupazzi di neve, quelli con la scopa in mano e la sciarpa, li aveva sempre considerati una cosa da film e non da bambini veri.
«Non riesco a immaginare cosa potrà succedere. Da sempre critichiamo il capitalismo ma allo stesso tempo lo abbiamo così introiettato da non poter immaginare una vita differente», disse Anna senza tono. Tirò il collo indietro fino a trovare il petto di Gabriele, che le nascose il viso nell'incavo tra l'orecchio e la clavicola.
«Forse dovremmo trasferirci in campagna, se non è più possibile comprare il cibo bisognerà trovare il modo per produrlo. Potremmo anche sposarci», disse stringendola forte.

46. Ieri
Da un paio di giorni una pioggerellina fine e insistente aveva sostituito la lieve nevicata del mercoledì, e il cielo era tornato ad essere un lenzuolo grigio e teso sulla città infreddolita.
Anna osservava la fitta cascata d'acqua offuscare le forme che si indovinavano in trasparenza, mentre Cinzia guardava la pioggia creare dei piccoli vortici sulla strada bagnata. Rimasero in silenzio per lungo tempo, aspettando che gli ultimi raggi di sole si chiudessero completamente nel buio. Cinzia aggiunse un ceppo al falò che si consumava sull'asfalto, scomponendo l'architettura della legna ormai completamente bruciata. Anna allungò le mani verso il fuoco, rivolgendogli le palme come se dovesse fermarne l'avanzata.
«Quand'era più piccolo mio figlio passava ore davanti al camino guardando la legna bruciare. Diceva che gli piaceva seguire il movimento della fiamma che cambia continuamente forma», disse Cinzia prima di girare la sedia e rivolgere la schiena al fuoco.
Anna sorrise affettuosamente, osservando quella compagna bella e forte che stimava tanto. Guardò il suo viso maturo e per la prima volta notò che era inciso da alcune rughe, e che sotto gli occhi il tempo stava creando dei leggeri rigonfiamenti. Quello che stava succedendo sembrava aver catapultato Cinzia dieci anni più avanti, a causa della preoccupazione o della fame. O di tutt'e due.
«Tu non hai bambini, vero?»
«No», rispose Anna, e pensò che ne avrebbe voluti fare con Gabriele. A lui non l'aveva mai detto, ma per la prima volta in vita sua stava uscendo con uomo che riusciva ad immaginare come padre.
«Non è certo il momento migliore per farne», continuò Cinzia senza distogliere lo sguardo dal fuoco, che le illuminava solo la metà destra del viso. «Che vita avranno questi ragazzi? Cosa stiamo lasciando loro? Non faccio che pensarci.»
«Non dobbiamo sentirci in colpa. Stiamo facendo del nostro meglio e sono sicura che le cose andranno bene, che riusciremo a superare questo momento di Caos. Sono già cinque giorni che resistiamo qui sulle barricate, proteggendo le nostre strade dalla violenza e dai furti di ladri, polizia ed esercito. Continueremo finché la città non sarà nostra.»
«Non so Anna, a me risulta difficile essere ottimista», disse Cinzia scrollando la testa. «La gente ruba tutto quello che si può trovare nei negozi e poi li brucia. E la polizia fa paura: loro hanno le armi, le sanno usare e gli piace farlo, mentre noi siamo praticamente disarmati. Una volta che la fame ci avrà vinti non sarà difficile rompere la nostra resistenza.»
Una lacrima s'allungò lenta sul viso di Cinzia. Anna osservò l'amica con attenzione: la fronte corrugata sotto il cappello di lana, il naso leggermente schiacciato, la bocca chiusa e sottile su cui si stava andando a posare la lacrima. Le prese la mano aperta e la chiuse fra le sue: era dura e fredda, malgrado la vicinanza al fuoco.
Passarono la notte parlando del loro passato e di quello che si aspettavano dal futuro, commentando libri e rivelandosi l'un l'altra dubbi, paure e aspetti poco conosciuti delle loro vite. Era facile farlo davanti al fuoco, sotto il cielo stellato che le nuvole rivelavano qua e là. Non volevano trovarsi a riflettere sul buio che si parava loro dinnanzi, sulla strada scura che dovevano controllare non venisse presa dai militari o dalle bande che si stavano approfittando del Caos.
«Chissà che sta succedendo all'estero», disse Anna quando il sole, pur non avendo ancora fatto capolino dai palazzi, iniziava a illuminare il cielo.
«Già, quei porci trasmettono solo programmi d'intrattenimento e hanno tagliato l'accesso ad Internet. Gino dice che sta creando un sistema radio per poter comunicare con la Francia, allearsi con i compagni all'estero potrebbe essere la nostra unica possibilità.»
Anna si stava lasciando vincere dal sonno quando sentì in lontananza una raffica di spari seguita da grida sguaiate. Alzò la testa appesantita dal sonno e si mise in ascolto: un rumore meccanico, sempre più vicino, iniziò a fare da sottofondo alle urla e agli spari.
«Aspettami qui, vado all'angolo a vedere che succede», disse Anna a Cinzia. La corsa le accelerò la respirazione e per un attimo, prima di svoltare l'angolo, sorrise guardando una piccola nuvola vaporosa che macchiava di bianco il cielo di un azzurro intenso e pulito. Sorrise dentro di sé finché il suo sguardo non trovò la fine della strada, e le si gelò il sangue così improvvisamente da darle un brivido.
Una sfilata di carrarmati e veicoli dell'esercito stava attraversando il viale che portava al Palazzo Presidenziale. I militari, impettiti e fieri, lanciavano urla e pallottole al cielo. La testa di un uomo calvo, tozzo e molto basso spuntava dall'oblò che bucava la pancia di un carrarmato: aveva l'aria sicura di un capo, lo sguardo fisso di un vincitore, l'atteggiamento sprezzante di un potente. Anna lo riconobbe come un politicante di destra che aveva visto qualche volta in televisione.
La parata era accompagnata da un tombale silenzio degli spettatori, che andavano piano piano riempiendo i marciapiedi del viale, stipandosi uno dietro l'altro, allungando il collo per osservare meglio. Il silenzio di chi non sa cosa succederà, ma teme di intuirlo.

47. Oggi
L'agitazione impediva ad Anna di aprire il portone della sua Proprietà: dovette fare almeno tre tentativi prima di riuscirci. Rimase qualche secondo in ascolto, con la mano sulle chiavi già dentro la serratura, prima di entrare nella sicurezza di ciò che era suo. Gli spari della città continuavano a rompere il silenzio spettrale che assorbiva la valle.
Entrò nella Proprietà e chiuse il portone con il catenaccio. Era preoccupata e non riusciva a calmarsi. Cosa stava succedendo? Petra stava bene? Era una follia mettersi contro l'esercito e le guardie del Campione, li avrebbero massacrati.
Accese la televisione, sperando di trovare notizie su quanto stava accadendo, ma stava trasmettendo un varietà. Lo seguì per qualche minuto, poi si alzò dalla poltrona e scolò le lenticchie che aveva messo a mollo la sera precedente. Le sciacquò e le versò in un recipiente, tagliò un paio di carote in piccoli pezzi e li mise a soffriggere con aglio, olio, peperoncino e patate in una pentola di terracotta. Versò le lenticchie, aggiunse l'acqua e chiuse la pentola con un coperchio. In una mezz'ora sarebbero state pronte, ma aveva molta fame e sapeva che non avrebbe resistito tutto quel tempo: tagliò una fetta di pane e la bagnò con olio e un pizzico di sale. Diede un morso soddisfatto al suo antipasto e sentì che il groviglio che aveva dentro si andava sfilando poco a poco.
Si sedette sulla poltrona per guardare il varietà. Sfilavano cantanti, ballerine e comici. Le piaceva in particolare un tipo con un accento meridionale che imitava perfettamente Michael Jackson.
Improvvisamente la trasmissione s'interruppe, lo schermo diventò grigio e un fruscio sostituì i suoni allegri del varietà. Il collegamento riprese e lo schermo si riempì del viso stanco e fermo di Petra:

Cittadini italiani, compagne e compagni, con grande piacere vi annuncio il crollo del regime del Campione. Il dittatore che per decenni ha oppresso le nostre vite e la nostra libertà è stato oggi arrestato dall'Esercito del Popolo, sotto mio comando, e si trova ora in attesa di giusto processo.
Il Partito Rivoluzionario ristabilirà libertà e democrazia per la nostra gente, derubata da un'oligarchia che perderà tutti i privilegi di cui ha goduto finora: una nuova società ci aspetta, un paese senza classi dove il potere apparterrà al popolo sovrano, a ciascun cittadino, che mai più sarà suddito di un governo mafioso e corrotto.

48. Ieri
Scese dal carrarmato facendo attenzione a non perdere l'equilibrio. Una fila di militari disposti di fronte al Palazzo si mise sull'attenti. Il Campione inspirò profondamente, gonfiò il petto, irrigidì la mascella e rispose al saluto.
Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe arrivato tanto in alto! La vita gli aveva riservato molte sorprese, ma questo era un vero e proprio miracolo. Ripensò ai compagni di scuola che lo prendevano in giro per l'altezza, a quelli dell'università che si burlavano della calvizie, problema che negli anni successivi sarebbe diventato un vero e proprio dilemma. Ricordò tutte le donne che lo avevano rifiutato perché grasso, antipatico, alcune addirittura perché stupido. E i professori che lo bocciavano ripetutamente agli esami, i colleghi di partito che gli davano dell'opportunista, del debole, del babbeo.
Tutto il paese, forse tutto il mondo, lo stava osservando mentre saliva le scale del Palazzo e andava incontro alla sua gloria, verso il tempo in cui tutti lo avrebbero riverito e amato. Attraversò il grande portone con la testa alta e le spalle avvolte in un mantello che lo faceva sentire un Napoleone. Percorse il cortile centrale osservando i marmi e le ricchezze che presto sarebbero state sue, dirigendosi verso la sala predisposta per il suo discorso d'insediamento, scritto in un fax ricevuto qualche giorno prima da un paese lontano.
Salì sulla pedana e guardò il pubblico: i suoi ministri, i sottosegretari, i portaborse e qualche giornalista. Una leggera tachicardia lo vinse una volta che si trovò pressato dagli sguardi ruffiani e vuoti dei presenti. Guardò la telecamera, inspirò profondamente, sfoderò il suo sorriso migliore e iniziò a leggere:

Cittadini italiani, è con grande piacere che vi annuncio la fine del periodo del Caos, che lascerà posto a una nuova era di ordine e progresso. Ristabiliremo libertà e democrazia per il nostro popolo, derubato dalle razzie e dalla violenza degli ultimi giorni, grazie al Piano di Rinascita Nazionale ideato dal Nuovo Partito Oltreumanista. Grazie alle nuove scoperte scientifiche, il Partito permetterà a ogni cittadino di allungare la propria vita ed intervenire sul proprio cervello per aumentarne le capacità. Un lungo periodo di benessere, prosperità e democrazia è alle porte.
Rialzati Italia! E che Dio mi benedica!

Anna e Cinzia ascoltavano la radio con sguardo assente. Sapevano di non aver più forza per resistere sulle barricate, sapevano di aver perso.

49. Oggi
«Spero capirai che in questo momento non ho molto tempo libero», dice Petra versando un cucchiaio di fruttosio nel caffè di zucca.
«Sì, sinceramente pensavo non mi avresti neanche ricevuta.»
«Cosa non si farebbe per una vecchia amica!», esclama con un sorriso amaro.
«La vostra nuova sede sembra molto più accogliente del vecchio quartier generale. Il tuo ufficio soprattutto», nota Anna, guardando Petra sprofondata nella sedia in pelle dell'ex studio del Campione, nel Palazzo Presidenziale.
«Già, ma immagino non sarai venuta fin qui per complimentarti della nostra nuova sede. Dimmi tutto.», l'incoraggia Petra.
«Sono venuta per parlarti del fascicolo con i risultati delle ricerche di Antonio. Innanzitutto, ti volevo ringraziare per avermelo mandato.»
«Figuriamoci, hai tutto il diritto di sapere com'è morto tuo marito.»
«Davvero quello che c'è scritto sembra impossibile», dice Anna e subito dopo tacere, in attesa di un commento dell'amica che facilitasse la conversazione.
Petra si alza e si dirige verso una cassettiera, da cui estrae un plico di fogli che porta fino alla sua scrivania. Indossa una camicia bianca molto semplice, ma la scollatura e i jeans attillati le conferiscono un'aria elegante. Si siede di fronte ad Anna, facendosi incorniciare dalla scrivania imponente, afferra una penna e inizia a firmare rapidamente i fogli che ha portato con sé, senza leggerne il contenuto.
«Arriva al dunque Anna, scusami ma proprio non ho tempo.»
«Vorrei che mi aiutassi a identificare chi fra gli Amici della Libertà è coinvolto nella storia dell'influenza. Chi ha permesso l'utilizzo di cavie umane, chi ha inventato il virus, chi il vaccino e chi è il mandante dell'omicidio di Antonio.»
Petra interrompe la firma dei documenti e le tira un'occhiata gelida: «E una volta che li avrai indentificati, che farai?»
«Non lo so, ma in qualche modo sarà possibile punirli, no?»
«Ti ho già detto che ti vai a mettere in una situazione più grande di te.»
«Sì, ma ora le cose sono cambiate, avete preso il potere. Creerete un tribunale per punire gli Amici della Libertà, immagino. Il Ministro della Sanità, per lo meno, non la può certo passare liscia. E poi non si tratta solo di mio marito e di Antonio, chissà quante centinaia di persone sono morte per colpa di questi criminali. E tutti noi siamo stati ingannati», dice Anna concitata. Inizia a sentirsi come una bambina che supplica la madre di soddisfare un suo capriccio.
Petra continua a guardarla, calma e ferma: «Capisco quello che vuoi dire, ma non è davvero possibile. Io e i miei collaboratori abbiamo mille cose da fare e non possiamo concentrarci su una tua vendetta personale.»
«Non è una mia vendetta personale! Riguarda tutti, dobbiamo scovare questi porci e dare loro la giusta punizione.»
«Mi spiace, Anna, ma non se ne parla proprio. Ora, per favore, se ti vuoi accomodare fuori; io ho molto lavoro da fare.»
Anna rimane a fissarla per qualche secondo. Non può credere che la fame di giustizia di quella donna coraggiosa e determinata si fermi di fronte a qualche scartoffia burocratica. Petra sostiene lo sguardo accusatore di Anna e segue: «Sono cose su cui lavoreremo a tempo debito. Ora abbiamo altre priorità.»
Anna si alza e raccoglie la giacca che ha appoggiato allo schienale della sedia. «Me ne vado, quindi. Grazie per avermi ricevuta, presidentessa».
Un militare apre la grande porta dell'ufficio di Petra, Anna l'attraversa e si trova nel portico superiore del patio centrale del palazzo, dove le tozze colonne in marmo e la rigogliosa vegetazione tropicale impediscono una vista d'insieme. Scende per la larga scalinata bianca, puntellata da guardie in divisa con le armi in pugno, aumentando l'andatura a ogni gradino, per trovarsi il prima possibile fuori da quell'edificio che puzza di vecchio e violenza.

50. Oggi
Il sacco oscilla come un pendolo impazzito. Paolo lo blocca facendosi schermo coi guantoni, poi li sfila e li getta sulla panca. Prende l'asciugamano e se lo passa sul viso, sulla testa quasi completamente rasata e sul petto, che il sudore ha reso brillante come la superficie del mare al tramonto.
«Ciao», dice una voce lontana, rotta dal rumore della porta antipanico che le si chiude alle spalle.
Si volta e vede una donna entrare dal fondo della palestra, minuscola in quell'ambiente tanto ampio. Il rumore dei passi rimbalza da una parete all'altra, rimbombando ritmicamente nel silenzio. La figura all'avvicinarsi s'ingrandisce e i suoi contorni si fanno sempre più delineati. Si ferma a una decina di passi da Paolo, dove lo spazio che li separa rivela già i dettagli del viso.
«Che c'è? Non mi riconosci?»
Paolo la guarda con occhi attenti, studiandone i lineamenti familiari, cercando dentro di sé un ricordo che lo aiuti a ritrovarne il nome.
«Anna?» dice spalancando gli occhi.
«Già», risponde lei sorridendo e allontanando lo sguardo per un istante. Anna ha vent'anni in più dal loro ultimo incontro, ma sembra ne siano passati almeno trenta. Indossa abiti semplici e tiene i capelli raccolti in una coda di cavallo. Il viso stanco conserva i tratti puliti di un tempo, ma la pelle sembra riuscire con fatica a resistere all'attrazione terrestre. Anche lo sguardo è cambiato, malgrado conservi l'atteggiamento determinato che Paolo ricorda.
«Che ci fai qui?», chiede lui infilando una maglietta a mezze maniche.
«Avevo bisogno di vederti e sono riuscita a scoprire dove trovarti. Mi spiace se ti disturbo, ma...»
«No, non preoccuparti», la interrompe. «È un piacere vederti. È solo che davvero non me lo aspettavo», dice tentennando. «Dimmi tutto.»
«Ho bisogno di parlarti di una questione molto importante.»
«Senz'altro. Mi puoi aspettare fuori che mi faccio una doccia e ti raggiungo?»
«Ok.»
Anna sparisce nuovamente dietro la porta antipanico, mentre Paolo si avvia verso lo spogliatoio. Si fa una doccia tiepida, pensando a come risolvere la situazione. Non si aspettava che Anna lo avrebbe cercato. Petra gli aveva detto di averla trascinata a una riunione molti mesi prima e che Anna era diventata una donna completamente spenta.
Chiude il rubinetto della doccia e indossa gli abiti puliti, infila quelli sporchi nel borsone e si appoggia la cinghia sulle spalle, facendolo penzolare dalla schiena. Esce dallo spogliatoio e fa un cenno di saluto al guardiano, seduto in un gabbiotto di fianco alla porta.
«Arrivederci signor Ministro», dice il guardiano portandosi l'indice e il medio della mano destra alla fronte, facendo il saluto militare.

51. Oggi
Anna guarda Paolo rovistare nel borsone che tiene appeso alla spalla. Studia con attenzione i tratti del viso dell'amico, che rispetto al loro ultimo incontro, più di vent'anni prima, si sono solo un po' induriti. Paolo tira fuori il berretto di lana blu che indossa sempre nei giorni freddi, e l'abbassa fino a coprire le orecchie.
«Che dici, ci andiamo a fare un the caldo nel bar qui vicino?»
Anna assente e afferra con entrambe le mani il bavero del cappotto, che si stringe sulla gola. Il vento taglia il silenzio della città addormentata e il buio del tardo pomeriggio pare il colore naturale di quella periferia solitaria, dove il cemento è interrotto solo da pochi alberi intirizziti.
Quando si trovano seduti uno davanti all'altra, Paolo osserva nuovamente Anna, cercando di scoprire nei suoi gesti una tensione o un imbarazzo che ne tradisca le intenzioni; ma il suo viso non svela nessuna emozione, se non la serenità di una donna ormai lontana dalla gioventù nel gesto di colmare le tazze di the.
«È passato davvero tanto tempo», dice Paolo mostrando il suo migliore sorriso.
Sa che Anna da ragazza era attratta da lui e che gli anni trascorsi non gli hanno certo rubato fascino: a quasi cinquant'anni ha ancora un fisico decisamente atletico e il nero dei suoi occhi profondi e meridionali conserva la vivacità di un tempo. Anna, che non sa che a Paolo non piacciono le donne, lo fulmina con lo sguardo fermo di chi non è disponibile a cedere a un gioco seduttivo.
«Sono venuta per chiederti aiuto. Ho già parlato con Petra, ma è immersa in mille cose e dice che la mia questione non è prioritaria. Per me invece lo è.»
«Innanzitutto dimmi di che si tratta», dice Paolo fingendo interesse. Afferra la tazza con entrambe le mani e dà una breve sorsata al the, ancora troppo caldo.
«Sai la verità sull'influenza ovina? Conosci i risultati delle ricerche di Antonio?», chiede Anna abbassando la voce.
«No», mente lui.
Anna fruga nella borsa ed estrae un pacchetto di sigarette. Ne ha sempre uno con sé, anche se non fuma quasi mai, e sente che il quel momento una sigaretta l'avrebbe aiutata a distendere i nervi e raccogliere i pensieri.
«Sono entrata in possesso dei risultati della ricerca sull'influenza ovina di Antonio, uno studente di biologia che lavorava con voi», esordisce Anna prima di sbuffare fuori il fumo. «Antonio è stato ucciso.»
«Sì, lo sapevo. Non conoscevo bene Antonio, ma so cosa gli è successo.»
«L'hanno ammazzato in casa mia.»
«Questo invece non lo sapevo», dice Paolo guardandola negli occhi per camuffare la menzogna.
«È stato ucciso a causa di quello che aveva scoperto.»
«Cioè?», chiede Paolo picchiettando l'accendino sul tavolo. Percepisce una determinazione nella voce di Anna che cozza con la descrizione che ne aveva dato Petra tempo prima.
«L'influenza ovina non viene dalle pecore, come ci hanno fatto credere. È stata creata in laboratorio dagli Amici della Libertà, e sperimentata su delle cavie umane senza il loro consenso: sono stati rapiti alcuni dissidenti politici e poi, grazie ad un macchinario oltreumanista, hanno cancellato nella loro memoria il ricordo di quello che era successo. La cavia n°34 era Gabriele, mio marito, che a seguito della cancellazione del ricordo soffriva di vuoti di memoria.»
Paolo inscena un sorriso amaro, ruba una sigaretta dal pacchetto di Anna e la accende. Vorrebbe che si zittisse per non sentirsi costretto a segnalare la vecchia compagna.
«Perché gli Amici della Libertà avrebbero dovuto diffondere un virus?»
«Per seminare il terrore: il popolo impaurito è più debole e meglio disposto ad accettare leggi liberticide, che infatti proprio in quei giorni sono state approvate», dice Anna stupita dell'ingenuità di Paolo. «Le analisi di Antonio dimostrano che alcune delle iniezioni subite dalle cavie erano molto pericolose per l'organismo. Gabriele è morto a causa delle iniezioni, non dell'influenza ovina, che è una grandissima menzogna: è una normale influenza, creata dagli Amici della Libertà per seminare il panico nella popolazione e vendergli poi il vaccino, creato da loro stessi. Un grande affare per gli Amici della Libertà dal punto di vista politico, ma anche economico, visto che lo Stato ha comprato alla ditta del Campione milioni di vaccini contro una malattia che non esiste.»
Paolo la ascolta con il gomito sinistro appoggiato al tavolo e l'indice sulle labbra. La mano destra avvolge fiaccamente la tazza di the, ormai freddo. Scuote leggermente la testa e aggrotta la fronte fino a far incontrare le sopracciglia.
«Sei sicura di quello che dici?», chiede per prendere tempo.
«Assolutamente sì.»
«E perché sei venuta a cercarmi?»
«Per chiederti di aiutarmi a trovare i colpevoli.»
«Come ti ha detto Petra, abbiamo altre priorità in questo momento. E anche volendo, non posso prendere iniziative senza il suo consenso.»
«Allora ti chiedo di insistere con Petra affinché questa faccenda diventi una priorità. Non capisco come possa non esserlo.»
«Ci proverò Anna, ma non ti posso assicurare niente.»
«Non mi darò per vinta, se non mi appoggerete cercherò l'aiuto di qualcun altro, o farò da sola. Basterà diffondere la notizia: l'indignazione nell'opinione pubblica sarà così forte che tutti vorranno giustizia.»
Paolo la guarda muto. La vita di Anna è nelle sue mani, che non si rende conto di quello che sta rischiando.

52. Oggi
Paolo batte con decisione il tacco e fa il saluto militare. Non ha mai indossato un'uniforme, quando da ragazzo ha ricevuto la chiamata alla leva ha fatto obiezione di coscienza. Il tessuto della divisa è spesso e non cede ai movimenti che il corpo cerca di imporgli, costringendolo in una posizione rigida che lo fa sentire forte e importante.
«Siediti pure», dice Petra indicando la sedia davanti a sé.
Paolo la scosta dal tavolo, toglie il cappello che gli opprime la fronte e si siede, appoggiandolo sulle ginocchia.
«Come stai?»
«Bene, l'assenza del Campione mi ha alleggerito la vita», risponde Petra sprofondando nella poltrona di pelle.
«Già, questa volta è davvero finita. E il popolo è con noi: stiamo trionfando!»
«Ti posso offrire un caffè? Ho caffè di caffè», dice Petra andando verso il tavolino dove si trova il bollitore.
«Certo, come rifiutare un caffè di caffè.»
Petra riempie due tazze, ne posa una di fronte a Paolo e si risiede.
«Al telefono hai detto che avevi bisogno di parlarmi urgentemente.»
«Non so come uscire da una situazione in cui mi trovo. Ho pensato che avresti saputo consigliarmi», dice Paolo con gravità.
«Dimmi tutto.»
«Anna mi ha trovato. È spuntata all'improvviso, non so da dove, davvero non me l'aspettavo. Vuole che la aiuti a cercare i responsabili dell'influenza ovina.»
«Uf, non si perde d'animo», nota Petra stupita.
«Non capisco perché le hai permesso di leggere il fascicolo di Antonio.»
«Lo so, ho sbagliato, mi sono fatta intenerire dai vecchi ricordi. Suo marito è morto perché era stato utilizzato come cavia, ho pensato fosse giusto lo sapesse, è una vecchia amica. E non mi sembrava certo il tipo che avrebbe sollevato un polverone», spiega atona come chi confessa un errore.
«Mi ha detto che se non l'aiuterò a scoprire i colpevoli renderà pubblica la faccenda.»
«Certamente non possiamo dirle chi sono i reali responsabili. Anche a me non piace molto questa gente, ma avevamo bisogno dell'appoggio di una parte degli Amici della Libertà perché la nostra operazione riuscisse. Ora sono con noi, evidentemente Anna non se n'è accorta ma gli abbiamo dato posti chiave nel Ministero, in politica bisogna saper fare dei compromessi», dice Petra aprendo le mani come a recitare il Padre Nostro. «Non ci restano che due opzioni: trovare dei capri espiatori da mandare in carcere al posto degli Amici della Libertà, o segnalare Anna alla polizia. Scegli tu.»

53. Oggi
Anna apre la porta scricchiolante del ripostiglio, dove sempre più spesso cerca il suo passato. Sposta alcuni scatoloni e scosta un lenzuolo che fa da sipario a un mobile. La sua vecchia libreria è rimasta lì tutti quegli anni, a custodire il tesoro di cui non è stata capace di disfarsi. Guarda emozionata i volumi disposti uno di fianco all'altro e prende un tomo spesso e compatto, con una copertina verde consumata dall'umidità. Un ovale racchiude la foto in bianco e nero del viso ottocentesco dell'autore: un giovane dai tratti scarni attraversato da un paio di baffi sottili. Passa le dita sul bordo e annusa le pagine, poi si mette a scorrerle lentamente facendole cadere dal pollice con cui le tiene. Si ferma su di una che ha segnato a matita, traboccante dell'amore del giovane Proust per Gilberte, e legge:

Senza dubbio, le varie ragioni che mi rendevano così impaziente di vederla sarebbero state meno imperiose per un adulto. Più tardi, divenuti abili nella coltivazione dei nostri piaceri, ci capita di accontentarci di quello che proviamo pensando a una donna come io pensavo a Gilberte, senza preoccuparci di sapere se questa immagine corrisponda alla realtà, e anche di quello che deriva dall'amarla senza avere la certezza che lei ci ami; o, ancora, di rinunciare al piacere di confessarle il nostro sentimento per mantenere più vivo quello che lei prova per noi, imitando quei giardinieri giapponesi che, per ottenere un fiore più bello, ne sacrificano parecchi altri. Ma quando amavo Gilberte, io credevo ancora che l'Amore esistesse al di fuori di noi; che, consentendoci tutt'al più di rimuovere gli ostacoli, ci offrisse le proprie gioie in un ordine nel quale non eravamo liberi di introdurre alcun cambiamento; mi sembrava che se, di testa mia, avessi sostituito alla dolcezza della confessione la simulazione dell'indifferenza, non solo mi sarei privato di una delle gioie più vagheggiate, ma mi sarei costruito a modo mio un amore artificioso e privo di valore, di rapporto col vero, del quale avrei rinunciato a seguire i misteriosi e già tracciati sentieri4.

Legge lentamente, assaporando ogni lettera, godendo del suono che le parole cantano nella sua testa e della verità che il loro intreccio scopre. Legge fin quando le lacrime le annebbiano la vista, e sorride felice come non si sentiva da molto tempo.

54. Oggi
L'auto frena bruscamente nell'aia, sollevando la polvere che copre il ghiaino. Il maggiore Cesare Ulivi scende, appoggia la mano destra sul fianco e inarca la schiena all'indietro per scioglierla. Poi scrocchia rumorosamente le falangi di entrambe le mani e infila i guanti di pelle nera.
La luna quasi piena illumina la notte intiepidita dal sole, che durante il giorno non lascia tregua. Il fitto silenzio notturno è coperto dalle televisioni delle case attorno all'aia: il giovedì sera alla tv passano Sospirando e nessuno mette il naso fuori casa.
Ulivi è stanco di quella routine e avrebbe passato volentieri più tempo a casa con la famiglia. La moglie, le due figlie, i cani di razza e l'immenso giardino sono ormai momenti di passaggio nella sua vita: da anni la sua quotidianità è fatta di case povere, spoglie di arredamento e profumi, di piatti rotti e urla di madri che gli si aggrappano all'uniforme, nell'ultimo ed inutile tentativo di salvare i propri figli.
All'inizio Ulivi amava quel lavoro, che gli permette di pulire ciò che di più immondo produce la società, ma da tempo ha iniziato a contare i mesi che lo separano dalla pensione.
«Maggiore, secondo i dati catastali la casa presenta un'uscita nel fondo attraverso la quale la ricercata potrebbe scappare», lo avvisa Marcelli.
«Bene, voglio due uomini davanti a quella porta», ordina.
Con una rapida occhiata Cesare Ulivi controlla la posizione dei suoi, bussa all'uscio e chiude le mani in un pugno, che nasconde dietro la schiena.
«Apra, esercito», dice dopo qualche secondo di silenzio. «Apra, esercito», ripete battendo con forza il palmo contro la porta.
Anna apre lentamente e punta gli occhi nei suoi.
«La dichiaro in arresto per cospirazione contro la democrazia», dice il maggiore spingendo l'uscio fino a farlo spalancare.
Anna non si muove e tiene lo sguardo fisso sul viso di Ulivi, che lo getterà dove ha dimenticato tutti gli occhi disperati incrociati in quegli anni. Ma Anna non è disperata, e tiene la testa ben alta quando le manette si chiudono intorno ai suoi polsi, mentre la casa viene sconvolta alla ricerca di qualcosa che non c'è.

55. Oggi
L'aria puzza di asfalto bruciato dal sole. Anna sente la corda stringerle i polsi ogni volta che il prigioniero davanti a lei si dimena. Il ragazzo piange, chiede pietà e urla che non ha fatto nulla contro il regime. La schiena è percorsa da ferite profonde e continua a perdere sangue dalla testa.
Anna guarda la ragazza alle sue spalle, legata alla solita corda che tiene tutta la fila di prigionieri: ha i piedi tumefatti e fa fatica a stare in piedi, ma non piange né parla. Alza la testa e mostra un paio di occhi azzurri e silenziosi, incavati in un viso violentato. La riconosce come la sua compagna di cella, una napoletana che fa da assistente a un professore di sociologia.
Quando abbassano la pedana dell'aereo militare, il calore ha immobilizzato l'aria e i prigionieri vengono fatti salire lentamente.
«Viva l'anarchia!», urla qualcuno nel silenzio insopportabile. Uno dei militari spara una raffica, colpendolo alle gambe per non permettergli di alleviare la paura con la morte.
Anna s'incammina serena verso la pancia dell'aereo. Non le importa di morire, per lei la vita non ha molto senso: il mondo non le piace, ma non ha abbastanza fiducia negli altri per immaginarne uno differente.
L'aereo decolla e nel buio molti iniziano a piangere, alcuni a pregare. Quando il portellone sotto i loro piedi si apre, Anna pensa a sua madre. Poi chiude gli occhi e si lascia tirare dal peso che la lega agli altri: si sgranano nel cielo come una collana di perle quando si rompe il filo, nell'aria carica del mezzogiorno, verso la profondità di un mare che sarà la loro quiete.


EPILOGO

56. Domani
Itzae cammina sul bagnasciuga. La risacca lascia una lunga impronta, una sottile pellicola di mare che si fa assorbire dalla sabbia, ritirandosi fino all'oceano. I granchi corrono velocemente sull'arena compatta e i pellicani attraversano il cielo a piccoli stormi, pescando il becco in mare. Alcuni bambini con l'acqua alle ginocchia tirano le reti, raccogliendole dopo pochi istanti piene di pesci.
Itzae guarda l'orizzonte come se possa svelare l'origine della forza del Pacifico, che s'increspa in onde alte metri e si assottiglia poi fino alla riva. Si siede all'ombra di una palma, accertandosi che i cocchi siano ben ancorati alla cima: pochi mesi prima è morto un francese a cui ne è caduto uno sulla testa.
Guarda le estremità della spiaggia che si perdono nel vapore alzato dalle onde, e pensa al suo mare quando si rompe contro la scogliera. La sua terra è così lontana che non sa in quale direzione guardare per immaginarla, e il ricordo tanto confuso che solo certi odori lo possono richiamare.
Si mette a riflettere su quello che sta succedendo nel suo paese, che la storia continua a martoriare. Pensa a tutto quello che ha imparato durante il suo lungo viaggio e che i compagni in Italia, vinti dall'ennesima dittatura, non possono immaginare. Si chiede se siano tutti vivi, se fra loro ci siano morti o desaparecidos.
Un cocco cade a un metro da lei, con un tonfo pieno e sordo. “È il momento di tornare a casa” pensa, seguendo con lo sguardo uno stormo di uccelli che sorvola la cresta di un'onda.

57. Domani
È strano vedere i grandi alberghi trasformati in magazzini. La zona hotelera di Cancún, venti chilometri di costa caraibica occupati da blocchi di cemento per visitatori a cinque stelle, dalla Fine del turismo è diventata un immenso deposito di beni di lusso: caffè, cacao, gas, petrolio. Tutto ciò che in Europa non si da, o s'incontra con difficoltà, continua a lasciare i porti delle Americhe a beneficio delle élite del vecchio mondo che, per evitare disordini, lo hanno tenuto nascosto.
Itzae guarda la spiaggia di Cancún e sente qualcosa bruciarle dentro: si trova sulla costa caraibica messicana quando arrivò la Fine, costringendola a rimanere in quella parte di mondo. In realtà, fino a quel momento non è mai stata tentata dalla voglia di tornare nel suo paese.
Ricorda la spiaggia allora, quando era un'infinita estensione di sabbia bianca tenuta dal mare blu e turchese. Ora il traffico del porto ha formato grandi macchie di catrame sull'arenile, trascinate da un mare verde e denso come olio di un frantoio di campagna. Gli hotel che si estendono alle spalle della spiaggia, convertiti in depositi, hanno perso la lucentezza di un tempo: le facciate sono annerite e i giardini trasformati in discariche di rifiuti.
Raggiunge il pontile e cerca Santiago, che le fa un cenno con il capo e s'incammina dietro un muro di container, dove Itzae lo segue.
«Entra in questo container, non chiuderò la porta ermeticamente. Una volta che la nave è partita, solo quando sarà partita, puoi uscire e raggiungere il ponte. Lì lavora gente fidata, ma non andare in nessun'altra parte della nave che se ti vedono passo dei guai. Sale, güerita?».
«Andale, compañero».
Abbraccia Santiago e lo ringrazia, lui sorride e apre la porta del container. Itzae entra e si siede su una montagna di chicchi di cacao, ne afferra una manciata e la illumina con il fascio di luce che entra da una fessura. Pensa a Shun, quando le raccontava che i suoi avi maya utilizzavano il cacao come moneta.
Sente un rombo stridente e il container sollevarsi e ondeggiare in aria, come una giostra del luna park. Quando finalmente tocca la stiva della nave, Itzae dà una forte testata contro una delle pareti. Impreca e preme la testa con il palmo della mano nel punto che duole. Dopo qualche istante sente il motore della nave e un rumore di catene, probabilmente l'ancora. Itzae percepisce la leggerezza che accompagna il lasciarsi andare in mare, allenta la presa della mano sulla testa e aspetta un tempo prima di uscire.
Quando raggiunge il ponte, i marinai sono così in fermento che nessuno fa caso alla sua presenza. Un uomo apre la gabbia di un bellissimo gallo, piumato con colori accesi e limpidi. Quando lo solleva, afferrandolo come se stesse portando l'acqua alla bocca, quello inizia ad agitare con furia le ali. Lo lancia al centro del crocchio di persone che si era formato sul ponte, dove lo aspetta un altro gallo. Una volta uno di fronte all'altro, orgogliosi di trovarsi al centro del palenque, i due aprono le piume del collo come pavoni. Si muovono in circolo, studiandosi come fanno i boxeurs, per poi saltare al centro del ring e incontrarsi in aria. Itzae si allontana schifata da quel mucchio di marinai, che sui galli hanno scommesso buona parte del salario, perdendo l'istante in cui un volatile conficca la lama che gli hanno cucito alla zampa nel collo dell'avversario, uccidendolo.
Itzae appoggia i gomiti sul parapetto ruvido di salsedine, si sporge e osserva il mare inghiottire la terra che per tanto tempo è stata sua, mentre la luna piena illumina il contorno sempre più lontano di una collina. Un uomo la guarda e le sorride: evidentemente sa chi è e che sta tornando al suo paese. Ma il motivo che la spinge a tornare non può davvero immaginarlo.

58. Domani
Genova vista dal mare è diversa che da dentro. A bordo di un'imbarcazione si può penetrare lentamente scoprendo i moli del suo porto, le tante insenature che il mare ruba alla città. Vista dal mare quasi non sembra Genova, ma una montagna brulla appoggiata sull'acqua, su cui le case colorate s'impilano fino al Righi. Da laggiù solo s'intuiscono il campanile di San Lorenzo e la cupola di Carignano, il Matitone e la Lanterna che spuntano tra le gru del porto. La città vecchia dal mare non si vede: sa nascondere bene le sue chiese e i suoi vicoli, per non farsi trovare da chi non la capirebbe.
Itzae non ha bisogno di vedere Genova per ricordarla, sa perfettamente il delinearsi confuso dei suoi vicoli, l'odore di piscio, farinata e kebab. Conosce le storie della Maddalena e della Croce Bianca, di sguardi nascosti dietro un bicchiere di asinello o una canzone di De Andrè, ma non per questo crede di averla capita. Genova è un mistero che non ha mai pensato di svelare.
Scende dalla nave, si fa spazio tra le banchine del porto e s'incammina per via Gramsci. Ricorda il traffico di una volta, le macchine e i camion in uscita dai moli. Ora il viale è una striscia di cemento malmesso su cui si è sdraiata la sopraelevata.
Arrivata alla Commenda s'infila in via Prè, cercando un poco del suo passato nel vicolo, ma non può ritrovare il suo tempo in quella desolazione, nel nulla in cui è caduto il caruggio, un tempo brulicante di voci mediterranee, nani che comprano madri e schiene per troppo tempo appoggiate alla stesso muro. In quel silenzio carico di umidità e salsedine Itzae non trova nessun ricordo.
Attraversa la strada e imbocca Via del Campo, guidata da una luce che filtra da un cancello sulla cima del vicolo. Si affaccia alla grata e scopre un piccolo cortile, illuminato da una lampadina nuda.
«È qui per il comizio?», chiede una signora anziana, rivolgendole lo sguardo muto con cui i liguri osservano i forestieri.
«Sì.»
«Allora prenda questo», dice sollevando uno straccio che copre il tavolo. Taglia una fetta di focaccia e gliela porge. «Viva Petra! Viva la Rivoluzione!»
«Viva!», risponde Itzae raccogliendo la focaccia.
Raggiunge Piazza Fossatello e scende ai portici di Sottoripa, affollati di suoni cavi che rimbombano nella volta. Dopo il silenzio chiuso dei vicoli, Itzae si trova improvvisamente inghiottita nella folla che la spinge in Piazza Caricamento, dove si stanno assiepando migliaia di teste rivolte nella stessa direzione.

59. Domani
Petra parla dal palco allestito sotto Palazzo San Giorgio. Ha la voce e il viso appuntiti e indossa un'uniforme grigia. Itzae non ascolta quello che dice, solo tenta di studiare l'organizzazione dello spazio in cui si trova.
Terminato il discorso, Petra s'incammina lungo il corridoio tracciato dalle guardie disposte a cordone. Itzae riesce a infilarsi sotto il braccio di uno dei militari che lo compongono, si para di fronte a Petra, afferra il coltello che tiene nella borsa e glielo conficca con forza nel petto, all'altezza del cuore. Avverte la durezza dello scheletro e il muscolo molle che sta per interrompere il suo incessante pulsare. Pensa a Gaetano Bresci, come lei partito dalle Americhe per uccidere re Umberto I, per dimostrare che l'iniziativa di un solo individuo può cambiare il corso degli eventi e un gesto deviare la storia verso un cammino inaspettato.
Petra la fissa negli occhi per un istante, l'ultimo. Itzae estrae il coltello e il corpo uniformato cade in ginocchio, per poi accasciarsi al suolo.
Itzae sente la pesantezza del silenzio in cui è caduta la piazza e, subito dopo, un frastuono di urla, mani e manganelli. Ma non importa, già non sta ascoltando. L'unica cosa che le importa è aver dimostrato che i potenti sono mortali e vincibili come tutti gli esseri umani.

Testo dell'interrogatorio a Gaetano Bresci, tessitore ed anarchico (29 agosto 1900):
Presidente: «L'imputato ha qualcosa da aggiungere alla sua deposizione testé letta?»
Bresci: «Il fatto l'ho compiuto da me, senza complici. Il pensiero mi venne vedendo tante miserie e tanti perseguitati. Bisogna andare all'estero per vedere come sono considerati gli italiani, ci hanno soprannominati maiali!»
Presidente: «Non divaghi.»
Bresci: «Se non mi fa parlare mi siedo.»
Presidente: «Resti nel tema.»
Bresci: «Ebbene, dirò che la condanna mi lascia indifferente, che non mi interessa punto e che sono certo di non essermi sbagliato a fare ciò che ho fatto. Non intendo neppure presentare ricorso. Io mi appello soltanto alla prossima rivoluzione.»
Presidente: «Ammettete di avere ucciso il re?»
Bresci: «Non ammazzai Umberto; ammazzai il Re, ammazzai un principio!»


Note:
1 John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi.
2 John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi.
3 Colin Ward, Anarchia come Organizzazione
4 Marcel Proust, Dalla parte di Swann