rivista anarchica
anno 43 n. 381
giugno 2013


 

Zapatisti/Verso il leninismo? Non è vero

Gentile redazione,
ho letto con attenzione l'articolo “Lettera dal Sud America” pubblicato sul numero 376 di Arivista, in cui il Laboratorio libertario di Montevideo (Uruguay) descrive l'attuale situazione dei movimenti sociali latinoamericani. Nell'articolo si dice che l'Ezln, partito da posizioni libertarie, si è negli ultimi anni spostato verso le posizioni leniniste che inizialmente criticava. Si afferma inoltre che il movimento zapatista continua “ad avere una categoria vincolata alla forma Stato che serve alla sua riproduzione”. Da anni seguo il movimento zapatista e, se ho inteso bene le parole di questi compagni uruguayani, le trovo decisamente fuorvianti.
L'Ezln è apparso a metà degli anni '90 per rivendicare i diritti delle comunità indigene messicane. Inizialmente si è seduto a un tavolo di negoziazione con il governo, sperando venissero approvate leggi in difesa dei diritti dei popoli nativi. Nel momento in cui si è sentito tradito da tutti i partiti messicani, il movimento ne ha preso con chiarezza le distanze e ha interrotto qualsiasi tipo di dialogo con le istituzioni, da cui non accetta nessun tipo di aiuto. Sarebbe un discorso molto lungo, ma credo che sinteticamente si possa affermare che in questi anni il movimento zapatista ha costruito autogoverno, autonomia e orizzontalità nelle sue comunità, e penso che, per chi ha la possibilità di farlo, un viaggio in Chiapas valga molto la pena, c'è parecchio da imparare. Secondo me le comunità zapatiste del Chiapas sono un esempio pratico di applicazione di molte teorie anarchiste. Le zapatiste e gli zapatisti non si definiscono libertari, ma sono gli anarchici più coerenti che abbia mai conosciuto.
A questo link potete trovare il testo in italiano della Sesta dichiarazione della Selva Lacandona, un testo profondo ma anche ironico che descrive la visione politica del movimento zapatista: http://www.autistici.org/nodosolidale/zapatismo_det.php?id=6.

Orsetta Bellani
La Spezia

Mercato libertario e agorismo

Condividere ogni virgola di un articolo o proposta di ragionamento è cosa alquanto rara, ma è quello che mi ha suscitato la lettura dell'articolo di Stefano Boni “Autogestione illegale contro la crisi” (“A” 378, marzo 2013, pag. 9). Boni, riportando esempi da tutto il globo, ci descrive piccoli e medi commercianti con stand mobili e una gestione del lavoro che non richiede la dipendenza né da autorizzazioni statali né da grandi imprese; barbieri e calzolai che operano nelle piazze e nei mercati; ristoratori che vivono di chioschi sulle spiagge; basta un tavolino per gestire una attività di vendita di chiamate telefoniche; basta un pavimento per vendere giornali; uno spremiagrumi per vendere bevande all'arancia. Si riproducono e si vendono film e dischi, senza preoccuparsi del copyright.
Il succo del ragionamento di Stefano Boni è semplice, ovvero, la gestione statuale è un fallimento continuo, fatto di burocratizzazione, permessi, controlli e certificati, “si sono negli ultimi decenni progressivamente allargati gli ambiti di regolamentazione invasiva attraverso l'aumento dei controlli burocratici” mentre la “società ha le risposte migliori per sollevarsi”. Quello che non viene detto però nell'articolo, ma è evidente dato che si parla in ogni esempio di attività commerciali, dal giornale al ristorante, è che si sta discutendo di “mercato libertario”. Questo articolo ha una sua considerevole importanza poiché si accetta la proprietà di tale scambio come fondamento di una probabile alternativa “situazionista” e libertaria da poter praticare da oggi, da subito, infatti, già viva ed evidente nelle varie società del globo terrestre. Emblematico ed efficace è l'elogio che Stefano Boni fa delle attività commerciali fuori dal controllo statuale e delle grandi impresi capitaliste sorrette e sponsorizzate dai vari governi e mass media.
Tale metodologia di analisi è presente anche in formulazioni sviluppate negli Usa da svariate correnti libertarie, ovvero “l'agorismo”. L'agorismo propone come soluzione ideale per approdare a una società dove tutte le relazioni tra persone siano scambi volontari, un “libero mercato” privo dell'imposizione statuale.
Come ha descritto un libertario americano, Brad Spangler: “L'agorismo è un anarchismo di mercato rivoluzionario. In una società fondata sul mercato anarchico, diritto e sicurezza saranno forniti da istituzioni libere di mercato, e non da istituzioni politiche. Gli agoristi riconoscono dunque che, tali istituzioni, non potranno svilupparsi attraverso riforme politiche, ma, anzi, attraverso veri processi di mercato. Quanto il governo sarà più bandito, tanto forte sarà la repressione contro il governo da parte del mercato che fornirà maggiore sicurezza e diritti. Il mercato domanderà tanti servizi di sicurezza quanto sarà grande la sua emergenza. Lo sviluppo di tale domanda arriverà da quei settori dell'economia in continua crescita, ovvero quelli sempre meno sotto il controllo dello stato (che di conseguenza non permetteranno più allo stato di avere il monopolio del diritto e della sicurezza). Questo settore dell'economia è la counter-economics, ovvero l'insieme dei mercati neri e grigi”.
Insomma, penso anche alla luce di quest'ultimo articolo, che una riflessione seria vada fatta nel mondo libertario, poiché una società autenticamente libertaria può svilupparsi solo dove vi è sincera e concreta libertà di relazioni e di scambio, lontano dalla coercizione e dagli obblighi burocratici tipici della regolamentazione dei mercati da parte dei governi statal-capitalisti.

Domenico Letizia
Maddaloni (Ce)



Ma la moneta è un bene comune

Credo fermamente che l'unico attuale discorso politico che giudico abbia una reale consistenza e una capacità di accomunare individui a prescindere dalla loro età, stato sociale, cultura ecc. sia quello che si occupa dei beni comuni e che, penso, gli anarchici siano legittimati a trattare. Devo dire, però, che personalmente non riuscivo a schierarmi totalmente per due motivi: uno, per la difficoltà di accettare che si potesse realizzare, attraverso codici e leggi, l'idea di una civiltà vicina a quella che io ritenevo desiderabile; l'altro, più complesso, passava attraverso la mancanza (o io non lo vedevo) di ogni accenno al superamento del mercato così come si articola oggi. Infatti le obiezioni liberiste alla realizzazione, anche di quanto gli stessi referendum avevano deciso, passavano e passano tutti dall'affermazione che “ogni cosa costa e quindi per realizzarla occorre capire come fare in termini finanziari”. Questa obiezione (o abiezione) apparentemente insuperabile, ha fondamento oggi, perchè hanno convinto tutti, almeno in Europa, che lo stato non ha mezzi, cioè non ha la disponibilità della moneta. La moneta, invece, è da sempre mezzo di scambi e di regolazione del mercato nonché strumento di pagamento e di misurazione di valori. Inoltre insistono a dirci che la causa di ciò risieda nell'enorme debito accumulato, ovviamente per colpa dei poveri in quanto, certamente, non sono i ricchi che hanno bisogno di prestiti.
Ma fino a poco tempo fa uno stato che rappresentava una società e traeva legittimità proprio dall'impegno di realizzare i principi fondamentali che lo definivano, dava il via a investimenti anche mettendosi a stampare moneta, (ricordate il New Deal?). Questa moneta messa in circolazione, salvando le regole del mercato, realizzava i fini che lo stato si proponeva. Ancora oggi tutti gli stati, Usa e Giappone per primi, stampano allegramente.
Perchè oggi non è più possibile? La risposta è che l'Europa non lo permette. E questo vuol dire che, senza che ce ne sia accorti, è accaduto qualcosa di devastante in cui l'Europa sta giocando il ruolo di apripista. È accaduto che la moneta è diventata un bene di proprietà privata. Quella che c'è in circolazione c'è. Chi la detiene, essendo sua, la utilizza come gli aggrada. L' unità europea realizza che la moneta circoli liberamente ma non i diritti dei cittadini. Anche la moneta che non c'è (debito pubblico) circola liberamente, mentre il lavoro di un polacco è retribuito in maniera diversa dallo stesso lavoro di un francese ecc.
Ma la moneta, in quanto strumento di pagamento in un mercato globale, non è bene privato, è bene comune così come l'acqua, l'aria ecc. Ecco cosa manca a chi lotta per i beni comuni. Manca la rivendicazione principale che è quella della moneta bene comune. Senza questo passaggio (insieme ad altri che ne impediscano l'accumulazione privata) non si potrà arrivare a niente.
C'è una obiezione: come può impedirsi l'accumulo privato se c'è una circolazione materiale di biglietti di banca.
Una soluzione a questo reale problema c'è e si chiama moneta elettronica. Ma è un discorso da farsi non nei termini fino ad ora proposti, che sono termini diretti a realizzare il drenaggio per fini fiscali della moneta in circolazione, ma quando si incomincerà ad accettare l'idea che la moneta, o i mezzi di scambio, siano beni comuni e non proprietà privata garantita dagli stati e degli statisti che personalmente ne godono i privilegi.
Come funziona il meccanismo della proprietà privata della moneta? Semplice: il proprietario immette nel mercato una quota monetaria (investimento) che insieme al lavoro e alla terra accresce il suo valore iniziale (i tre fattori della produzione: terra, lavoro, capitale). Lo stato drena, attraverso le tasse, parte, più o meno notevole, degli utili monetari prodotti e parte massiccia delle quote monetarie inizialmente utilizzate per i salari (della terra non se ne occupa nessuno come la situazione del pianeta dimostra ampiamente). Quanto drenato viene quindi utilizzato sia per mantenere e rafforzare se stesso (operazione importantissima in quanto la sua primaria funzione è quella di garantire la proprietà privata di ogni cosa e soprattutto della moneta) e parte per erogare direttamente interessi sul debito pubblico, che è espressione dinamica della proprietà privata della moneta.

Angelo Tirrito
Palermo


Un racconto dedicato a Carlo Cafiero

Saluto il direttore e tutta la redazione della rivista anarchica.
Sono Antonello Murer, risiedo a Nocera Inferiore e svolgo la professione di tecnico radiologo. Ho avuto modo di leggere la vostra rivista e, nello specifico, gli articoli che riguardano Carlo Cafiero.
Non avevo mai sentito parlare di Carlo Cafiero, quando un giorno, il traffico del mattino mi costrinse a rallentare. Il mio sguardo si soffermò sul nome di una stradina che costeggiava l'ex manicomio della mia città: via Carlo Cafiero, appunto.
Nella solitudine mattutina di un lavoratore in ritardo, mi chiesi chi potesse essere stato quell'uomo e cosa avesse mai fatto di interessante per aver meritato di dare un nome e proprio a quella strada. Solo qualche tempo più tardi, quella estemporanea domanda trovò una risposta. In una libreria del centro dove mi recai per l'acquisto di un libro, per caso sfilai da uno scaffale ciò che apparteneva proprio a Carlo Cafiero: il primo compendio in lingua italiana del Capitale.
Quella che interpretai come una felice coincidenza, mi procurò un certo stupore quando lessi un po' la vita dell'autore: nato a Barletta da un proprietario terriero, conobbe Marx, Engels, ecc. Ciò che più mi sconvolse, però, fu scoprire che il luogo della sua morte non fu Parigi o Londra, ma il manicomio di Nocera Inferiore. Io adoro la mia città, precisiamo subito, ma per un personaggio dello spessore intellettuale di Carlo Cafiero, finire i suoi giorni nel manicomio di Nocera Inferiore non sarà stato certo il massimo.
Conosco bene quel luogo, purtroppo, e non perché ci sia stato internato (naturalmente!) ma perché da ragazzo quando si faceva sega a scuola, spesso percorrevamo un binario morto della ferrovia che dava dietro al manicomio e, da un punto sopraelevato rispetto alla struttura, guardavamo i “pazzi”.
Da quando i manicomi sono stati chiusi, o forse è meglio dire aperti (non crede?) quella enorme struttura è stata trasformata dalla Asl di appartenenza in uffici amministrativi e sede di alcuni dipartimenti a essa collegati. Mi è capitato spesso da dipendente di quella Asl di passeggiare tra i vecchi padiglioni, prima che tutti fossero ristrutturati. Ciò che maggiormente mi colpiva erano le scritte lasciate dai vecchi residenti della struttura e, proprio quelle scritte, mi hanno ispirato a scrivere un racconto su questo grande personaggio. L'ho immaginato con un look diverso da quello ritratto nelle foto dell'epoca: capelli tagliati a spazzola, indumenti uguali per tutti. Era un intellettuale, uno che amava scrivere e anche lui, probabilmente, avrà utilizzato come supporto per reggere le parole le mura del manicomio.
Spero di non aver banalizzato la grandezza intellettuale di Carlo Cafiero e se questo racconto ritenete possa avere un valore, certo non intellettuale, ma di ammirazione per il personaggio, sono lieto di condividerlo con voi e i vostri lettori.

Pazzaria
Lo chiamavano Carbonella.
Si aggirava lungo il perimetro della gabbia di cemento che lo conteneva e le giornate le passava girovagando per i sentieri più bui della sua mente. Aveva sempre le mani nere e, di conseguenza, la faccia nera. Da qui, il soprannome Carbonella.
Le mura di cemento che lo avevano imprigionato sembravano enormi fogli di carta sui quali scriveva il suo perenne trattato.
Capelli a spazzola, giacca ciancicata, scarpe grosse che strusciava sull'asfalto perché troppo larghe da poter essere calzate perfettamente.
Era esile e curvo. Si muoveva a scatti come gli animali selvatici, attento ad ascoltare i rumori più profondi, quasi impercettibili, di quelle mura impregnate d'urla e fetore d'anime smarrite.
Di lui nessuno sapeva nulla, tranne quelle scritte che parlavano di cose che nessuno capiva. Parole senza senso, si diceva, e se gli chiedevano spiegazioni, le risposte erano incomprensibili, senza senso, appunto.
Da quanto Carbonella scrivesse sui muri, qualcuno lo sapeva: fu dalla morte dell'ingordo.
“Te lo ricordi?”.
L'ingordo morì undici/dodici anni fa. Lo cercarono per ventiquattro ore. Probabilmente prima che si accorgessero della sua scomparsa erano già passati tre o quattro giorni. Lo trovarono morto in uno scantinato, si era nascosto per consumare tutto quello che era riuscito a trafugare dalle cucine.
L'ingordo aveva sempre fame, non aveva il senso della sazietà. Era tenuto d'occhio per evitare che si strozzasse, ma lui era furbo: sapeva sempre come eludere la sorveglianza e trovare nuovi luoghi appartati dove apparecchiare la tavola.
“Sì!”
Poco tempo dopo, arrivò Carbonella. Aveva un nome e cognome, si chiamava Carlo Cafiero. Era nato a Barletta e d'importante nella vita aveva scritto il primo compendio in lingua italiana de Il Capitale, opera filosofica di Karl Marx.
Carbonella morì nel manicomio di Nocera Inferiore mentre uno scaltro e improvvisato imbianchino copriva con la vernice le sue scritte, eseguendo alla perfezione gli ordini autorevoli del direttore di quella gabbia. “Per fare pulizia” sosteneva, che evidentemente fa rima con pazzia.
Quel pomeriggio il sole tramontò, più lentamente del solito, su quella gabbia chiamata Pazzaria dalle persone del posto. Ai loro occhi, troppo spesso, appariva come un luogo di perdizione a causa delle intemperanze degli ospiti che, lì, erano stati stoccati e imprigionati in un tempo senza tempo.
Quel pomeriggio, ancora una volta, il sole si sforzò di allungare il suo raggio migliore su quell'enorme foglio impossibile da ripiegare, per illuminare l'ultima frase dell'uomo con le mani e la faccia nera.
Quella volta, però, Carbonella disegnò lettere acuminate che liberarono urla e ataviche voci senza volto, dissolvendosi nell'aria come vapore. Con una mano cercò di stendere il muro; con l'altra estrasse dalla tasca un pezzo di carbone, ne leccò la punta, lo conficcò nell'intonaco, come la lama di un coltello che con odio affonda in un ventre maledetto.
Quel pomeriggio, con una frase di senso compiuto, il sole se lo portò congedandolo dal mondo.
“La mia mente, il confine ultimo di un pensiero libero, il vostro mondo, una falsa comoda congettura”.

Antonello Murer
Nocera Inferiore (Sa)



Prosegue il dibattito su
Libertà senza Rivoluzione”

Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sui numeri successivi sono intervenuti Franco Melandri e Domenico Letizia (“A” 378, marzo), Luciano Lanza e Andrea Papi (“A” 379, aprile), Luigi Corvaglia e Alberto Ciampi (“A” 380, maggio), Marco Cossutta e Salvo Vaccaro (“A” 381, giugno) e ora Persio Tincani e Fabio Massimo Nicosia.
Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi.



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/9

Persio Tincani/Ok, il capitalismo ha vinto, ma...

La premessa è che Libertà senza Rivoluzione è un saggio poderoso, sia per il lavoro di ricerca storica che per il lavoro di ricerca teorica. In questo libro, che analizza le due principali dottrine politiche che hanno dominato la scena nell'ultimo secolo e mezzo – il comunismo e il capitalismo –, Berti sostiene che nello scontro tra le due il capitalismo (visto in parte come un sottoprodotto di successo del liberalismo classico) abbia vinto in modo netto e definitivo. Sconfitto il comunismo, il modello capitalistico ha dilagato senza concorrenti e ha potuto espandersi ancora di più, anche trasformandosi in modelli inediti, cambiando i paradigmi della produzione o addirittura prescindendone facendosi capitalismo finanziario in un continuo esperimento che, essendo di volta in volta il modello unico di fatto praticabile, non incontra ostacoli.
In tutto ciò, l'anarchismo ha perso il treno perché 1) non ha colto la portata e l'inappellabilità della vittoria del capitalismo; 2) è rimasto ancorato a un antagonista – il capitalismo classico – che non esiste più, cosicché la critica che presenta è priva tanto di bersaglio quanto di interlocutori: non c'è più il padrone della ferriera e non ci sono più gli operai della ferriera.
Uno dei più gravi difetti del progetto politico marxista, secondo Berti (e secondo me), è la fiducia nel determinismo storico in base al quale determinate condizioni produrrebbero per forza di cose determinate conseguenze, una tesi delusa ben presto dai fatti: anche se le condizioni sociali dell'Inghilterra ottocentesca erano “una ricetta per la rivoluzione” (Richard Sennett), la rivoluzione non scoppia lì ma in Russia, dove la prevalenza dell'economia preindustriale aveva fatto vaticinare a Marx che non sarebbe scoppiata tanto presto. Poco importa che il proletariato urbano inglese fosse consapevole delle condizioni di sfruttamento o fosse invece obnubilato dalla falsa coscienza, perché alla fine la rivoluzione non la fanno i proletari ma le avanguardie, dato che le “masse”, come sostiene Berti (e ha ragione), “non sono rivoluzionarie”.
Perché il capitalismo ha vinto? In sostanza, Berti risponde perché non poteva non vincere. Il capitalismo è intrinsecamente migliore del marxismo, incarnerebbe un modello di libertà individuale migliore, e chiunque, potendo scegliere, sceglierebbe di vivere in un regime capitalista e non in un regime comunista (“nessuno ha mai saltato il muro di Berlino da ovest a est”). Qui, a mio parere, ci sono i punti deboli della tesi di Nico. Il primo è che dopo aver respinto (correttamente) la traduzione marxista del determinismo scientifico in determinismo storico, Berti la utilizza per spiegare il successo del capitalismo, che ha vinto perché non avrebbe potuto non vincere. Berti argomenta diffusamente questo punto (ma anche Marx argomenta diffusamente la propria versione del determinismo) tuttavia si tratta di un'argomentazione che mi pare viziata da una impostazione teleologica della storia.
Inoltre, se il comunismo pare sconfitto, a vincere non è il capitalismo originario ma una sua versione molto modificata. Se i padroni delle ferriere non ci sono più non è perché hanno deciso di togliersi di mezzo, ma perché sono stati costretti a farlo dalle pressioni di grandi movimenti politici, in gran parte di ispirazione marxista, che sono riusciti a ottenere una regolamentazione del mercato del lavoro (che gli alfieri del capitalismo, come Hayek e Rothbard, hanno spesso giudicato in modo assai negativo) che ne ha ridimensionato il potere di fatto. Lo stesso stato non è più quel “guardiano notturno dell'economia” del modello capitalistico originario, ma è stato trasformato in un'istituzione che incorpora elementi di welfare estranei alla logica capitalista che sono l'esito di uno scontro sociale sul terreno del quale il socialismo ha vinto sul capitalismo.
Vista così, il modello capitalista della rivoluzione industriale ha perso quanto il comunismo dei soviet, perché né l'uno né l'altro esistono più. Anzi, a guardar bene, quel capitalismo è sparito ben prima del comunismo. Se questo capitalismo ha vinto, è prima di tutto perché è stato modificato rendendolo “meno capitalista” di prima.
L'altro punto debole, a mio parere, è la questione delle “opzioni”, che Nico presenta nei termini già accennati: se un tedesco della Ddr avesse potuto scegliere tra capitalismo e comunismo avrebbe scelto il capitalismo e sarebbe diventato un tedesco dell'ovest. Fin qui, niente di sbagliato, almeno secondo me. Tuttavia, da questa scelta di valore relativo, Nico deriva un giudizio di valore assoluto del modello capitalista, e questo passaggio non è lecito.
Semplificando un po': suppongo che, potendo scegliere tra essere picchiati o insultati, la maggior parte delle persone sceglierebbe gli insulti; ma ciò non significa che alla gente piaccia essere insultata, anzi, suppongo che alla maggior parte delle persone non piaccia affatto. In quel caso, si tratta dell'opzione migliore – “il meno peggio” o, in termini tecnici, “una preferenza adattiva” –, ma ciò non significa che sia anche qualcosa di buono di per sé. Fuori dalla semplificazione: è certo possibile che tra chi preferisce il capitalismo al comunismo vi sia chi ritiene anche che il capitalismo sia il modello migliore in assoluto, ma non lo possiamo desumere dal fatto che il capitalismo è stato preferito al comunismo se la scelta era tra queste sole alternative. Si potrebbe obiettare che la costruzione realistica di alternative ai modelli dominanti non è una cosa semplice, e secondo me sarebbe un'obiezione ben fondata. Tuttavia, un conto è dire che il capitalismo è la migliore delle opzioni possibili tra le due esistenti e che pensare di costruirne una terza (o una quarta) è un'ipotesi irrealistica, altro è saltare alla conclusione che il capitalismo è la migliore tra le opzioni possibili (e punto).
In questa sede non posso fare altro che proporre questi argomenti per una discussione.

Persio Tincani
Pavia



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/10

Fabio Massimo Nicosia/Stringere i rapporti tra anarchici e radicali

È difficile recensire un libro che si condivide, a parte qualche dettaglio, da cima a fondo.
Il testo di Giampietro Berti si divide in tre parti, più due appendici sul concetto di libertà.
Nella prima, si discutono i perché del fallimento storico del movimento comunista internazionale, nella seconda le ragioni che hanno condotto alla vittoria del capitalismo su scala globale, nella terza si passano in rassegna le varie posizioni che attualmente vengono ricondotte, a torto o a ragione, al pensiero anarchico contemporaneo. Il tutto accompagnato da una radicale critica a qualunque prospettiva rivoluzionaria.
Secondo Berti, le masse non sono rivoluzionarie, e quindi chi pretendesse di imbastire un processo rivoluzionario peccherebbe comunque di avanguardismo e, in ultima analisi, di autoritarismo, per quanto si autodefinisca “anarchico”. Già Lenin, in Stato e rivoluzione criticava gli anarchici per il loro definirsi “antiautoritari” e rivoluzionari al contempo, ignorando che non vi è nulla di più autoritario di una rivoluzione.
L'aver mantenuto e il mantenere oggi un legame con la prospettiva rivoluzionaria da un punto di vista anarchico non ha portato altro che a una marginalizzazione del movimento anarchico, sicché oggi questo movimento, come ripete Berti a più riprese, non rappresenta altro che se stesso.
Per Berti, l'anarchismo deve prendere atto della vittoria della liberaldemocrazia, non solo, della preferibilità della liberaldemocrazia rispetto a qualunque altro sistema politico, e fare i conti con essa. L'obiezione non è nuova. Già Benjamin Tucker sosteneva che, in un sistema che consente libertà di parola e di opinione, non ha senso una prospettiva rivoluzionaria, dovendosi viceversa inserire in quel sistema con la parola e la discussione.
Come scrivevo a mia volta nel mio Il dittatore libertario (Giappichelli, 2011), l'ipotesi rivoluzionaria, una volta scartato il “golpismo” di stampo leninista, “pecca di ingenuità, perché sembra considerare 'il potere' come qualcosa di esclusivamente fisico, che si possa sbriciolare aggredendolo direttamente, trascurando il suo carattere di costruzione della mente, di 'credenza costitutiva', per usare l'espressione di Friedrich von Hayek, che trova sì estrinsecazioni fisiche (l'apparato burocratico-militare e i suoi pretenziosi 'palazzi'), ma che non possono essere demolite, se non una volta che quelle credenze, fondamento del consenso nei confronti delle istituzioni del dominio e della ‘legittimità' di questo, siano state intaccate” (pag. 366).
Quindi, se scartiamo la rivoluzione, e immettiamo il movimento anarchico nel gioco del potere liberaldemocratico, quel che resta è l'ipotesi “riformista”, di un riformismo forte, però, al quale meglio si attaglia il termine, anche malatestiano, di “gradualismo”.
Si dirà però che, se le masse non sono rivoluzionarie, men che meno esse sono “anarchiche”, qualunque cosa ciò significhi, con la conseguenza che il consenso politico-elettorale di un movimento anarchico è destinato a rimanere modesto.
Manca infatti al movimento anarchico una cultura del “second best”, quello che Berti chiama male minore o meno peggio, ma che è qualcosa di più di questo. Gli anarchici cadono in una grave contraddizione logica allorché pongono le “leggi” tutte sullo stesso piano, in quanto espressione di un potere percepito come nemico. Ma le leggi non sono tutte uguali. Una legge che vieta un comportamento non equivale a una legge che lo consente, ed è “stupido” (termine molto utilizzato da Berti) opporsi alla legge permissiva come se fosse una legge interdittiva.
Il problema è che gli uomini si distinguono, tra le altre cose, in due tipi psicologici: quelli dotati di “inclinazione libertaria” (coloro i quali non vogliono né comandare, né essere comandati), e quelli dotati di “inclinazione autoritaria” (coloro i quali vorrebbero comandare, ovvero quelli che, non riuscendovi, si adattano a essere comandati).
Il nostro dramma è che l'inclinazione libertaria è di pochi, sicché si evidenzia all'orizzonte una prospettiva elitista e pessimista a un tempo.
Tuttavia, se pure le masse non sono libertarie, o non lo sono consapevolmente, esse possono dimostrarsi libertarie con riferimento a singole questioni, quando si toccano i loro interessi e diritti. Come è avvenuto nel referendum sul divorzio, quello sull'aborto, o persino su quello della depenalizzazione del consumo individuale di sostanze stupefacenti.
Ciò che accomuna queste iniziative è di costituire manifestazioni di “libertà negativa”, di antiproibizionismo, sicché paradossalmente gli anarchici potrebbero utilizzare gli strumenti della liberaldemocrazia, per aggredire dialetticamente l'elemento “democratico” (cioè quello del potere della maggioranza), in favore dell'elemento “liberale”, cioè quello della conquista di crescenti spazi di autonomia per il singolo, sicché la democrazia sarebbe solo l'ambiente, da erodere progressivamente, nel quale affermare elementi di liberalismo radicale.
Parlando fuori dai denti, va detto che questo spazio politico è già occupato dall'area radicale, per quanto si possa criticare la sua classe dirigente e la sua cultura. Il radicalismo, del resto, in termini analitici, può essere definito come la linea immaginaria che conduce dal liberalismo all'anarchia.
Io vedo nel rapporto tra anarchici e radicali la possibilità non solo di una convivenza, ma di uno scambio. L'anarchismo ha infatti un bagaglio storico-culturale assai vasto, che può rinvigorire una cultura radicale tutta sdraiata sul solo concetto di “Stato di diritto”, mentre i radicali possono fornire al movimento anarchico le battaglie di “second best”, di cui l'anarchico valuterà, alla luce del malatestiano lume regolatore, la congruità, ossia la compatibilità con il progetto utopico, che non va comunque abbandonato almeno a livello di immaginario, pure fondamentale in una forza politica che voglia mutare lo stato presente delle cose (quello dei first best).

Fabio Massimo Nicosia
Milano


Transgender/Meglio se aggettivo, e comunque un (non una)

Salve,
in riferimento al dossier “Leggere l'anarchismo.3”, pubblicato dentro il numero 379 (aprile 2013), in cui a pag. 34 citate brevemente il mio libro La società de/generata. Teoria e pratica anarcoqueer, ci tengo a specificare alcune cose, oltre che a ringraziarvi per l'apprezzamento rispetto ai contenuti:
– Alex non è uno pseudonimo dietro cui si nasconde nessuno, è il mio nome, e B. è l'iniziale del cognome, che ho preferito non pubblicare semplicemente perchè non sono in buoni rapporti con mio padre da cui purtroppo deriva quel cognome. Non ho proprio niente da nascondere, ci tengo alla visibilità di persona trans e nel movimento anarchico tutti sanno che sono transessuale.
– non sono una transgender, semmai un transgender, anche se preferirei che transgender venisse usato come aggettivo anzichè come sostantivo, visto che sono prima di tutto una persona. Mi dispiace che non abbiate letto il libro abbastanza attentamente, in particolar modo c'è un capitolo sulle persone trans che spiega perchè è discriminante ricondurre le persone trans al loro sesso di nascita anziché utilizzare pronomi e aggettivi del genere di arrivo, rappresentativi della loro identità di genere e anche dell'aspetto fisico dopo l'assunzione di ormoni. Visto quindi che sono un ragazzo trans, al massimo si può dire che sono un transgender (o ancora meglio, una persona transgender). Spero possiate fare tesoro di queste osservazioni.
Saluti

Alex B.
fuckgender@riseup.net


Ricordando don Gallo/1. Il nostro angelo anarchico

Ero pronto da giorni a ricevere la tremenda notizia. Eppure quando Fabio della Comunità di San Benedetto al Porto, uno dei miei amici più cari, mi ha scritto che il Gallo se n'era andato, non riuscivo a crederci. Sono rimasto senza parole, confuso, incapace di avere una qualsiasi reazione. Poi piano piano sono affiorati i ricordi, tantissimi, degli incontri con il don, dei suoi insegnamenti, della sua straordinaria umanità; e con i ricordi, un'infinita tristezza per questa perdita devastante.
Don Andrea Gallo, il nostro angelo anarchico, ha sempre lottato dalla parte giusta, che è quella degli sconfitti, dei respinti, dei disperati, di chi è stato relegato ai margini dalle spietate liberaldemocrazie nelle quali ci tocca (soprav)vivere. Le sue parole, le sue storie, i suoi racconti di vita vissuta sapevano tratteggiare con un'immediatezza senza pari un mondo di miserie e di splendori, di solitudine e di amore. Coinvolgevano tutti. Non escludevano mai nessuno. E sapevano dare forza e speranza. “Bisogna sempre osare la speranza”, ripeteva spesso, e non smettere mai di sperare l'impossibile. Inseguire l'utopia. Citando Edoardo Galeano, il Gallo diceva: “L'utopia sta all'orizzonte, mi avvicino di due passi, lei si allontana dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungo mai. Quindi, a che serve l'utopia? Serve a questo: a camminare”. Tantissime persone sono ancora in cammino, non si rassegnano e attraversano il nostro tempo adoperandosi, nonostante tutto, per costruire un altro mondo possibile. Un mondo più libero e più solidale, senza servi né signori, senza violenza né coercizione. Un'utopia? Forse. Ma contro un sistema che sacrifica migliaia di persone ogni giorno e prospera grazie a umilianti disuguaglianze è assolutamente necessario fare qualcosa. “So di non essere onnipotente”, scriveva don Gallo, e tutti noi sappiamo di non esserlo; però egli subito aggiungeva: “Ma non voglio concedermi la scusa dell'impotenza”. Non ci si deve rassegnare al pensiero che non si possa cambiare nulla; occorre invece moltiplicare gli sforzi per dare sempre più spazio a un'idea di solidarietà liberatrice in grado di coniugare le libertà, i bisogni e i diritti di tutti, e vincere ipocrisia ed egoismi. In che modo possiamo riuscirci? In realtà, non ci sono scorciatoie o modelli precostituiti. Si trova la via soltanto ricercandola con gli altri. Ed è proprio ciò che ha sempre fatto don Gallo, con la sua infaticabile disponibilità a incontrare tutti e la sua capacità di coinvolgere le persone nel suo percorso di condivisione, di emancipazione e di lotta all'indifferenza, che per Andrea era “la summa massima di tutti i peccati”.
Lo avevamo chiamato spesso in Alessandria anche per ricordare insieme Fabrizio De André, la sua buona novella libertaria, radicale, umanissima. Determinati a viaggiare nel mondo sempre in direzione ostinata e contraria. E ora abbiamo bisogno che Andrea, con Faber, continui a guidare il nostro cammino. Abbiamo bisogno di stringerci intorno alla sua Comunità, ai suoi ragazzi, per piangere con loro, ma anche per costruire un futuro, per proseguire il cammino. Insieme. Senza mai dimenticare quello che ci ripeteva il don: “Chi sceglie un'ideologia può anche sbagliare; chi sceglie i poveracci, i senza voce, i fragili, non sbaglia mai”.

Giorgio Barberis
Alessandria


Ricordando don Gallo/2. Mai avuto tanta simpatia per i preti

È da poco calata la sera dentro la mia cella e il blindato è già chiuso, ho appena saputo dalla televisione della tua morte. E le ombre dentro questo buco si sono fatte più fitte.
Ciao don Gallo, oggi sono un uomo ombra ancora più triste, la tua partenza lascia un altro vuoto nella mia vita e nel mio cuore.
Non ti ho mai conosciuto di persona e non ho mai avuto tanta simpatia per i  preti dopo tutte le botte che ho preso da loro in collegio da piccolo, ma tu eri uno di quelli che da grande mi hanno fatto venire dei dubbi.
Tu, don Gallo, prete di strada, prete degli ultimi, non avevi esitato a metterti dalla parte dei cattivi e colpevoli per sempre, degli ergastolani ostativi.
Quando ti ho chiesto di aiutarmi a far conoscere che in Italia esiste la “Pena di Morte Viva”, l'ergastolo ostativo ad ogni beneficio, che fa morire in carcere un uomo senza la compassione di ucciderlo prima, tu sei stato davvero uno dei primi che ha aderito e il tuo nome è in prima pagina nella lista dei primi firmatari dell'iniziativa “Firma contro l'ergastolo” .
Ciao don Gallo, grazie per tutte le volte che hai fatto sentire la tua voce per noi, che ci hai prestato un po' della tua luce per dire alla società civile che il male non potrà mai essere sconfitto con altro male, che non serve a nessuno la sofferenza di un uomo destinato a morire dentro una cella che è già la sua tomba.
Ciao don Gallo, ti avevo scritto nella settimana prima di Pasqua per dirti che nella mia disperazione non volevo festeggiare la resurrezione, perché io sono un'ombra che cammina, né vivo né morto, e per me e per tutti i miei compagni ergastolani non c'è resurrezione e speranza da festeggiare. Tu non mi hai attaccato e criticato, come hanno fatto in molti, ma mi hai scritto queste semplici e sostanziali parole:
“Carissimo do la mia completa solidarietà alla vs. lotta.
Sempre 'su la testa' nonostante tutto. Ciao, don Gallo”
Ho ancora queste parole attaccate nella mia cella e nel mio cuore.
Ciao don Gallo, ci mancherai. Ora dovremo fare anche senza di te e la lotta qui si fa sempre più dura: adesso ci chiedono anche di dividere la nostra tomba con altri cadaveri, non ci lasciano neanche più la nostra solitudine nella cella, come vorrebbe la legge.
Ciao don Gallo, tu vai, io rimango qui a lottare con degli umani che mi puniscono perché da giovane ho infranto la legge e dopo 23 anni di carcere devo ancora subire le loro scelte che vanno contro la legge.
Ciao don Gallo, tu ora che sei libero nell'universo, non dimenticarti di noi che ancora viviamo murati vivi tra ferro e cemento per tutti i nostri giorni.
E se incontri il Dio in cui hai creduto, digli per favore se viene a prendere anche noi: gli uomini non ci vogliono dare la libertà, anche se dopo tutti questi anni noi non abbiamo più niente a che fare con l'uomo di 20-30 anni fa che ha commesso i reati per i quali siamo qui.
Ciao don Gallo, sempre “su la testa” e un sorriso mesto tra le sbarre, nonostante tutto.

Carmelo Musumeci
Carcere di Padova
carmelomusumeci.com


Ricordando don Gallo/3. L'addio di Anarchicco



Ricordando don Gallo/4. “Ci vuol tanto troppo coraggio”

È sabato 25 maggio... una giornata di quelle che in questa stagione se ne dovrebbero vedere poche.
La pioggia incessante frusta sui vetri del treno, la stazione di Genova Porta Principe è avvolta nel grigiore, un vento troppo freddo morde la faccia ed evitare le pozzanghere è praticamente impossibile. Sono le 9:30 e davanti alla comunità di San Benedetto al Porto, “sanbe” per gli amici, c'è già tantissima gente: avvicinarsi alla cassa di don Andrea è impresa ardua.
La gente si accalca davanti all'ingresso, qualcuno chiede permesso e tenta di farsi largo per raggiungere l'entrata della piccola chiesa. Il feretro deve muoversi verso la chiesa del Carmine: bisogna far spazio altrimenti il don da lì non si sposta.
Dalla testa del corteo funebre sentiamo intonare Bella ciao; è un attimo e tutti cantiamo all'unisono.
Nel risalire il corteo si incontrano le realtà più diverse: ci sono i compagni del movimento No Tav, i No DalMolin, i ragazzi di Libera, quelli della Fossa dei Grifoni del Genoa, gli operai della Fiom, i camalli di Genova; ci sono le bandiere delle sezioni dell'Anpi di praticamente tutta Italia listate a lutto; ci sono le bandiere rosse, quelle rosse e nere della Fdca e ogni tanto si intravede qualche faccia conosciuta dei ragazzi dei centri sociali, non solo di Genova.
Poi ci sono loro: “i suoi ragazzi”: quelli della comunità di San Benedetto, che da anni accoglie persone in situazione di disagio, con particolare attenzione al mondo della tossicodipendenza e del disagio psichico. Sfilano con una maglietta rossa con sopra la scritta: “dimmi chi escludi e ti dirò chi sei”, frase che spesso recitava Andrea. Per tutto il tragitto fino alla chiesa del Carmine si intona Bella ciao.
Tanti i sacerdoti che hanno voluto concelebrare: da don Vitaliano della Sala, il prete “No global”, salito alle cronache durante il G8 di Genova, a don Santoro, che in passato pagò per le sue aperture nei confronti di omosessuali e transgender. Dagli altoparlanti sistemati fuori dalla chiesa sentiamo parole in ricordo del don.
Vladimir Luxuria che dal pulpito ha ringraziato don Gallo: “Grazie per averci aperto le porte della tua chiesa, grazie per averci aperto le porte del tuo cuore, grazie di averci dimostrato che una chiesa comprensiva, inclusiva, che non caccia via nessuno è possibile, grazie di averci accarezzato, grazie di averci stretto la mano, grazie di averci fatto sentire tutte, noi creature transgender figlie di Dio, volute da Dio... ci auguriamo che tanti seguano il tuo esempio e ci auguriamo tanto che qualcuno ti chieda scusa don Gallo!”.
Poi tocca al fondatore di Libera, don Luigi Ciotti: “Vorrei dire che Andrea è un sacerdote che ha dato un nome a chi non lo aveva o se lo era visto negare da qualcuno. Dare un nome con tenacia e quotidiano impegno e riconoscere la dignità la libertà della persona, una libertà sui cui bisogna sempre continuare a scommettere e alla quale non bisogna mai stancarsi: dare opportunità a tutte le persone”.
Continua parlando dell'atteggiamento della chiesa: “Lui dice dentro tutti: dentro i gay, dentro le lesbiche, dentro gli altri, dentro i divorziati”. Infine ricorda il G8 di Genova, la morte di Carlo Giuliani e la “sana rabbia” davanti alla base Usa DalMolin a Vicenza: “Abbiamo parlato tante volte e condiviso quel desiderio di verità: il G8, la morte di Carlo Giuliani, don Andrea ha pianto per lui. Così come si è indignato davanti alla base americana di Vicenza: ma cosa ce ne facciamo di quelle cose lì? Che senso hanno le grandi opere quando non ci sono soldi per i servizi sociali?”.
Poi un ultimo semplice saluto: “Ciao Andrea”.
La bara esce dal Carmine per raggiungere Campo Ligure. La piazza esplode nel suo ultimo saluto, non riusciamo a trattenerci: “Una mattina mi son svegliato, oh bella ciao, bella ciao...”, i pugni si stringono e si alzano verso il cielo.
Grazie Andrea, perché non hai avuto paura delle gerarchie, perché hai insegnato che la diversità è una ricchezza, perché sei sempre stato in mezzo al popolo, nelle manifestazioni, con i compagni dei centri sociali, perché hai gridato a testa alta contro le ingiustizie del potere, perché non hai avuto paura dei benpensanti, perché sei un esempio di militanza non solo politica, ma anche civile.
La tua Genova piange, piangono i carruggi, che di notte diventano il limbo, dove l'umanità degli ultimi esce allo scoperto dell'oscurità, dove tu hai saputo camminare tendendo la mano. Perché il tuo esempio viva per sempre, perché le nuove generazioni che non ti hanno conosciuto possano sentir parlare di te, conoscere la tua forza, il tuo coraggio... perché a “crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio”.

Camilla Galbiati
Robecco sul Naviglio (Mi)


Ricordando don Gallo/5. Aspetti apparentemente contraddittori

Ricorda, Signore,
questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
Fabrizio De André

Si è spento fra i suoi ragazzi, nella comunità che aveva fondato quando parlare di droga era ancora un tabù. Lì sono stati accolti tossicodipendenti, prostitute salvate dai loro sfruttatori, immigrati senza un tetto, emarginati, persone comunque bisognose di aiuto. Don Andrea non aveva mai paura, chi sta dalla parte degli ultimi, diceva, non sbaglia mai. Frequentava gli anarchici e i centri sociali, citava Gramsci, Savonarola e don Milani, era amico di Fabrizio De André e di Dario Fo, era contro ogni forma di sfruttamento; ma era, soprattutto, profondamente e autenticamente prete, anzi, come amava dire lui, prete da marciapiede.
Tutti questi aspetti apparentemente contraddittori si fondevano in un perfetto equilibrio nella sua straordinaria personalità. I veri credenti hanno visto in lui una autentica adesione nella parola del Vangelo; i non credenti avranno apprezzato la coerenza di un uomo che ha sempre vissuto in conformità con i suoi valori. A non gradirlo erano soprattutto gli ipocriti, i prevaricatori, i sostenitori delle ingiustizie. Di fronte al loro astio si è limitato a scuotere la polvere dai suoi calzari.
Nel suo libro Angelicamente anarchico ha scritto “Di me, se possibile, preferirei non lasciare alcun ricordo”. Ma lui era uno che sapeva apprezzare la difficile virtù della disobbedienza. Disubbidiamogli, dunque, e portiamo nei nostri cuori la memoria della sua testimonianza.
Saluti fraterni

Enrico Torriano
Bologna




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Medardo Accomando (Manocalzati – Av) 30,00; Serena Zanzu (Capoterra – Ca) 10,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 10,00; Antonio Pedone (Ponte Felicino – Pg) 5,00; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa – Fi) 20,00; Piero Torelli (Sermoneta – Lt) 10,00; Marco Morelli (Pomezia – Rm) 10,00; Daniele Caravaggio (San Vito Chietino – Ch) 10,00; Giancarlo Zilio (Selvazzano – Vi) 15,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Davide Andrusiani (Castelverde – Cr) 10,00; Andrea Cassol (Cesio Maggiore – Bl) 30,00; Antonio Cecchi (Pisa) 15,00; Libreria San Benedetto (Genova) 21,90; Giovanna Ciorciolini (Roma) 50,00; Roberto Nanetti (Settimo Torinese – To) 10,00; Claudio Rampazzo (Lumellogno – No) 10,00; Laura Gargiulo (Sassari) 30,00; Bastiano Sias (Barrali – Ca) presso la Comunità anarchica di solidarietà, ricordando Tommaso Serra, 50,00; Carlo Capuano (Roma) 50,00; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa – Tv) 70,00; Raimondo Aleddu Salaris (San Vero Milis – Or) 10,00; Antonio Cardella (Palermo) 40,00; Adriano Paolella e Linda Carloni (Roma) 500,00; Pietro Steffenoni (Lodi) 20,00. Totale € 1.536,90.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Paolo Trezzi (Lecco); Filippo Trasatti (Cesate – Mi); Davide Radice (Monticello Brianza – Lc) 200,00; Marco Tullio Valiante (Utikon-Waldegg – Svizzera) 300,00; Ragnaar Brasta Myklebust (Oslo – Norvegia); Marco Cagnotti (Gordola – Svizzera) 500,00; Eros Bonfiglioli (Bologna); Renato Girometta (Vicobarone – Pc) “ricordando Aldo Rossi e Anna Pietroni”; Valeria Nonni (Ravenna); Pietro Steffenoni (Lodi). Totale € 1.700,00.

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