rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013


società

Il frantumarsi della coesione sociale

di Antonio Cardella


In pochi decenni, si è completamente disintegrato il modello urbano che delimitava e si riconosceva in un territorio ben definito.
Si deve partire da qui per comprendere i danni devastanti del modello dominante e le difficili vie da percorrere per opporvisi in pratica, anche nella vita quotidiana.


Le bombe esplose il 15 aprile scorso al traguardo della maratona di Boston, a prescindere dalla matrice che le ha innescate, segnano di rosso sangue il percorso di una transizione che proietta il mondo che conosciamo verso un avvenire difficile da decifrare con le consuete categorie sin qui utilizzate per capire quanto di futuro vi sia nel presente che viviamo.
Che vi sia una logica negli eventi che quotidianamente registriamo non può essere messo in dubbio: la storia ha sempre individuato le connessioni tra ciò che capita nel nostro quotidiano e quanto di nuovo e di diverso si attualizza, passo dopo passo, nel disegno di lungo periodo. Sarebbe, quindi, esercizio stolto il provare a individuare cosa ci aspetta dietro l'angolo: è possibile, però, cogliere alcuni segnali che non ci facciano perdere del tutto la bussola di ciò che dia senso al nostro essere al mondo, qui e adesso.
È inutile girarci attorno: viviamo in un'epoca che non riesce ad attribuire ancora un senso alla sintassi di un discorso che reiteriamo dai tempi delle democrazie, compiute o meno, dei conflitti egemonici, dei protagonismi politici. È tramontata definitivamente l'idea di un allargamento dell'area di un Occidente immaginato pacificato e benestante, veicolo di istanze di giustizia e libertà; delle colonie, intese come presidi territoriali, nessuno vuol più parlarne, tanto evidenti e incommensurabili sono i costi dei presidi da attuare fuori dai confini nazionali. Anche le politiche che mirino a ridisegnare assetti geopolitici a favore di questa o quella potenza tradizionale o emergente, mostrano un respiro molto corto perché, quando non sfociano in vere e proprie guerre combattute (e perse disastrosamente dai protagonisti attivi: Vietnam, Afganistan, Iraq e via dicendo) si dimostrano paralizzanti per l'incrociarsi delle possibili ritorsioni. Infine, per venire al discorso sul protagonismo politico, la figura di un Obama è drasticamente ridimensionata rispetto alle nuove difficoltà che la perdita di influenza degli Stati Uniti sul piano planetario comporta, per non parlare delle crisi che investono i poteri personali di quasi tutti i regimi, dittatoriali o meno, che costellano il mondo.
Se dovessimo limitare il nostro discorso alla disamina della situazione attuale, potrebbe apparire come segno di un destino avverso ciò che grava sulle spalle di un'umanità disorientata e sofferente.
Invece, se ci si distrae dal peso spesso insopportabile del quotidiano, un quotidiano che non è di questa o quell'area geopolitica particolare, ma che investe in misura e con modalità diverse tutte le realtà aggregate del pianeta, ci si accorge che all'origine del crescente e diffuso disagio di vivere, c'è il collasso di un'intera visione del mondo che ha privilegiato modelli di sviluppo alla lunga insostenibili.

Per un solido legame con il territorio

Ormai appare sempre più chiaro che l'evoluzione del modello capitalistico (che purtroppo contamina plaghe molto più estese di quelle che lo hanno concepito e attuato) ha provocato disastri naturali e sociali incommensurabili. La crescita esponenziale di dinamiche finanziarie con traiettorie distinte e opposte rispetto alle economie reali, ha travolto il senso di un'umanità equa e solidale, che sia artefice di una produzione e distribuzione delle risorse in base alle esigenze reali delle popolazioni e attenta alla riproducibilità di tali risorse con la tutela dell'ambiente e il corretto impiego del lavoro umano.
In pochi decenni, si è completamente disintegrato il modello urbano che delimitava e si riconosceva in un territorio ben definito, sul quale, e nel rispetto di definite peculiarità, si disegnavano i centri abitativi e gli spazi di vita collettiva.
Stiamo attenti: non sto idealizzando le virtù delle piccole comunità a cultura prevalentemente contadina che la modernità ha quasi completamente sepolto. Anche nelle pieghe di quelle esistenze si annidavano le ingiustizie, le molte facce del razzismo e la repressione violenta del dissenso. Dico solo che il solido legame con un territorio ritenuto patrimonio comune consolidava rapporti umani e, in una certa misura, riduceva a dimensione umana anche l'esercizio del potere, costretto a confrontarsi giorno dopo giorno con una collettività che lo apostrofava con nome e cognome, un potere che non poteva scagliare la pietra e nascondere la mano.
Del resto, ancora oggi, in un paese come il nostro, segnato da catene montuose interminabili che lo solcano interamente in latitudine e longitudine, il frazionamento della popolazione in una moltitudine di piccoli (spesso piccolissimi) e medi centri abitati, è una realtà obiettiva, che emerge in tutta evidenza, purtroppo, in occasioni di catastrofi che, molto impropriamente, chiamiamo naturali: in alcuni dei grandi terremoti che nel corso del secolo scorso e in questo appena iniziato hanno devastato la penisola (il Belice, l'Irpinia, il Friuli, l'Abruzzo e l'Emilia-Romagna, per citare solo i principali), si sono materializzate comunità vitalissime e coese, pronte a rimboccarsi le maniche per ripristinare la funzionalità di un territorio, assunto come patria, senza attendere l'intervento del potere centrale, quasi sempre assente e comunque sempre intempestivo.

Sentieri impervi e sconosciuti

La filosofia che prevale largamente nel nuovo concetto di abitare è all'opposto di quella di cui abbiamo appena parlato. Tutti i grandi centri urbani tendono a trasformarsi in megalopoli, con enormi periferie-ghetto (quando non addirittura bidonville) destinate a ricevere flussi di urbanizzati per disperazione: un'umanità strappata ai territori di appartenenza ormai desertificati dalla miseria e dalle leggi di un mercato che, con lo sfruttamento spesso disumano del lavoro, monopolizza la produzione e la distribuzione delle risorse, in specie di quelle destinate alla sopravvivenza delle popolazioni più povere. Si fugge così dalle campagne e si confluisce nei centri urbani più vicini, alla ricerca di una sempre più improbabile occupazione o di qualunque altra occasione per sbarcare un lunario per precario che sia.
Così le maggiori città del pianeta, che annoverano spesso decine di milioni di abitanti, si sono trasformate in enormi buchi neri che ingoiano quotidianamente flussi di un'umanità nomade alla ricerca disperata di consumo. Buchi neri che, al contrario di quelli in agguato nell'universo, restituiscono puntualmente, al calar del sole, la stessa quota di disperati ingeriti al mattino. Il risultato è una realtà urbana attraversata e devastata da scorrerie incontrollabili e da assetti sociali liquidi che sempre meno rispondono ai richiami di una qualsiasi autorità che tenti di imporre leggi e regolamenti.
Sono profondamente convinto che questo espianto violento dell'uomo dal proprio territorio, questo costante sottrargli gli spazi fisici nei quali si configura e si sostanzia il corretto concetto dell'abitare, sia all'origine della più devastante forma di alienazione della vita contemporanea. Necessitati a trovare altrove la possibilità della propria sopravvivenza, i profughi o gli esodati imboccano e percorrono, in solitudine e frustrati, sentieri impervi e sconosciuti, avviati a mete ignote e, in ogni caso, ostili.

Ripartire dalla periferia (dell'Impero)

È il frantumarsi della coesione sociale. Separare l'uomo dal suo contesto abituale significa non solo destinarlo a un solipsismo annichilente, ma significa anche demolire quell'impianto di norme etiche e di civile convivenza che lo hanno reso socialmente rilevante. Se mi consentite un paragone musicale (la musica e il pensiero libertario sono stati e sono le passioni prevalenti della mia vita), se mi consentite – dicevo – il paragone, è come se in un madrigale polifonico di Gesualdo da Venosa si estrapolasse la partitura del soprano e si costringesse l'esecutrice a proseguire da sola, senza l'apporto degli altri musicisti. Immediatamente la poveretta si smarrirebbe, e con il suo smarrirsi, perderebbero di senso le modalità, il cromatismo, il contrappunto, i silenzi e le dissonanze che costituiscono il corpo stesso della composizione. Crollerebbe, insomma, l'intero edificio. Non solo, ma si finirebbe col perdere anche la dimensione storica della transizione che, nello specifico del paragone, Gesualdo segna dalla musica rinascimentale alla barocca.
Questo dissolversi della dimensione sociale, questo progressivo regredire dell'uomo verso un egoismo individuale che contribuisce ad accentuare la sua solitudine, questo ridursi degli spazi collettivi, ha finito col modificare la tipologia operativa dei poteri che contano. Sul territorio, quello fisico, il mondo reale dove gli uomini esprimono impotenti il loro disagio di vivere, non è più necessario (fatta eccezione per i presidi militari) un controllo diretto da parte del potere centrale (il modello esemplare è quello dell'assetto comunitario europeo). Sono cadute le resistenze; le opposizioni organizzate (il mondo operaio, i sindacati, i movimenti, la base dei partiti di massa) si sono ridotte a combattere lotte estenuanti contro mulini a vento: i falsi scopi che i poteri erigono perché la rabbia popolare si sfoghi senza provocare danni significativi. In caduta libera sono i tradizionali partiti della sinistra (Hollande è all'11 per cento del gradimento popolare; più o meno al 9 per cento sono i socialdemocratici nord europei, per non parlare di Spagna e Grecia).
Così, sollevati dall'onere di dover presidiare le nuove colonie (a questo si sono ridotte la nazioni europee, nessuna esclusa), i poteri veri, quelli che controllano tutti gli snodi dell'economia e della politica, arretrano e si concentrano: i nuovi santuari sono Bruxelles, Amsterdam, Francoforte, attorno ai quali, con pesi diversi e poco più che nominali, ruotano Berlino, Parigi, Roma e, in qualche misura, Londra. Gli stati nazionali, quelli che eravamo abituati a riconoscere sino a qualche decina di anni fa, sono stati progressivamente privati delle loro principali prerogative e sostanzialmente ridotti a garantire la quiete e l'ordine perché le decisioni del Centro si applichino senza traumi.
In poche parole, il Potere si arrocca sempre di più moltiplicando le sue energie e si allargano a dismisura le plaghe soggette al suo dominio.
Se le cose stanno così – e io credo che le cose stiano così – occorre riverificare e correggere la filosofia di approccio e le procedure operative che noi anarchici abbiamo sin qui privilegiate. Se continuiamo a credere di poter aggredire il sistema di potere sul suo stesso terreno (quello degli assetti consolidati: le strutture sopranazionali, i centri normativi, le borse, le banche centrali e via dicendo), potremmo nella migliore delle ipotesi aggredirlo sul piano teorico, che è certamente esercizio utile e meritorio, ma non riusciremmo mai a ricostituire la forza che necessita perché in un futuro prossimo si possano aprire spiragli di speranza.
Quello che voglio dire è che dobbiamo ripartire dalla periferia dell'Impero, convincendo il nostro prossimo, a partire da quello che ci è fisicamente vicino, che il nostro destino non è abbaiare alla luna, ma ritrovare la capacità di ricostruire passo dopo passo una comunità di donne e di uomini che condividano con noi le istanze di libertà e giustizia e siano disposti a iniziare, con noi, il percorso per realizzarle.

Antonio Cardella