rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013



Cento anni di canzoni – 4
Milly

a cura di Alessio Lega


E se vi guardo, bionda sconosciuta,
e voi passando un poco mi guardate
il cuor vi chiama e voi restate muta
e della voce sua non vi curate

Chi siete? Io non lo so
Ma so che gli occhi ardenti
hanno la forza di rubarmi il cuor...

“Se lei non conosce me, io conosco lei... Pure... Io la conosco, signorina, la conosco, ripeto, ma così, di sfuggita, l'ho seguita, l'ho osservata a lungo, talvolta, ma senza mai osare avvicinarla. Conosco le sue linee esteriori, qualche istante della sua vita e soprattutto quel po' di anima che da un viso si può rivelare a un osservatore attento. Ma è poco, signorina, al confronto dell'immensità di ciò che vorrei conoscere in lei... Lei ama la sua arte. Lo si vede in tutti i suoi gesti. Non può avere quindi che un'anima finissima e profonda. Anch'io mi affatico disperatamente in un'arte con questa stessa penna. Non le sono quindi così estraneo. Posso capire molte cose di Lei che nessuno vede. Lei, una sera di febbraio, leggeva sul tram, verso casa, Mimì Bluette. Se ha letto quel libro, e se Lei è davvero come io l'ho immaginata, deve sentire tutta l'umile immensità di ciò che le offro.”
Milly
foto di Riccardo Schwamenthal

Il timido stalker che scrive nel 1927 queste lettere a una soubrette del varietà di Torino, risponde al nome di Cesare Pavese. La soubrette non ne sa nulla. Le lettere vengono intercettate e distrutte da sua madre, prima che possa leggerle. Le scoprirà, molti anni dopo la morte dell'autore, quando verrà pubblicato l'epistolario dello scrittore suicidatosi nel 1950. In quegli anni Milly che non è più una soubrette, ma la più grande signora della nostra canzone, canta un testo di Mauro Pogliotti che è proprio un collages di poesie di Pavese.

Un paese vuol dire non essere soli,
avere gli amici, del vino, un caffè.
Io sono della città; riconosco le strade
dalle buche rimaste, dalle case sparite,
dalle cose sepolte che appartengono a me.

Al di là delle gialle colline c'è il mare (...)

Il percorso di Milly è un percorso affascinante e tenace, in cui possiamo rintracciare il senso del filo che annodo di capitolo in capitolo in questa ricerca. Le radici della canzone d'autore, dalle sue origini al grande sviluppo degli anni '60 e '70. Proprio gli anni nei quali Milly ebbe la sua terza carriera, quella che ce l'ha consegnata come l'interprete fondamentale che armonizzava molte scuole e tendenze: il bal-tabarin degli anni '20, l'operetta, la rivista, la canzone a teatro, la canzone popolare, quella poetico-letteraria, quella di protesta... un'interprete che aveva attraversato tutte queste epoche d'oro, tornando a risplendere di luce propria a ogni torno di decennio.
La signora è piccina, minutissima, piccola di statura, vestita di scuro. La pelle trasparente, un po' tirata sotto la sempiterna parrucca, non ignora i solchi dell'età “per quello che devo fare in teatro, le mie rughe vanno benissimo!”, ma nel complesso appare come un essere senza tempo, uno spirito un po' ironico, un po' drammatico, un po' molesto. Il timbro scavato, profondo arriva in maniera naturale, nelle sale piccole e dov'è possibile rifiuta l'amplificazione “l'uso del microfono appiattisce la mia voce”. Le parole sorrette da una dizione chiarissima e da un'intonazione naturale, si materializzano dentro lo spettatore, più come immagini che come suoni. L'atteggiamento della vecchiaccia – come la chiamava quel teddy boy di Ivan della Mea, ancora ridacchiando a 40 anni di distanza – è fra il beffardo e il tragico: una sintesi perfetta dello straniamento brechtiano... d'altronde a Brecht (per tramite di Strehler) Milly doveva la propria rinascita.
“Certe volte a forza di sentire che la civiltà occidentale è in gioco, da salvare, sacra, viene voglia di mandarla al diavolo (...) non si sa bene cosa sia questa civiltà nel cui nome tutti sentenziano, approfittano. (...) Poi una sera si va ad ascoltare la cantante Milly che ignora tutto dei sacri valori (...) e magari proprio così si capisce per quale somma di civiltà siano filtrati i gesti, il gusto, la misura di questa squisita cantante. La civiltà di Milly: piccola com'è, spiega la grande civiltà meglio di tanti discorsi complicati” (Giorgio Bocca).
Chi l'ha conosciuta bene – il suo regista/feticcio Pippo Crivelli, che gli ha cucito addosso parecchi recital e che oggi ne cura la memoria discografica, il pianista Roberto Negri, col quale ebbi la fortuna di parlarne a lungo prima dell'improvvisa scomparsa di quest'ultimo, Paolo Ciarchi, che in una delle sue molte vite l'ha accompagnata alla chitarra nei leggendari concerti al Teatro Gerolamo dei primi anni '60 – la ricorda come un monumento al professionismo, una perfezionista che studiava ogni gesto, ogni sguardo, ogni intonazione fino alla nausea. Una donna dura anche, solitaria, che non si è mai voluta legare a un affetto, gelosa della propria indipendenza e dedita solo al lavoro in scena.
Milly durante un'esibizione.
Il chitarrista è un giovanissimo Paolo Ciarchi
foto di Riccardo Schwamenthal

Le ferite dell'infanzia sono profonde, nutrono il desiderio di rivalsa per tutta una vita “la mia ribellione me la porto dentro da quando un uomo piantò la moglie e tre figli in miseria. Era mio padre. Io avevo cinque anni. Mi misero in collegio, ne venni fuori con il complesso di non essere voluta, di non essere amata, una paura che dimentico solo con gli applausi del pubblico”. Carla Mignone – Milly – nasce ad Alessandria nel 1905 da famiglia molto povera. Il padre parte per il sud America in cerca di fortuna. Farà perdere le sue tracce, si formerà una nuova famiglia. I quattro ad Alessandria rimangono nella merda, la madre coglie ogni occasione per sbarcare il lunario, lavorando anche per il Varietà, i figli piccoli sono accolti dalle suore di Acqui Terme. Si riuniscono poi tutti a Torino nel 1920, sono anni durissimi, di fame. Così prende forma la tempra della più grande interprete italiana di Jenny dei Pirati.

Oh signori voi mi vedete
sciacquare le bottiglie e rifare i letti
e mi date tre spiccioli di mancia
e guardate i miei stracci
e questo albergo stracciato come me,
ma ignorate chi son io davvero. (...)

M'hanno detto «asciuga i bicchieri, ragazza»
e m'han dato di mancia un cent,
ed ho preso il soldino e ho rifatto un letto
in cui nessuno stanotte tranquillo dormirà
e chi sono nessuno ancora sa (...).
E più tardi cento uomini armati
verranno nell'ombra e tenderanno agguati,
poi faranno prigionieri tutti quanti
li porteranno legati davanti a me
mi diranno «chi dobbiamo far fuori?».
Si farà silenzio intorno a me
e qualcuno chiederà «chi dovrà morire?»
ed allora mi udranno dire «Tutti»
e ad ogni testa mozza farò «Oplà!».

Come nelle favole, viene notata da un impresario per la sua avvenenza, mentre fa la bigliettaia al botteghino del Cineteatro Iris: più piccola e più piatta delle donne in voga all'epoca, Carla ha due occhi enormi e magnetici che mangiano il mondo. Testate le sue capacità canore, viene buttata in scena nel 1922, vi resterà per 58 anni ancora, fino alla settimana prima di morire. I due fratelli minori Mity e Tòto la seguono presto in qualità di ballerini. Come nelle favole Milly trionfa e viene notata anche dal principe ereditario Umberto, col quale ha una storia d'amore, che ne rafforza la leggenda. Tentata dal cinema e da Brodway e insofferente al provincialismo italiano, questa professionista venuta dal nulla, che parla alla perfezione anche il francese e l'inglese, fa qualche stagione a Parigi e nel 1936 si trasferisce negli Stati Uniti, dove resta dieci anni.
Torna in Italia finalmente senza problemi economici, ma pressoché dimenticata e ricomincia con la rivista e parti secondarie nel nascente cinema neorealista. Ma sente che la sua vocazione è oramai il teatro di prosa. Affronta provino su provino, con umiltà, con coraggio, come una debuttante di 51 anni.
Però è proprio la sua versatilità, quell'aria così Mitteleuropea che è sopravvissuta all'orrore della guerra, quell'aura da sciantosa solenne e decadente a folgorare Streheler per la storica messa in scena dell'“Opera da tre soldi” che lo stesso autore definì “una resurrezione”. Al fianco di mostri sacri quali Tino Carraro, Mario Carotenuto, Tino Buazzelli, Milly è la vera rivelazione dello spettacolo.
Paolo Grassi se ne innamora e le fa costruire, dal giovane regista Filippo Crivelli, una serie di recital indimenticabili: Le canzoni di Milly 1963, L'amore e la guerra 1966, Donna amata dolcissima 1969, Tutto il mondo va in cerca d'amore 1972, Tante storie d'amore e di follia 1973. Fra questi c'è anche lo storico Milanin Milanon del 1962, nel quale debutta un giovane medico-pianista che si chiama Enzo Jannacci. Lo spettacolo monstre che racchiude tutti gli altri è Canzoni come costume, canzoni come civiltà che debutta nell'aprile del '75 alla Piccola Scala: un tour de force di 53 canzoni senza un momento di riposo. Milly prepara tutto senza batter ciglio, ha un'unica perplessità “detesto i teatri importanti, mi mettono ansia”.
Intanto anche le televisione l'ha riscoperta e la invita ripetutamente, fino a ingaggiarla come ospite fisso del varietà Studio Uno nel biennio '65-66... ma a Milly la televisione non piace affatto, non le piace quel modo approssimativo di lavorare, non le piace non poter gestire i propri tempi teatrali, non le piace soprattutto il personaggio di signora affascinante che interpreta le vecchie canzoni dei tempi andati. Milly è semmai tentata dal nuovo: adora i cantautori, è fra le prime a interpretare due canzoni di Fabrizio de André (La guerra di Piero e Il pescatore), si è avvicinata alla canzone popolare per tramite di Crivelli – che è anche il regista dei fondamentali spettacoli promossi dal Nuovo Canzoniere, quali lo storico Bella Ciao del 1964 –, e sollecita agli autori della nuova scena impegnata, come Ivan della Mea, canzoni tutte per sé.
Alla soglia dei 75 anni Milly – la più grande interprete italiana – si propone in faticose tournée ai quattro angoli della penisola. L'ultimo spettacolo debutta a Palermo nell'estate del 1980. Milly chiede al regista il permesso di portare scarpe più basse perché le si son gonfiate le caviglie e – cosa del tutto inaudita per lei – di tagliare un paio di canzoni dalla scaletta.
Poi, finite le repliche della stagione, dice di essere “un po' stanca” e torna a casa a riposarsi.

Alessio Lega
alessiolegaconcerti@gmail.com