rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013



Album bianco

di Marco Pandin



Crisi o non crisi, non mi sono mai girate grosse cifre per le tasche, e ho sempre cercato di non esagerare con la mia passione per la musica. Sebbene mi riesca più facile restare senza mangiare che restare senza leggere e/o senza ascoltare, la mia curiosità vorace si arrende in fretta all'assalto degli scrupoli e del senso di responsabilità familiare così cerco di limitare gli acquisti. Certo, mi era già capitato di comprare due volte lo stesso disco: sapete com'è, sono un po' fissato e magari tanto tempo prima quel certo disco che avevo già preso su vinile l'ho poi ricomprato su cd. Oppure m'è capitato di mettere le mani su di una nuova versione di un cd già acquistato in precedenza, metti un'occasione fra gli usati, o uno scambio. A volte è stato proprio per errore, una dimenticanza.
Qualche volta, lo ammetto, sono caduto nella trappola delle cosiddette “deluxe edition” o addirittura ho preso la fregatura della stessa musica rimessa in circolazione dentro ad una diversa copertina. Non mi era invece mai successo prima di acquistare più volte e deliberatamente una nuova versione di un libro: quest'ultima – la terza – (ed. Il Saggiatore, 19,50 euro) è in giro da quasi un paio d'anni. Ne avevo preso, una dozzina d'anni fa quand'erano uscite, anche le due edizioni precedenti. La seconda differiva dalla prima, come la terza dalla seconda, per alcune aggiunte che trovavo (e trovo) significative. Ma il motivo vero era che avevo proprio voglia di rileggerlo: vabbé, si potrebbe dire che in fondo era la stessa storia raccontata dalla stessa voce, ma mi affascinavano le differenze sottili, le pause ed i respiri nuovi, qualche sorriso e qualche sospiro spostato di riga. Più calzante è però il paragone con le diverse occasioni di assistere a un concerto dal vivo di uno stesso musicista: un'esibizione di oggi non è quella offerta lo scorso anno, ed ancor meno è accostabile ad una di dieci anni fa.
Il libro, dicevo, è uscito nel 2011. Non ho molte giustificazioni per non averne parlato qui prima, forse l'unica vera scusa è che trovo sia un libro piuttosto importante e temevo di non trovare le parole giuste. L'ha scritto un musicista che seguo da quand'ero un ragazzino, e che ho poi incontrato di persona più volte: potrei dire, esagerando un pochino, che in mezzo a queste pagine ho ritrovato qualche pezzettino della mia vita. Dico invece, senza esagerare, che ho respirato anch'io un po' di quell'aria e ascoltato tanta della musica che si sente qui dentro. Sì, perché questo libro “suona”. Anzi, togliamo quelle virgolette inutili: questo libro suona per davvero. L'ho preso e l'ho preso ancora perché avevo voglia di riascoltare questa musica.
L'autore è Franco Fabbri degli Stormy Six, un collettivo musicale che tra il 1965 e la prima metà degli anni ottanta ha esplorato il beat per approdare agli inni di piazza e si è poi spinto ad esperimenti di musica totale dove le differenze stilistiche tra rock e jazz sono divenute del tutto prive di spessore. Non è stata, la loro, una ricerca spinta dalla necessità di adeguarsi alle sempre nuove tendenze del mercato: direi piuttosto che il loro è stato un viaggio avventuroso attraverso tempeste e fortune alterne, ben stretta in mano una bussola commercialmente inadatta di nome “coerenza”. Un viaggio ostinatamente controcorrente, le cartografie musicali di queste ultime (quasi) cinque decadi hanno riportato gli Stormy Six sempre fuori posto, sempre un po' più in là, sempre un po' troppo avanti. Troppo problematici per essere beat, troppo “popular” tra i gruppi pop, troppo impegnati tra i gruppi rock, troppo complicati tra i gruppi progressive, troppo polemici per restare a galla tra le nuove ondate.

Berlino, 16 febbraio 1980 - Franco Fabbri
alla Werner-Seelebinder Halle

Alla metà degli anni settanta fondarono un'etichetta discografica indipendente (la cooperativa l'Orchestra) raccogliendosi con altri musicisti e contribuendo a tessere una rete di scambi e collaborazioni attiva in tutta Europa denominata Rock in Opposition: l'avessero fatto in questi anni avrebbero ricevuto dei fondi. Al tempo, per farli tacere fecero semplicemente sparire i loro dischi dai negozi. A fermarli, più che la censura bastarono le leggi del mercato: nonostante riconoscimenti e buone vendite all'estero si ritrovarono del tutto emarginati proprio in quell'Italia dove slogan pubblicitari come “il rock italiano cantato in italiano” significavano tutt'altra roba più gradita al signor padrone.

Roma (data imprecisata, 1981-1982), da sinistra Giorgio Albani,
Pino Martini, Franco Fabbri, Umberto Fiori, Salvatore Garau,
Tommaso Leddi: la formazione di “Al volo”

Irriducibili, e per questo presto depredati dell'intera loro produzione discografica, tra gli anni ottanta e novanta gli Stormy Six sono stati ridotti a materiale da collezionisti. Nel 1993 un loro fortunato concerto-reunion per Radio Popolare di Milano è stato pubblicato su doppio cd, seguito da Megafono, una raccolta di vecchie registrazioni dal vivo ben restaurate da Tommaso Leddi (vedi segnalazione su “A” 256, estate 1999). Sull'onda della reunion sono state fatte circolare le ristampe su cd degli album Un biglietto del tram (1975), Cliché (1976), L'apprendista (1977), Macchina maccheronica (1980) e Al volo (1982), rese disponibili da poco tramite Rhino in un unico box piuttosto economico.
Il libro non serve ad approfondire, ma ad aprire la mente: è una testimonianza imprescindibile del come il paese sia cambiato raccontata attraverso i rumori di fondo, attraverso i suoni che rimbalzano da dentro le case fin sull'asfalto e finiscono in cielo. Lo raccomando agli affamati di musica, a chi non si accontenta delle spiegazioni facili, a chi resta affascinato dalle imprese possibili.
Rimando alla visita in rete del sito di Franco Fabbri (francofabbri.net), ai contributi in argomento di Gian Paolo Ragnoli su Nazione indiana (nazioneindiana.com) e alla lettura della lunga intervista di Alessandro Achilli e Paolo Chang pubblicata su Musiche #15 (primavera-estate 1994).

Marco Pandin